ISSN 2704-8098
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  Scheda  
28 Marzo 2025


Chilling effect e governo del rischio lavorativo


Riportiamo di seguito il testo rivisto della relazione tenuta dall'Autore al convegno "La sicurezza sul lavoro tra individuo ed ente collettivo: prevenzione e rischi nell’economia che cambia", organizzato da INAIL e Unitelma Sapienza, tenutosi il 28 febbraio 2025 a Roma. 

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1. Il convegno organizzato dall’INAIL insieme ad Unitelma Sapienza costituisce una occasione esemplare e rara di condivisione di saperi diversi e di analisi del tema della sicurezza del lavoro da differenti angoli prospettici.

La scienza penalistica ha un approccio idealistico, astratto, valoriale, basato sulla classica considerazione dei beni giuridici, e delle categorie dogmatiche con le quali si tenta di catalogare e qualificare la inesauribile varietà dei comportamenti umani: garanzia, colpevolezza, pena, eccetera.

Questa classica e giustificata vocazione all’astrattezza, spesso, allontana lo sguardo dal mondo reale, dalla quotidianità, ed in particolare da un tema solo recentemente emerso in Italia: quello degli effetti collaterali delle discipline penali e soprattutto della loro applicazione giurisprudenziale.

Questi effetti collaterali sono il fisiologico portato della complessità delle interazioni sociali nelle quali la norma penale si inserisce. Tuttavia, alcuni effetti non voluti, indiretti, sono disfunzionali.  Essi sono da tempo studiati in altri ordinamenti: l’espressione chiave è chilling effect, variamente tradotta: effetto di raffreddamento, sterilizzazione, iperdeterrenza, effetto dissuasivo. In sintesi, un effetto inibitorio.

 

2. Nel campo del diritto penale talvolta si determina la combinazione di eccessiva ampiezza della regolamentazione, spropositata severità delle pene o della loro quantificazione nella prassi, indeterminatezza della norma o della sua interpretazione giurisprudenziale, oscurità confusa dell’interpretazione raccolta dalla collettività. Il connubio di temibile e spropositata severità, di oscurità del confine tra lecito ed illecito, di insostenibili costi umani ed economici del processo in sé oltre che della condanna, determina un sentimento di paura per l’eccesso di deterrenza, che a sua volta determina inibizione rispetto a comportamenti leciti o proprio doverosi connessi a diritti fondamentali. Questi comportamenti sono solo contigui rispetto a quelli vietati. Pensiamo al pubblico amministratore, al medico, all’imprenditore, al giornalista, al politico. Ed alla medicina difensiva, alla imprenditoria difensiva, alla burocrazia difensiva (la paura della firma). Si tratta di fenomeni noti, che hanno importanti e negative ricadute sociali sull’intera collettività.  

Il tema chiama in causa il legislatore. Qui solo un breve cenno: elidere o ridurre gli effetti di inibizione di condotte prossime a quelle prese di mira dalla incriminazione, in primo luogo dileguando il timore di sanzioni spropositate, frutto spesso di messaggi manifesto e contrarie al principio costituzionale di proporzione; curare l’accuratezza della descrizione dei comportamenti vietati; evitare fattispecie di eccessiva estensione; fornire indicatori utili alla graduazione dei fatti e delle pene; prevedere cause di non punibilità di comportamenti marginali.

Tuttavia, l’incertezza e la severità temute chiamano in campo soprattutto la giurisprudenza che interpreta ed applica le norme. In particolare, nel campo della sicurezza del lavoro pare che la severità della disciplina e soprattutto le incertezze nella sua applicazione determinino un peculiare effetto inibitorio, che si manifesta nella fuga dal ruolo di garanzia, spezzando la connessione tra ruolo, potere e responsabilità. L’esito finale è uno scorretto assetto della governance del rischio lavorativo. Il tema sollecita qualche approfondimento.

