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23 Giugno 2025


La tutela “integrata” della vittima di violenza online nello spazio eurounitario


Il contributo qui di seguito pubblicato costituisce la versione scritta e ampliata della relazione tenuta dall’Autore nell’ambito del Convegno «La nozione di contenuto illecito online. Fattispecie e responsabilità penale nella prospettiva europea», svoltosi a Bologna il 29-30 novembre 2024, sotto il coordinamento scientifico di Kolis Summerer, Matteo L. Mattheudakis, Gian Marco Caletti e Paolo Beccari, i cui atti sono in corso di pubblicazione. L’Autore ringrazia i Curatori del volume per averne consentito l’anticipazione in questa Rivista.

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  1. Premessa: la cifra vittimocentrica del diritto dell’Unione europea tra ombre securitarie e luci solidaristiche

 

È circostanza nota che l’ordinamento dell’Unione europea esibisca una spiccata sensibilità per le istanze della vittima di reato[1]: all’interno dello stesso si può invero riconoscere un vero e proprio corpus normativo dedicato alla protezione delle vittime degli illeciti penali, i cui primi tasselli sono stati posati più di quarant’anni or sono, nel contesto dell’allora Comunità economica europea.

Un corpus che si è vieppiù espanso soprattutto dalla nascita dell’Unione europea, con l’istituzione di una politica criminale della medesima, e con il Trattato di Lisbona, grazie alla previsione dei «diritti delle vittime della criminalità» tra le materie su cui il Parlamento europeo e il Consiglio possono adottare direttive di armonizzazione penale (art. 82 §. 2, lett. c, TFUE)[2]. D’altra parte, proprio quest’ultima disposizione del Trattato costituisce la principale base giuridica sulla quale è stata varata la direttiva 2012/29/UE, che rappresenta all’oggi il testo dell’Unione più ampio dedicato alla tutela delle vittime di reato da una prospettiva generale[3]. È la direttiva stessa peraltro a fornire, all’art. 2, una definizione estesa di vittima[4], capace di ricomprendere al proprio interno diverse figure della tradizione giuridica nostrana (soggetto passivo del reato, persona offesa dal reato, danneggiato dal reato e parte civile)[5].

Dalla direttiva in questione emerge, poi, in maniera esplicita la portata vittimocentrica del diritto penale europeo, là dove – nel preambolo della stessa – si afferma che «un reato è non solo un torto alla società ma anche una violazione dei diritti individuali delle vittime». L’illecito penale in tal modo si concretizza, si individualizza sul suo versante passivo, in prospettiva complementare alla definizione di vittima fatta propria dalla direttiva stessa. Un concetto che si affranca dunque dalla nozione di reato, dal tenore “oggettivo-limitativa”, quale offesa ad un bene giuridico, con cui il penalista è abituato a misurarsi da circa due secoli[6]. In altri termini, si capovolge la prospettiva di intervento del diritto penale, sempre più coincidente con la politica criminale, che diviene per l’ordinamento dell’Unione la magna charta della vittima.

La sensibilità per le istanze della vittima di reato si sposa poi ideologicamente con la promozione da parte dell’Unione stessa della sicurezza quale valore “costituzionale” autonomo, di hobbesiana memoria[7], e non semplicemente come bene strumentale al godimento di altri diritti secondo la tradizione liberale[8]: all’interno del preambolo del Trattato UE, la sicurezza è invero declinata in senso privatistico[9], come “elemento costitutivo” dello spazio giuridico dell’Unione[10]; del pari, del resto, alla propensione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo – anch’essa segnata da marcati accenti vittimocentrici – a riconoscere a favore dei cittadini (“vittime potenziali”) un diritto alla sicurezza che lo Stato è chiamato a salvaguardare attraverso politiche penali allo scopo adeguate[11].

In ogni caso, nell’ordinamento eurounitario se da un canto la tutela delle vittime si estrinseca, prima facie, attraverso l’impiego “muscolare” dello strumento penale[12], in particolare esibito con obblighi di incriminazione non sempre ineccepibili sul fronte della rispettiva tenuta legalitario-garantistica[13]; dall’altro canto, si manifesta tramite un ampio corredo di misure di dissimile natura (processuali, risarcitorie, “amministrative”, ecc.), destinate ad offrire alle vittime una protezione “a largo spettro”, tanto ex ante (quindi alle vittime potenziali) quanto ex post (ovverosia alle vittime effettive).

In breve, si può dunque affermare che il diritto dell’Unione europea configuri un sistema di tutela delle vittime di reato dalla portata olistica o pluridirezionale[14], che combina istanze socialdifensive e solidaristiche in vista di un obiettivo comune.

 

 

  1. La persona offesa dal reato online quale soggetto vulnerabile della postmodernità

 

Destinataria preferenziale di questa strategia integrata di tutela è la vittima vulnerabile o particolarmente debole, che è stata qualificata come «supervittima»[15], giustappunto per rimarcare la posizione nodale dalla stessa ricoperta nel diritto dell’Unione[16].

Sennonché, il legislatore europeo si è finora astenuto dal tratteggiarne una definizione, verosimilmente a causa del carattere sfaccettato di questo concetto social-criminologico, declinabile da differenti angolature, come del resto testimoniato dalle diverse scelte adottate dagli Stati membri in materia[17]; nonché della volontà – emersa in particolare nella direttiva 2012/29/UE – di stabilire la vulnerabilità della vittima alla luce delle peculiarità del caso concreto (c.d. individual assessment), da cui possono emergere con maggior precisione i bisogni di volta in volta manifestati dalla singola persona offesa[18].

Ebbene, due sono le principali forme di vulnerabilità della vittima rilevanti in sede penale[19].

In primo luogo, si allude ad una vulnerabilità in senso soggettivo-relazionale (oppure ex ante), dove la debolezza della vittima è insita in particolari condizioni bio-fisiologiche di cui la stessa è portatrice (quali, per esempio, l’età, il genere, l’orientamento sessuale e la disabilità).

In secondo luogo, si richiama una vulnerabilità in senso oggettivo-situazionale, ove sono l’illecito penale, le relative modalità di realizzazione e le finalità criminose perseguite a determinare una condizione di debolezza nella persona offesa dal reato (ad esempio, il terrorismo, la criminalità organizzata, la circolazione stradale, la tortura e gli infortuni sul lavoro)[20].

Queste due espressioni della particolare debolezza della vittima sono del resto compendiate all’art. 90-quater, c.p.p., introdotto nel 2015, il quale – senza fornire una definizione generale – si limita a riconoscere la condizione di specifica vulnerabilità della persona offesa alla luce di «tre tipologie di indici, riferibili rispettivamente alle caratteristiche della persona offesa (età, stato di infermità, deficienza psichica, eventuale dipendenza dall’autore del reato), a quelle del reato (tipo di illecito, modalità dell’azione, circostanze del fatto, violenza nel praticare la condotta) e alla finalità criminosa dell’agente (odio razziale, terrorismo, criminalità organizzata, discriminazione)»[21]. Viene in tal guisa a manifestarsi una categoria oltremodo elastica, idonea a consentire l’esercizio della più piena discrezionalità – sotto il profilo processuale – da parte dei giudici nell’individuazione delle persone offese in concreto bisognose di specifiche forme di protezione, nonché – sotto il profilo sostanziale – da parte dei legislatori nelle proprie scelte di incriminazione.

Peraltro in particolari circostanze le due tipologie di vulnerabilità possono finanche combinarsi: si pensi alle varie forme di riduzione in schiavitù, che si caratterizzano per annientare la personalità della vittima, già talora contraddistinta da una intrinseca debolezza soggettiva (legata, ad esempio, all’età o alla condizione di disabilità).

La categoria della vulnerabilità appare in sostanza storicizzata, giacché il suo perimetro è venuto nel corso del tempo ad espandersi in ragione delle trasformazioni socio-culturali che hanno modificato la sensibilità comune verso precipue categorie di soggetti, e delle trasformazioni tecnologico-produttive capaci di generare nuove situazioni di pericolo per beni di differente natura. Con conseguenze nello specifico percepibili sul campo penale: con riferimento alle prime, può rammentarsi la differenza tra le forme di tutela accorate dal codice Rocco alla donna e il volto attuale della legislazione penale a protezione della stessa[22]; nonché l’esperienza di numerosi Paesi dell’area occidentale, dove si è passati in un arco temporale non troppo ampio dall’incriminazione delle relazioni omosessuali alla previsione di forme rafforzate di tutela nei confronti delle persone appartenenti alla comunità LGBTQ+[23]. Quanto alle seconde invece, si può ad esempio citare la risposta punitiva sempre più severa adottata nei confronti della criminalità stradale[24].

Nei decenni più recenti l’evoluzione tecnologica ha financo generato una nuova figura di vittima vulnerabile, ovverosia la persona offesa dall’illecito realizzato grazie ai supporti informatici e telematici, la quale esibisce una forma di debolezza che potrebbe a primo acchito sfuggire all’osservatore. Più precisamente, il cyber delinquente può per un verso sfruttare una pregressa condizione di vulnerabilità della vittima, la cui minorata capacità di difesa risulta aggravata proprio dallo spazio virtuale dove viene commesso il reato (si pensi all’adescamento di minori online a fine di sfruttamento sessuale o di pedopornografia); oppure per altro verso può avvalersi della rete per la consumazione di illeciti penali a danni di individui privi di una pregresso status di debolezza (per esempio, truffe online e clonazione dei mezzi di pagamento elettronici). Tant’è che si è osservato come le vittime del cybercrime incarnino spesso il “cittadino medio”, vale a dire quell’individuo le cui condizioni socioeconomiche e culturali lo collocano nella media nazionale[25]. In altre parole, si tratta una vulnerabilità che si generalizza: forse provocatoriamente, lo spazio virtuale potrebbe essere assimilato ad un novello status di natura, dove la vulnerabilità rappresenta una condizione ontologica di ogni essere umano[26].

Tornando alla dimensione eurounitaria, se si osservano in prospettiva sinottica i testi penali dell’Unione dedicati alla protezione di specifiche categorie di vittime, ci si può accorgere come i riferimenti alla modalità di realizzazione del reato online siano nel tempo incrementati, poiché la comunicazione digitale ha conosciuto forme sempre più sofisticate, utilizzabili con le più disparate finalità criminali[27].

In ogni modo, le due fonti penali dell’Unione in cui ricorre più spesso l’espressione “online” sono la direttiva 2019/713/UE concernente la lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti (dove la suddetta espressione compare otto volte)[28] e la recente direttiva 2024/1385/UE sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (dove tale espressione è impiegata ben cinquantotto volte)[29].

Rispetto alla direttiva in materia di frodi e falsificazione dei mezzi di pagamento viene in rilievo una vulnerabilità della vittima in senso oggettivo-situazionale, una vulnerabilità “diffusa” in quanto capace di coinvolgere chicchessia, spesso con un evento singolo; mentre nella direttiva 2024/1384 viene principalmente a manifestarsi una vulnerabilità in senso soggettivo-relazionale, che è sfruttata e acuita dal mezzo telematico, spesso attraverso plurimi episodi. Ed è proprio su quest’ultimo testo che si focalizzerà la lente d’ingrandimento nel prosieguo della trattazione, giacché tale scelta consente di riflettere in ordine al concetto di “violenza online”, il quale ha acquisito nei tempi recenti una rilevanza fattuale vieppiù significativa[30], con il coinvolgimento di categorie soggettivamente deboli (minori, donne), alla cui tutela è per l’appunto rivolta la direttiva 2024/1385.

 

 

  1. La tutela delle vittime di violenza digitale nel quadro della direttiva 2024/1385/UE

 

Muovendo dalla componente strettamente penalistica del testo, si può constatare che ben quattro dei sei obblighi di incriminazione previsti dallo stesso sono contraddistinti da una modalità online della condotta: condivisione non consensuale di materiale intimo o manipolato (art. 5), stalking online (art. 6), molestie online (art. 7), istigazione alla violenza o all’odio online (art. 8). Si tratta di una scelta politico-criminale empiricamente fondata, stante che lo spazio digitale ha reso possibili forme di offesa alla persona, in particolare contro le donne, talvolta estranee al perimetro di tipicità delle più tradizionali incriminazioni contro la libertà morale e sessuale, pensate per l’universo offline.