 

3. Senza dubbio, il sistema è ab origine improntato ad un connubio di speciale severità e complessità. La severità delle sanzioni previste per le fattispecie delittuose, che offrono anche una tutela anticipata, estesa al pericolo, può essere colta facilmente: recenti processi relativi a grandi eventi ne offrono testimonianza. D’altra parte, a partire dall’art. 2087 cod. civ. si disegna per il datore di lavoro un ruolo di garanzia di massima estensione: una pretesa da più parti ritenuta, forse non a torto, irrealistica, sovrumana. Poi, le innumerevoli cautele minutamente codificate. Infine, l’autonormazione: un impegno alquanto difficile da adempiere, sempre col timore dell’imperfezione.

Alla severità ed alla complessità si aggiunge una irrisolta istanza di certezze che riguarda il confine tra lecito ed illecito, la definizione del limite della pretesa cautelare e dell’impegno datoriale, soprattutto la chiara individuazione delle figure di garanti chiamate a gestire un determinato rischio.

Gli interrogativi sono molti. Qui basta solo un breve cenno:

L’art. 15 del T U enuncia la regola della minimizzazione del rischio, ma dove si colloca la linea di confine? Chi determina l’accettabilità del rischio?

Quali i criteri per accertare l’accreditamento scientifico delle leggi che con crescente frequenza entrano in campo per la spiegazione degli eventi e la valutazione dei comportamenti? Basti pensare ai numerosi processi per eventi letali dovuti all’esposizione dei lavoratori a sostanze dannose.

La colpa relazionale pure presenta insidie. Il coinvolgimento plurisoggettivo non rischia di estendere a dismisura la rilevanza di condotte che costituiscono frammenti non autosufficienti ed insignificanti della catena causale?

A proposito dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, poi, fin dove deve spingersi l’obbligo di proteggere l’operatore dai suoi stessi errori? È possibile distinguere tra vulnerabilità e stupidità, come proposto in dottrina? 

Quanto ai confini della disciplina di sistema: fin dove un accadimento può essere ritenuto un infortunio di lavoro?

A proposito di autonormazione: non siamo forse di fronte ad una elefantiasi confondente?  Fin dove il solitario autogoverno di un rischio di frontiera e scientificamente incerto? Si può chiedere alla capra di fare le scelte richieste al giardiniere? (per ripetere la metafora di un illustre giurista).

 

4. Questi (ed altri) temi problematici si confrontano con la giurisprudenza. Non sono mancati messaggi importanti dalla Corte costituzionale: le virtuose cautele standard quale parametro per conferire determinatezza alle regole cautelari vaghe; il bilanciamento dei valori costituzionali in gioco; il principio di proporzione.  

La Corte di cassazione, attingendo alla teoria del rischio, ha individuato il criterio della competenza per connettere ruoli e responsabilità, al fine di limitare la forza espansiva del sistema prevenzionistico imperniato su molteplici garanti e su procedure complesse. Ha pure tentato di conferire maggiore specificità ed oggettività alla cooperazione colposa, temperando il tradizionale, vago criterio psicologico. Soprattutto, negli ultimi anni è stato valorizzato con insistenza il momento soggettivo della colpa, importante valvola di sfogo del sistema che consente una analisi meno astratta delle condotte ed una maggiore considerazione delle peculiarità soggettive e di contesto caratteristiche di ciascuna vicenda, che possono rendere inesigibile la condotta doverosa.

Tuttavia, sarebbe ingannevole trascurare che molto spesso le indicate direttrici sono ignorate o eluse non solo nella giurisprudenza di merito, ma anche in quella di legittimità. Si ha l’impressione che, talvolta, la risposta processuale agli eventi avversi sia rapportata al numero delle vittime ed alle dimensioni dell’accadimento: molte vittime sollecitano l’individuazione di molti colpevoli e di pene in ogni caso più severe. Né si è del tutto dileguata l’antica idea che alla sfortunata vittima debba sempre offrirsi un capro espiatorio.

In ogni caso, assai spesso la pronunzia liberatoria giunge dopo un lungo iter processuale, carico di sofferenze personali e costi economici. L’effetto inibitorio sin qui evocato trova una insidiosa base proprio in questi costi.

Dunque, in sintesi, guardando le cose con realismo, l’impronta di severità ed imprevedibilità delle decisioni resta saldamente impressa nel sistema.

 

5. Come accennato, la paura determinata dalla iperdeterrenza suscita, tra l’altro, l’effetto inibitorio che si manifesta nella fuga dal ruolo datoriale. Il timore e la reazione trovano spiegazione ma non sono per intero giustificabili.

Da lungo tempo, soprattutto nelle organizzazioni di grandi dimensioni, è stata colta la difficoltà, per le figure di vertice, di farsi personalmente interpreti di tutti gli aspetti dell’impegno datoriale; e sono stati sollecitati interventi normativi e indirizzi giurisprudenziali che consentissero la delega a figure ad hoc, con effetto traslativo del ruolo di garanzia. La centralità dell’istituto sollecita una breve messa a fuoco.

Il dibattito dottrinale è intessuto di tesi diverse e talvolta opposte. L’indirizzo formale ha ritenuto che la veste soggettiva di datore di lavoro con le connesse responsabilità sia imposta dalla legge e costituisca un basilare elemento della tipicità penale, consentendo l’imputazione di eventi illeciti in capo alla persona chiamata a governare il bene protetto. Si tratta dunque di un ruolo assolutamente inderogabile, sicché il conferimento di una delega non estingue la posizione del garante primario. Simmetricamente, il delegato non si costituisce come nuovo garante. Con la delega il garante può solo far fronte all’obbligo legale chiedendo la collaborazione di altre figure. Tuttavia, ciò non produce effetti liberatori nei suoi confronti. La questione della responsabilità si sposta e si risolve sul piano della colpevolezza colposa e dell’apporto concorsuale.

L’opposto indirizzo funzionale si concentra sull’effettivo esercizio dei poteri e sui corrispondenti doveri di governo dei rischi. Pertanto, la delega estingue in radice il ruolo del garante originario, che viene conseguentemente esonerato da ogni responsabilità. Per contro il delegato assume su di sé in esclusiva tutti i tratti tipici del garante primario. In capo al datore di lavoro non residua neppure un obbligo di vigilanza.

Diverse teorie eclettiche hanno in vario modo prospettato l’integrazione tra le opposte tesi. La stessa giurisprudenza ha infine ammesso la possibilità della delega con effetto traslativo, spesso legandola alla impossibilità di adempiere personalmente a causa della complessità dell’organizzazione.

Il T. U. ha disciplinato la materia accuratamente e con equilibrio: si consente l’effetto traslativo del ruolo datoriale ma si richiedono, come è noto, alcune stringenti condizioni formali e sostanziali. La traslazione del ruolo è quasi piena, residuando in capo al leader dell’organizzazione la redazione del documento di valutazione dei rischi, la vigilanza sul delegato e la nomina del responsabile del Servizio di prevenzione e protezione. L’esercizio della vigilanza è stato disciplinato, al fine di sedare incertezze e timori. La funzione può essere affidata, con effetto sostanzialmente liberatorio, all’Organismo di vigilanza previsto dalla disciplina 231 (naturalmente con un incarico ad hoc). La disciplina della vigilanza, chiaramente ispirata dal proposito di non ingenerare timori sulla gestibilità di tale impegno, suggerisce una chiosa: qualunque seria strutturazione istituzionale dell’attività ispettiva nei confronti del delegato copre l’obbligo di vigilanza. D’altra parte, la stessa giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che si tratta di vigilanza alta, volta solo ad accertare che il delegato faccia fronte al suo compito.