Da un profilo criminologico si può riscontrare una contiguità divenuta vieppiù stretta fra lo spazio digitale e quello reale: al punto che forme di violenza iniziate nell’uno possono proseguire nell’altro e viceversa, magari pure intensificandosi nella loro potenzialità offensiva all’interno del cyberspace a causa appunto delle caratteristiche “esistenziali” di quest’ultimo, di cui la norma penale dovrebbe tenere conto[31]. Del resto, questa intersezione tra mondo reale e mondo virtuale sembra riprodursi sulla fisionomia stessa delle vittime della violenza online, le quali si incarnano essenzialmente in tre differenti figure: «quelle che sono state o sono abusate nell’ambito del proprio ambiente relazionale-sociale, le cui immagini di abusi sono distribuite attraverso i new media; quelle che sono adescate on-line e che successivamente sono abusate nel contesto reale; quelle che sono adescate ed abusate on-line»[32].

Negli anni più recenti si è statisticamente registrato un rapido incremento degli episodi di violenza via web ai danni delle donne, soprattutto durante l’emergenza pandemica, che ha indotto il legislatore europeo a predisporre una risposta preventivo-repressiva “mirata” verso tale fenomeno, anzitutto mediante obblighi d’incriminazione specifici, non ricompresi nella Convenzione di Istanbul[33]. Peraltro, proprio gli obblighi di penalizzazione connessi al mezzo digitale sembrano essere quelli supportati da una base giuridica più pacifica all’interno del TFUE, ovverosia riconoscibile nel concetto di «“criminalità informatica” che, essendo riferibile tanto ai reati informatici propri quanto ai reati informatici impropri, comprende senza difficoltà le forme di violenza online contro le donne»[34].

Le vittime della violenza online possono esibire sul piano personologico una vulnerabilità rafforzata, che la direttiva de qua sembra valutare: invero, nel considerando n. 17 della medesima, si afferma che i mezzi digitali sono capaci di «amplificare in modo significativo la gravità dell’impatto dannoso del reato», che può coinvolgere persone già di per sé vulnerabili (per genere, come nel testo in oggetto, muovendo dalla visione più tradizionale che riconnette ex ante al sesso femminile una vulnerabilità ontologica)[35]. Lo stesso considerando enuncia poi alcune categorie di donne più frequentemente destinatarie di questa forma di violenza, vale a dire le rappresentanti politiche, le giornaliste e difensore dei diritti umani e, dunque, figure socialmente più esposte ed affrancate dalle logiche culturali che alimentano i reati di genere.

In ragione della sua “insidiosità”, la violenza digitale può provocare nelle corrispondenti vittime offese multiple – ovverosia alla tranquillità individuale, alla integrità psico-fisica, alla libertà sessuale e, financo, alla dignità delle stesse – innescando talvolta un processo di “autovittimizzazione” nei suoi destinatari: a titolo di esempio, «La consapevolezza, da parte della vittima, soprattutto adolescente, di aver innescato, per ingenuità o imprudenza, il processo di diffusione delle proprie immagini intime porta, quasi sempre, a cambiamenti improvvisi nel comportamento, come ad esempio alterazioni delle abitudini alimentari (anoressia, bulimia), fobie, malesseri psicosomatici, atteggiamenti isterici e di ribellione, disturbi del sonno, atti di autolesionismo e tentativi di suicidio»[36]. Senza contare, poi, che la distanza fisica esistente tra gli autori di siffatte condotte e le rispettive vittime può favorire una “de-personalizzazione” di queste ultime agli occhi dei primi; come pure che l’anonimato, di cui beneficiano spesso i cyber delinquenti (celati dietro nikename), può alimentare un timore generalizzato delle vittime verso il prossimo.

La violenza online incarna quindi un fenomeno criminoso complesso, in continuo divenire, rispetto al quale deve essere fornita una risposta stratificata, ripetutamente soggetta a rinnovamento, che passa attraverso la convergenza sinergica di strumenti preventivo-repressivi di differente natura[37], anche con riferimento alla protezione delle vittime.

E giustappunto in tale direzione sembra muoversi la direttiva 2024/1385, sulla scorta di quell’approccio olistico da tempo sperimentato dal diritto dell’Unione europea in materia. Infatti, accanto ai succitati obblighi d’incriminazione, essa stabilisce forme di tutela effettiva rivolte alle donne vittime di cyber violenza: più in particolare, gli Stati membri sono invitati a disporre canali accessibili e prontamente disponibili per denunciare atti di violenza, compresa la possibilità di sporgere denuncia e di presentare prove online almeno per i reati informatici; nonché a dotarsi di strumenti investigativi efficienti. Sulla falsariga del modello fatto proprio dalla direttiva 2012/29/UE, è previsto poi un individual assessment delle esigenze di protezione e assistenza delle vittime, mediante la predisposizione di appositi servizi di supporto, compresa la possibilità di emettere ordini urgenti di allontanamento e di protezione. Sono inoltre contenute nel testo alcune disposizioni per l’adozione di misure dirette alla rimozione del materiale online, per la limitazione delle prove sul comportamento sessuale passato della vittima e sul risarcimento integrale del danno.

Sono così le nuove tecnologie stesse a ricoprire un ruolo prezioso in quest’azione di tutela verso le vittime della violenza digitale, disvelando in tal modo una loro duplice fisionomia: strumento criminogeno da un lato e di supporto delle vittime di comportamenti violenti posti magari in essere servendosi delle medesime tecnologie dall’altro lato[38]. In ossequio agli insegnamenti oramai consolidati della vittimologia[39], la direttiva insiste poi sulla necessità che gli Stati provvedano alla formazione e all’informazione dei funzionari, come gli agenti di polizia e il personale giudiziario, che hanno la probabilità di entrare in contatto con le tipologie di vittime in parola. Si tratta di una esigenza più che mai avvertita rispetto alla persona offesa dall’illecito online, la quale è particolarmente esposta al rischio di vittimizzazione secondaria, che può essere appunto alimentato da un’inadeguata competenza degli appartenenti alle forze dell’ordine e alla magistratura a rapportarsi con le persone che hanno subìto questi “nuovi” reati, capaci d’intaccare la dimensione più intima dell’individuo.

 

 

4. (Segue) I limiti dell’approccio victim oriented adottato dalla direttiva

 

Si può in definitiva riconoscere una caratura vittimologica integrale al testo in parola, che orienta – come si è accennato – le modalità di risposta alla violenza contro le donne fornite dallo stesso. Ma proprio questa vocazione victim oriented della direttiva 2024/1385 se da un lato ne rappresenta un pregio, dall’altro lato alimenta verosimilmente alcune criticità dello stesso che agli occhi del penalista non possono sfuggire.

In primo luogo, come sovente accade nelle incriminazioni nate con esigenze di tutela delle vittime, anche gli obblighi di penalizzazione ricompresi nella direttiva de qua sono talora descritti con espressioni lessicali di origine sociologica, che dovrebbero riprodurre i fenomeni in termini “realistici, non sempre tuttavia capaci di assicurare le esigenze di determinatezza connesse al fondamento legalitario del nostrano diritto penale costituzionale[40]. Un esempio in tal senso emblematico si ritrova nello stalking online (art. 6 della direttiva), là dove è condizionata al carattere continuativo (o in alternativa ripetuto) la penale rilevanza delle condotte con cui il soggetto agente sottoponga un’altra persona a sorveglianza tramite tecnologie dell’informazione della comunicazione[41]. Si impiega un concetto temporale dal significato indefinito, il cui perimetro di tipicità deve essere in sostanza ricostruito dall’interprete.

In secondo luogo, la norma incriminatrice vittimocentrica si caratterizza talora per impiegare formule linguistiche non solo scarsamente determinate, ma anche deficitarie sul fronte dell’offensività[42], a cui il legislatore ricorre con un intento preventivo di anticipazione della soglia di tipicità dei fatti. Nel testo in esame potrebbero risultare problematiche in tal senso le ipotesi in cui la direttiva circoscrive l’illiceità penale delle condotte alla loro attitudine a provocare «un danno grave» alle persone; circostanza, questa, espressiva di un disvalore di azione non sempre chiaramente riconoscibile, su cui si può dunque pervenire a soluzioni differenti a seconda delle diverse sensibilità dei giudici coinvolti[43]. Nondimeno, la direttiva in questione si mostra sul punto più prudente rispetto a precedenti testi penali dell’Unione, che si caratterizzano per incriminazioni assolutamente carenti in termini di offensività: il caso più significativo al riguardo è con verosimiglianza quello della pedopornografia virtuale, secondo quanto previsto all’art. 2, lett. c) iii, della direttiva 2011/92/UE, dove manca financo l’offesa ad una vittima in carne e ossa[44].

In terzo luogo, la fonte in esame non sembra adeguatamente promuovere le politiche preventive, diverse da quelle di natura penale, rivolte agli autori delle condotte di violenza contro le donne (anche online). Essa prevede certo da un canto (agli artt. 34 e ss.) l’obbligo, per gli Stati membri, di adottare misure capaci di contrastare gli stereotipi di genere dannosi, agevolando cambiamenti comportamentali in tutta la società (art. 34), compresi quelli radicati nei rapporti di potere storicamente iniqui tra uomini e donne o basati su ruoli stereotipati di donna e uomo (art. 35); tuttavia, dall’altro canto, omette per esempio di richiamare i programmi di recupero per uomini violenti (specie se indagati o imputati), che al contrario le legislazioni nazionali cominciano a predisporre, tra cui finanche quella italiana (per esempio, in rapporto agli obblighi cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena)[45].

È stato peraltro osservato che la direttiva, pur se nel considerando dieci riconosce nella violenza in oggetto «una manifestazione persistente della discriminazione strutturale nei confronti delle donne, derivante da rapporti di potere storicamente iniqui tra donne e uomini», non sembra adeguatamente valorizzare, nelle sue disposizioni, «il carattere strutturale e culturale della violenza contro le donne e della violenza domestica»[46], che imporrebbe un intervento mirato proprio per incidere sul retroterra culturale che favorisce il fenomeno[47].

La promozione dei programmi di recupero per uomini maltrattanti, magari corredati a strumenti sanzionatori a carattere non detentivo (preferibilmente di natura prescrittiva)[48], verrebbe a valorizzare una dimensione solidaristico-risocializzativa della pena, trascurata dalle scelte punitive (perlopiù carcerarie) dell’Unione rispetto ai reati oggetto di armonizzazione[49], in ossequio alla vocazione spiccatamente generalpreventiva del diritto penale europeo[50].

A nostro avviso, pure attraverso il binario della sanzione penale si dovrebbe invece incoraggiare un intervento sui fattori di natura sociale lato sensu “causali” rispetto alla criminalità di genere, diretto a promuovere la comprensione dei gravi pregiudizi arrecati alle vittime della stessa, spesso de-umanizzate dagli autori; senza volere certo trascurare le esigenze di neutralizzazione del delinquente pericoloso più che mai imprescindibili nel contesto in oggetto, la cui dimensione artificiale consente al reo di “occultarsi” con facilità, e conseguentemente di reiterare i propri comportamenti violenti.

Nella succitata prospettiva di “revisione culturale” e di riconoscimento delle vittime si dovrebbe per esempio valutare l’ingresso della giustizia riparativa tra le strategie messe in campo nella risposta ai reati in discussione; ponderando, beninteso, le comprensibili resistenze manifestate verso l’applicazione della restorative justice al fenomeno della violenza nelle relazioni strette, in ragione della difficile compatibilità tra le caratteristiche strutturali di quest’ultima (in particolare, la sopraffazione dell’autore verso la vittima)[51] e gli elementi costitutivi del paradigma dialogico-conciliativo (specie la volontarietà della partecipazione ai programmi)[52].

 

 

5. Considerazioni conclusive: input europei e politiche nazionali

 

Al netto delle sue criticità, in larga misura espressive di una più generale cifra ideologica della legislazione penale europea, la direttiva 2024/1385 sembra predisporre un armamentario piuttosto articolato per la tutela delle vittime della violenza online, con cui viene a perfezionarsi una strategia di intervento già da tempo collaudata dall’Unione.

Sovrapponendo idealmente il testo della direttiva con l’ordinamento domestico, le carenze di quest’ultimo non sembrano particolarmente gravi, quantomeno sulla carta.

Senza potere in questa sede procedere ad un’analisi puntuale della normativa nazionale in materia, ci si limiterà a poche riflessioni di sintesi.