D’altra parte, a proposito dell’impegno connesso alla redazione del documento di valutazione dei rischi, non va trascurato che tale compito vede il datore di lavoro affiancato dalle figure (il RSPP ed il medico competente) che introducono nel sistema della sicurezza del lavoro competenze tecniche e scientifiche. Il compito del datore di lavoro è di promuovere e coordinare l’attività di tali protagonisti e di tutte le altre figure dell’organizzazione coinvolte nella sicurezza. E la Corte di cassazione, anche a Sezioni unite, ha ritenuto che i due collaboratori siano portatori di una posizione di garanzia autonoma; con la conseguenza che il garante primario non è rimproverabile e non risponde quando l’inadeguatezza dell’atto sia dovuta proprio a costoro.

In conclusione, lo strumento della delega è ben delineato; e pare che lo stato della normazione consenta al leader dell’organizzazione, titolare dei poteri gestori, di trasferire in modo rassicurante i suoi obblighi mantenendo il limitato impegno residuale che si è detto. È questo il tipico modello legale di gestione dei ruoli di governo della sicurezza.

Tuttavia, questa lettura del sistema spesso non viene colta o non viene ritenuta sufficientemente rassicurante rispetto al rischio di coinvolgimento in vicende giudiziarie: evidentemente la iperdeterrenza inscritta nel sistema esercita un forte contrappeso. La fuga dal ruolo è la risposta.  Si tratta di una valutazione diffusa, comprensibile ma, come accennato, non giustificabile.

 

6. La insofferenza per il rischio residuale, inerente alla redazione del DVR ed alla vigilanza, determina diversi accorgimenti che forzano, eludono il fondamentale tratto di tipicità insito nell’assetto legale della governance del rischio.

In alcuni casi l’ente attribuisce artificiosamente il ruolo datoriale a figure dirigenziali che non interpretano realmente i disegni e le strategie dell’organizzazione. L’attribuzione di deleghe e subdeleghe determina a sua volta la ulteriore caduta a valle del baricentro dell’organizzazione della sicurezza. Come si vede, in questo disegno scompare (patologicamente) l’amministratore delegato, cioè la figura che, disponendo dei poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa è per legge, ai sensi degli artt. 2 e 199 del T.U., titolare del ruolo datoriale, alla stregua del principio di effettività.

Anche altri strumenti, con crescente frequenza, costruiscono in modo artificioso l’assetto organizzativo della gestione del rischio. Si tratta in primo luogo dello strumento organizzativo dell’unità produttiva previsto dal T.U.: la creazione di una entità dell’organizzazione dotata di piena autonomia consente l’attribuzione del ruolo datoriale al responsabile di tale apparato, con le deleghe e subdeleghe che ne conseguono secondo prassi. Lo strumento è riconosciuto e corrisponde ad esigenze di efficiente assetto di organizzazioni complesse ed articolate. Tuttavia, esso trova il suo presupposto nella effettiva esistenza, sul piano fenomenico, di una entità che abbia intrinseca, strutturale ragione di essere resa autonoma. Purtroppo, invece, si assiste alla artificiosa frammentazione dell’organizzazione in articolazioni che sono prive di caratteri che le identifichino e le distinguano da altre e che rendano utile, fisiologica, l’attribuzione di uno status di autogoverno nella forma della unità produttiva. Anche qui, dunque, si è spesso di fronte a creazioni artificiose, che servono ad allontanare e volgere al basso i ruoli e le responsabilità afferenti alla sicurezza del lavoro Si parla, in proposito, di modello organizzativo multidatoriale, espressione che designa un approccio deteriore alla governance del rischio tutte quante volte si è di fronte ad una frammentazione priva di oggettiva giustificazione, modellata dal proposito di flettere, forzare la tipica configurazione legale dei ruoli di garanzia.

Sul piano istituzionale, il più raffinato e complesso strumento di frammentazione del governo del rischio lavorativo è costituito dal gruppo societario. Anche qui, spesso, la proliferazione degli enti persegue non solo e non tanto logiche di direzione e coordinamento di distinte entità giuridiche che operano in differenti ambiti e che concertano la gestione dell’interesse di gruppo sotto la guida della Casa madre. Spesso la giuridica separazione è artificiosa e serve, tra l’altro, a edificare barriere di fragile carta per dare sfogo al chilling effect.