Il legislatore del nostro Paese si è già apparentemente mosso nella direzione tracciata dalla direttiva 2024/1385, ovverosia verso una tutela integrata delle vittime femminili (reali e potenziali) dei reati posti in essere attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, al fine di rispondere ai numerosi bisogni di cui esse sono portatrici, sulla falsariga peraltro di quanto già in larga misura previsto dalla Convenzione di Istanbul.

Anzitutto, sul piano strettamente penale, solo alcuni sono gli obblighi di incriminazione fissati dalla direttiva rispetto ai quali l’ordinamento nostrano non risulta in tutto o in parte adempiente (per esempio, lo stalking online e le molestie online), con l’auspicio che siffatto adempimento avvenga tramite soluzioni capaci di contemperare le esigenze sottese agli obblighi stessi e i principi penalistici propri della tradizione costituzionale italiana.

Anche rispetto alle diversificate forme di supporto previste dalla direttiva a favore delle vittime dei reati di genere commessi online, la disciplina domestica sembra in buona misura già in linea con le prescrizioni europee: a titolo di esempio, anche in Italia è stata prevista l’istituzione di piattaforme informative in rete, di iniziative di sensibilizzazione attraverso i social media, di linee di ascolto telefonico, di siti web per le denunce, nonché la rimozione di immagini o video sessualmente espliciti su segnalazione della vittima, nel quadro di una più generale strategia di contrasto alla violenza contro le donne. In ogni caso, è necessario che tali strumenti di tutela siano effettivamente operativi, onde evitare che si verifichi una dissociazione tra la previsione normativa e la sua concretizzazione, come è stato rilevato giustappunto sul campo della tutela delle vittime della violenza nelle relazioni strette dal rapporto del Grevio; il quale ha riscontrato la principale criticità dell’ordinamento italiano nelle strategie di contrasto alla violenza contro le donne proprio nella distanza tra le disposizioni adottate in materia e la loro attuazione, evidenziando segnatamente un’applicazione disomogenea delle stesse sul territorio nazionale e una carenza di finanziamenti necessari per garantirne l’effettività[53].

Tornando alla parte introduttiva di queste note, si può osservare che gli input dell’Unione europea hanno certo contribuito ad imprimere quella manifesta svolta vittimocentrica alla legislazione penale domestica dei decenni più recenti. Tuttavia, gli aspetti di quest’ultima ispirati alle più retrive logiche neoretribuzionistiche, osservati con preoccupazione dalla dottrina[54], non costituiscono prevalentemente il frutto di impulsi provenienti dall’Unione, ma rappresentano la risposta a quotidiane istanze di penalità che originano dall’“interno”, vale a dire dalla comunità, veicolate dai mezzi di comunicazione e recepite a livello istituzionale per fini d’integrazione sistemica[55].

In definitiva i vincoli sovranazionali sono stati determinanti per lo sviluppo di una tutela “amministrativa” a favore della vittima di reato, terreno su cui il nostro legislatore ha tradizionalmente mostrato una scarsa attenzione. E forse l’esempio più significativo è sul punto offerto dall’istituto dell’indennizzo pubblico delle vittime dei reati intenzionali violenti, a cui si è giunti con estremo ritardo rispetto alle principali esperienze europee e solo a seguito di ripetute censure della Corte di giustizia, che hanno rilevato l’inadempimento delle prescrizioni contenute nella direttiva 2004/80/CE, per vero ancora oggi non del tutto rispettate[56]. Per giunta i vuoti di tutela sul campo dell’assistenza alle vittime di reato non sono mai stati adeguatamente denunciati dagli organi di informazione e dalle istituzioni (a cominciare dall’assenza di sportelli pubblici di ascolto omogeneamente distribuiti in tutte le regioni).

La tanto sbandierata attenzione politico-mediatica verso la vittima di reato si riduce invero in “litanie” standardizzate sull’inattitudine del sistema penale ad appagare quell’istanza di giustizia che sarebbe rivendicata da ogni persona offesa in nome di semplicistiche assolutizzazioni concettuali. D’altronde, una sensibilità progettuale verso i bisogni della vittima, espressiva di un umanesimo solidaristico di matrice costituzionale, non si presta ad una gestione “pubblicitaria” del tema, elettoralmente conveniente e a costo zero.

 

 

 

[1] In argomento v., per esempio, S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea. Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, a cura S. Allegrezza, H. Belluta, M. Gialuz, L. Lupária, Giappichelli, Torino, 2012, p. 1 ss.; M. del Tufo, La vittima di fronte al reato nell’orizzonte europeo, in Punire, mediare, riconciliare. Dalla giustizia penale internazionale alla rielaborazione dei conflitti individuali, a cura di G. Fiandaca e C. Visconti, Giappichelli, Torino, 2009, p. 107 ss.; M.L. Lanthiez, La clarification des fondaments européens des droits des victimes, in La victime sur la scène pénale en Europe, a cura di G. Giudicelli-Delage e C. Lazerges, Puf, Parigi, 2008, p. 145 ss.

[2] Per una panoramica sulla nascita e sullo sviluppo di questo corpus normativo v. D. Savy, La vittima dei reati nell’Unione europea. Le esigenze di tutela dei diritti fondamentali e la complementarietà della disciplina penale e civile, Milano, Giuffré, 2013, p. 19 ss.; volendo, M. Venturoli, La vittima nel sistema penale. Dall’oblio al protagonismo?, Jovene, Napoli, 2015, p. 96 ss.  

[3] A commento della direttiva v., tra gli altri, E.M. Catalano, La tutela della vittima nella direttiva 2012/29/UE e nella giurisprudenza della Corti europee, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1789 ss.; S. Allegrezza, Il ruolo della vittima nella direttiva 29/12/UE, in Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, a cura di L. Luparia, Wolters Kluwer – Cedam, Milano, 2015, p. 3 ss.; M. Bargis, H. Belluta, La direttiva 2012/29/UE : diritti minini della vittima nel processo penale, in Id. (a cura di), Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, Giappichelli, Torino, 2017, p. 15 ss..

[4] Secondo l’art. 2 §. 1 della direttiva, la vittima è «i) una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato; ii) un familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona».

[5] Tuttavia, solo di recente, con il d.lgs. n. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia), l’espressione “vittima del reato” è stata acquisita dall’ordinamento italiano – peraltro limitatamente al comparto della giustizia riparativa – per tradizione restio all’impiego di un concetto di origine criminologica, dai confini tanto indefiniti. Sul punto sia consentito rinviare a M. Venturoli, La vittima del reato tra riconoscimenti formali e nuovi orizzonti sanzionatori, in Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, a cura di D. Castronuovo, M. Donini, E. M. Mancuso, G. Varraso, Wolters Kluwer, Milano, 2023, p. 509 ss.

[6] Cfr., per tutti, M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, Giuffré, 2004, p. 12. Si è affermata tuttavia anche nella dottrina italiana un’autorevole voce incline a rileggere i reati contro la persona in termini di offesa a diritti soggettivi delle vittime, segnatamente con un intento di ripensare al ruolo della vittima nella teoria del reato (F. Viganò, Diritto penale e diritti della persona, in Studi in onore di Carlo Enrico Paliero, Tomo II, a cura di G. Mannozzi, C. Perini, M.M. Scoletta, C. Sotis, S.B. Taverriti, Giuffrè, Milano, 2022, p. 845 ss.; in risposta critica a questa lettura v. A. Cavaliere, Diritti’ anziché ‘beni giuridici’ e ‘principi’ in diritto penale? A proposito di un saggio di Francesco Viganò, in Sist. pen., 16 ottobre 2023).     

[7] In merito ai retaggi hobbesiani dell’europeismo penale v. C. Cupelli, Hobbes europeista? Diritto penale europeo, auctoritas e controlimiti, in Criminalia, 2013, p. 359.

[8] Per una puntuale panoramica sulle differenti espressioni del concetto di sicurezza nella materia penale v., per esempio, D. Pulitanò, Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 547 ss.; in argomento cfr., altresì, A. Bernardi, Il proteiforme concetto di sicurezza: riflessi in ambito penale, in Per il 70° Compleanno di Pierpaolo Zamorani. Scritti offerti dagli amici e dai colleghi di facoltà, a cura di L. Desanti, P. Ferretti, A.D. Manfredini, Giuffrè, Milano, 2009, p. 1 ss.

[9] Sulla trasformazione del concetto di sicurezza in senso “privatistico” cfr. T. Pitch, Il malinteso della vittima, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2022, p. 10 ss.  

[10] Nel preambolo del TUE è specificato l’intento di «agevolare la libera circolazione delle persone, garantendo nel contempo la sicurezza dei popoli, con l’istituzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia». Sempre quale strumento di difesa dalla criminalità è richiamata la sicurezza nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove, al § 2, è previsto che «…l’Unione […] pone la persona al centro della sua azione […] creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Critico verso la dimensione securitaria dell’Unione è, ad esempio, D. Negri, Dallo ‘scandalo’ della vicenda Taricco risorge il principio di legalità processuale, Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, a cura di in A. Bernardi e C. Cupelli, Jovene, Napoli, 2017, p. 297.

[11] Cfr. V. Valentini, Diritto penale intertemporale, Logiche continentali ed ermeneutica europea, Giuffrè, Milano, 2012, p. 53, il quale osserva che «Secondo i giudici di Strasburgo, insomma, è il diritto fondamentale alla sicurezza e alla prevenzione (Menschenrecht auf Sicherheit) dei cittadini-potenziali vittime, a radicare il dovere fondamentale degli Stati di tranquillizzare-prevenire-proteggere (grundrechtliches Schutzflicht), a ciò funzionalizzando le strategie politiche criminali, le attività investigative e l’interpretazione del quadro normativo positivizzato: solo la punizione effettiva del reo, infatti, sembra capace di ricomporre il “cerchio della fiducia” (Rund-um-Vertrauens) e ristabilire una sensazione di sicurezza».

[12] Denuncia lo spirito “espansivo” del diritto penale europeo F. Giunta, Europa e diritto penale. Tra linee di sviluppo e nodi problematici, in Discrimen, 26 marzo 2020, p. 17, secondo cui «la politica criminale promossa dall’UE ha a cuore l’allineamento delle legislazioni lungo lo standard di tutela più elevato, trascurando di promuoverne un simmetrico adeguamento ai migliori livelli nazionali di garanzia».

[13] Cfr., per esempio, L. Foffani, Il “Manifesto sulla politica criminale europea”, in Criminalia, 2010, p. 657 ss.; C. Paonessa, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Edizioni ETS, Pisa, 2009, p. 193 ss.   

[14] Cfr., volendo, M. Venturoli, La tutela delle vittime nelle fonti europee, in Dir. pen. cont.Riv. trim., n.3/4, 2012, p. 100.

[15] S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, cit., p. 13.

[16] In argomento v., per esempio, F. Trapella, La tutela del vulnerabile. Regole europee, prassi devianti, possibili rimedi, in Arch. pen. web, 3 dicembre 2019; C. Amalfitano, La vittima vulnerabile nel diritto internazionale e dell’Unione europea, Riv. it. med. leg., 2018, p. 523 ss.; M. Gialuz, Lo statuto europeo delle vittime vulnerabili, in Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa ed Italia, a cura di S. Allegrezza, H. Belluta, M. Gialuz, L. Lupària, Giappichelli, Torino, 2012, p. 59 ss.

[17] Cfr. S.O. Vall-Llovera, Manifestaciones del derecho a la protección de la seguridad e integridad de la víctima menor, in La víctima menor de edad. Un estudio comparado Europa/America, a cura di T. Armentadeu e S.O. Vall-Llovera, Editorial Colex, Madrid, 2010, p. 202. Tali ragioni sono state peraltro riconosciute nelle conclusioni della Presidenza nella Conference for the protection of vulnerable victims and their standing in criminal proceedings svoltasi a Praga nel marzo 2009.

[18] Infatti, l’art. 22 della direttiva in oggetto stabilisce che «La valutazione individuale tiene conto, in particolare, degli elementi seguenti: a) le caratteristiche personali della vittima; b) il tipo o la natura del reato e; c) le circostanze del reato».

[19] Sulle differenti declinazioni della vulnerabilità nel diritto penale v. F. Palazzo, Soggetti vulnerabili e diritto penale, in La fragilità della persona nel processo penale, a cura di G. Spangher e A. Marandola, Giappichelli, Torino, 2021, p. 94 ss. 

[20] Per un maggior approfondimento delle differenti forme di manifestazione della vulnerabilità della vittima nella legislazione penale sia consentito a rinviare a M. Venturoli, La vulnerabilità della vittima di reato quale categoria “a geometria variabile” del diritto penale, in Riv. it. med. leg., 2018, p. 553 ss.

[21] Così Trapella, La tutela del vulnerabile. Regole europee, prassi devianti, possibili rimedi, cit., p. 9. Sulla nozione di cui all’art. 90-quater, c.p.p., v., tra gli altri, S. Quattrocolo, Vulnerabilità e individual assessment, in Vittima di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, a cura di M. Bargis e H. Belluta, Giappichelli, Torino, 2017, p. 301, secondo cui in generale «il concetto di vulnerabilità ha cominciato a delinearsi attraverso le sue conseguenze».

[22] In argomento cfr., per esempio, F. Basile, Violenza sulle donne e legge penale: a che punto siamo?, in Criminalia, 2018, p. 463 ss.; A. Costantini, Diritto penale e discriminazioni di genere, in GenIUS, 4 ottobre 2024, p. 1 ss.    

[23] Al riguardo M. Nussbaum, Disgusto e umanità. L’orientamento sessuale di fronte alla legge, Il Saggiatore, Milano, 2011, pp. 66 ss., parla di un passaggio da una politica criminale del «disgusto», inteso come «un rifiuto fondamentale della piena umanità dell’altro», ad una «politica dell’umanità», contraddistinta da un atteggiamento che «coniuga il rispetto con la curiosità e la capacità di immaginare l’altro».

[24] In argomento v., per esempio, A. Roiati, L’introduzione dell’omicidio stradale e l’inarrestabile ascesa del diritto penale delle differenziazioni, in Dir. pen. cont., 1° giugno 2016.

[25] Cfr. M. Tonellotto, Criminalità e cyberspazio, alcune riflessioni in materia di cybercriminalità, in Riv. vitt. crim. sic., vol. XVI, 2022, p. 13, il quale riporta gli studi in materia dei criminologi Yunger e Montoya.  Questi ultimi rilevano come la condizione di vittima in questo contesto sia trasversale al genere e all’età, anche se per le frodi online si registra un maggiore scostamento verso le donne di età più avanzata rispetto alle vittime delle frodi tradizionali.

[26] Del resto, il superamento della vendetta privata a favore della monopolizzazione dell’uso della forza da parte dello Stato, che scaturisce dal contratto sociale, si verrebbe per l’appunto a giustificare nella condizione di debolezza in cui versa ciascun individuo. In argomento cfr., amplius, O. Giolo, Conclusione. La vulnerabilità e la forza: un binomio antico da ritematizzare, in Vulnerabilità, etica, politica, diritto, a cura di M.G. Bernardini, B. Casalini, O. Giolo, L. Re, If Press, Roma, 2018, p. 347.

[27] Sul punto v., amplius, G. Marotta, Tecnologie dell’informazione e nuovi processi di vittimizzazione, in Riv. vitt. crim. sic., vol. VI, 2012, p. 93, secondo cui «Le nuove tecnologie, da un lato, hanno prodotto indubbi effetti positivi, dall’accelerazione della diffusione culturale alla comunicazione tra “mondi” prima sconosciuti, dall’altro sono diventate anche strumento di nuove modalità devianti e criminali». Cfr., altresì, E. Maestri, Stupri digitali: una questione di governance del cyberspazio, in Annali online della Didattica e della Formazione Docente, vol. 16, n. 27/2024, p. 27.

[28] In argomento, con particolare riguardo alla trasposizione del testo eurounitario, v. G. Jucan Sicignano, Recenti innovazioni in tema di frodi e falsificazioni di strumenti di pagamento diversi dai contanti, in Sist. pen., n. 9/2022, p. 5 ss. 

[31] Cfr. Maestri, Stupri digitali: una questione di governance del cyberspazio, cit., p. 28, il quale osserva che «Pur essendo una costruzione immateriale, il cyberspazio può essere percepito, udito e interagito. È caratterizzato da dinamicità, indefinito e in costante espansione; non esiste in isolamento ma è strettamente interconnesso con il mondo fisico. Le attività precedentemente svolte nello spazio fisico sono state trasferite nel cyberspazio, portando alla scoperta di nuove forme di criminalità che mirano alle fasce vulnerabili della società».

[32] G. Marotta, Tecnologie dell’informazione e nuovi processi di vittimizzazione, cit., p. 97.

[33] Cfr. M. Ferrari, Violenza contro le donne: l’Unione europea adotta finalmente la direttiva (UE) 2024/1385, in Eurojus.it rivista, 17 giugno 2024, p. 4. Sugli obblighi d’incriminazione della Convenzione di Istanbul v., tra gli altri, T. Vitarelli ed E. La Rosa, L’attuazione della Convenzione di Istanbul nell’ordinamento italiano: profili di rilevanza penale, in Ordinamento internazionale diritto umani, 2019, p. 1 ss. 

[34] A. Massaro, La direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, cit., p. 111.

[35] Cfr., al riguardo, le interessanti considerazioni di A. Massaro, Il malinteso della donna come vittima vulnerabile: il diritto penale di fronte ai gender-based crimes, in GenIus, 3 gennaio 2025, p. 16, la quale critica l’idea diffusa di una vulnerabilità “intrinseca” della donna, affermando che «La donna, in conclusione, non è (giuridicamente) vulnerabile in quanto (ontologicamente) debole, ma solo se in quanto si trova ad essere vittima di determinati reati».    

[36] G. Marotta, Tecnologie dell’informazione e nuovi processi di vittimizzazione, cit., p. 98.

[37] Lo stesso considerando 73 della direttiva evidenza una dimensione ampia della prevenzione del fenomeno in oggetto valorizzata dalla stessa, comprensiva di una prevenzione primaria, secondaria e terziaria. Secondo la direttiva, «Le misure preventive primarie dovrebbero mirare a prevenire il verificarsi della violenza e potrebbero includere azioni come campagne di sensibilizzazione e programmi educativi mirati per migliorare, presso il grande pubblico, la comprensione delle diverse manifestazioni di tutte le forme di violenza e delle loro conseguenze e per aumentare la conoscenza della nozione di consenso nelle relazioni interpersonali in età precoce. Le misure preventive secondarie dovrebbero mirare a individuare tempestivamente la violenza e a impedirne la progressione o l’escalation in una fase precoce. La prevenzione terziaria dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione della recidiva e della rivittimizzazione e sulla corretta gestione delle conseguenze della violenza e potrebbe comprendere la promozione dell'intervento degli astanti, dei centri di intervento precoce e dei programmi di intervento».

[38] A. Massaro, La direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, cit., p. 109.

[39] Cfr., tra gli altri, S. Sicurella, Lo studio della vititmologia per capire il ruolo della vittima, in Riv. crim. vitt. sic., n. 3/2012, p. 69.

[40] Sul punto sia consentito rinviare a M. Venturoli, La “centralizzazione” della vittima nel sistema penale contemporaneo tra impulsi sovranazionali e spinte populistiche, in Arch. pen. (web), 6 maggio 2021, p. 24. In merito alla dimensione costituzionale del principio di precisione/determinatezza v., per tutti, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2024, p. 82.

[41] Cfr. A. Massaro, La direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, cit., p. 120.

[42] Si tratta di un campionario piuttosto vasto, che spazia dalla materia del terrorismo ad alcune forme di negazionismo, passando attraverso la tutela penale dei “sentimenti”; sul punto v. M. Donini, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza come beni giuridici, a margine della categoria dell’”offense” di Joel Feinberg, in Laicità, valori e diritto penale, The Moral Limits of the Criminal Law, in ricordo di Joel Feinberg, a cura di A. Cadoppi, Giuffrè, Milano, 2010, p. 93

[43] Perplessità sollevata al riguardo pure da Massaro, La direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, cit., p. 120.

[44] Forma d’incriminazione in cui – come osserva D. Brunelli, Il diritto penale delle fattispecie criminose. Strumenti e percorsi per uno studio avanzato, Giappichelli, Torino, 2019, p. 46 – «fa difetto qualunque offesa anche potenziale alla persona reale del minore, ma si punisce unicamente un ‘tipo’ d’autore proclive all’immoralità, pedofilo virtuale, che manifesta appetiti sessuali disgustosi e riprovevoli».

[45] Cfr. A. Massaro, La direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, cit., p. 112. Quanto all’obbligo per gli autori di alcuni reati nelle relazioni strette di partecipare a specifici percorsi di recupero per poter beneficiare della sospensione condizionale della pena v. E. Biaggioni, La nuova disciplina della sospensione condizionale della pena ex art. 165 co. 5 c.p.: prime indicazioni operative, in Osservatorio contro la violenza sulle donne, n. 4/2021, in Sist. pen., 2 novembre 2021, § 4. Tuttavia M. Dova, La riforma Cartabia e il contrasto alla violenza contro le donne, in Sist. pen., 6 marzo 2024, osserva che nel d.lgs. n. 150/2022, «Anziché scommettere sulla pena detentiva, si sarebbe potuto potenziare, in modo più coerente, la partecipazione ai programmi per maltrattanti, per valutarne, in modo più compiuto, gli effetti specialpreventivi».

[46] A. Massaro, La direttiva UE 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, cit., p. 112.

[47] In via generale A. Costantini, Diritto penale e discriminazioni di genere, cit., p. 16, rileva condivisibilmente che «La ipervalorizzazione della componente “criminalizzante” delle fonti sovranazionali può finire, così, per offuscarne il messaggio più importante, costituito dalla necessità di incidere sulla matrice (ancora) fortemente culturale della violenza di genere». Rimarca altresì una non adeguata valorizzazione delle forme di prevenzione extrapenale nella legislazione dedicata al contrasto della violenza contro le donne M. Bertolino, Violenza e famiglia: attualità di un fenomeno antico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 1740; nella stessa direzione T. Vitarelli, Violenza contro le donne e bulimia repressiva, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 3/2020, p. 478.  

[48] Cfr., sul punto, E. Corn, Victimam non laedere. Verso nuove pene per i reati commessi in contesto di relazioni strette tra autore e vittima, Editoriale Scientifica Italiana, Napoli, 2023, p. 185 ss.

[49] Cfr. A. Martufi, La potestà punitiva nel diritto UE. Differenziazione dei modelli di tutela e modulazione delle garanzie penalistiche, Giappichelli, Torino, 2024, p. 229, il quale sottolinea «la tendenziale marginalizzazione delle sanzioni non custodiali nell’ambito delle pene edittali comminabili per i reati oggetto di armonizzazione».

[50] Cfr., volendo, M. Venturoli, Modelli di individualizzazione della pena. L’esperienza italiana e francese nella cornice europea, Giappichelli, Torino, 2020, p. 211 ss.

[51] Tant’è che secondo G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Torino, 2017, p. 358, «la vittima “ideale” rispetto a una gestione mediatoria del conflitto sia non già una vittima debole, bensì, ci si conceda il paradosso, una vittima forte».

[52] In argomento v., per esempio, A.aV.v., Giustizia riparativa e violenza di genere: un relazione pericolosa?, in Sist. pen., 9 dicembre 2024, raccolta di scritti che affrontano con accenti diversi il controverso rapporto tra i reati espressivi di una violenza di genere e la restorative justice.

[53] Sul punto v. N.M. Cardinale, Il rapporto del GREVIO sull’applicazione in Italia della Convenzione di Istanbul: il lavoro ancora da fare, in Criminal Justice Network, 13 maggio 2021.

[54] Cfr., per esempio, C. Bernasconi, Dalla vittimologia al vittimocentrismo: cosa resta della tradizione reocentrica?, in Criminalia, 2021, p. 209 ss.; G. Minicucci, Il diritto penale della vittima. Ricadute sistematiche e interpretative, in Discrimen, 17 ottobre 2020, p. 1 ss.

[55] Cfr. F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, il Mulino, Bologna, p. 33.

[56] Si veda CGUE, sez. V, sent. 7 novembre 2024, U.D., in C-126/23; per un commento di quest’ultima pronuncia sia consentito rinviare a M. Venturoli, Il sistema italiano di indennizzo pubblico a favore delle vittime dei reati intenzionali violenti nuovamente al vaglio della Corte di giustizia, in Riv. it. dir. proc. pen., 2025, in corso di pubblicazione.