Naturalmente, l’esistenza di distinti enti giuridici propone suggestivamente l’idea della separazione, con tutti gli effetti che ne conseguono sul piano delle responsabilità.   Tuttavia, l’anelata separazione non è per nulla piena. Il Codice civile disciplina la materia dei gruppi societari non in chiave istituzionale, bensì proprio sul piano delle responsabilità; per disciplinare la regolazione dei danni determinati dalla scorretta gestione dei poteri di direzione e coordinamento affidati alla capogruppo. Ne emergono utili indicazioni: L’AD riferisce al CdA anche sui principali affari delle controllate (art. 2381). L’ amministratore esecutivo è responsabilità nei confronti dei soci e dei creditori delle controllate (art. 2497) I collegi sindacali si coordinano e possono richiedere informazioni anche sulle controllate (art. 2403 bis). I soci di minoranza possono denunciare irregolarità anche pertinenti alle controllate (art. 2409). La relazione sulla gestione riguarda anche le controllate (art. 2428). Insomma, la capogruppo (tramite le figure di vertice) deve dar conto nelle sedi istituzionali dell’attività delle controllate e non può neppure esimersi dall’esercitare forme di controllo sugli enti sottostanti (artt. 2403 bis e 2381 cod. civ.) Non stupisce, dunque, che sia pure con le doverose cautele volte ad evitare la indiscriminata proliferazione delle imputazioni cui la Corte di cassazione ha del resto dedicato e dedica particolare attenzione, in determinate situazioni si possa configurare l’ascesa delle responsabilità, dovuta a direttive, ingerenza, gestione di fatto, omissione di controllo.  

 Valutazioni non dissimili possono farsi per ciò che riguarda strumenti non istituzionali ma negoziali. Il pensiero si volge soprattutto all’appalto e subappalto, strumenti di cui è ben nota la diffusa utilizzazione per conseguire anche la traslazione dei rischi inerenti alla responsabilità per eventi avversi determinati da deficit della sicurezza. Costi economici e rischi da responsabilità insiti nella sicurezza del lavoro costituiscono, insieme ad altri fattori, cause importanti della patologica estensione di tali strumenti. Si tratta di temi tanto drammaticamente noti che, in questa succinta analisi, non pare necessario aggiungere altro.

Gli strumenti che si sono sommariamente menzionati, oltre ad essere artificiosi, sono poco utili all’interno di un sistema che la giurisprudenza e soprattutto l’art. 299 del T.U. consegnano al principio di effettività. In breve, è la competenza per l’attività, come modellata dalla realtà dell’organizzazione, che determina le competenze, i ruoli e le connesse responsabilità. E non sorprende, dunque, che di fronte a scelte aziendali esiziali per la sicurezza la responsabilità abbia riguardato, talvolta, l’intero consiglio di amministrazione o entità di vertice occulte.

 

7. Per concludere, la scena che si mostra a chi si occupa dei temi della sicurezza consta spesso di apparati regolativi artificiosi, cosmetici; che nascondono politiche aziendali reali (sottostanti) assai meno virtuose. In breve, tutti strumenti di elusione del sistema, che offrono capri espiatori; ed appaiono mossi dalla iperdeterrenza cui si è ripetutamente fatto cenno.

Spesso manca una reale adesione ai principi ed ai valori: l’accettazione delle responsabilità e dei costi della sicurezza; il personale coinvolgimento del leader dell’organizzazione, che tanta parte ha nell’ispirare l’orientamento dell’organizzazione. Insomma, il problema è la scorretta, deresponsabilizzata governance del rischio. Si ha l’impressione che questa diffusa situazione, insieme a numerosi altri fattori, abbia notevoli costi umani e sociali.

Naturalmente, le considerazioni che si sono proposte colgono, dall’angolo prospettico del diritto penale, solo frammenti di una realtà a dir poco complessa che la scienza dell’organizzazione ben conosce. Da tempo il modello integrato, meccanicistico, di organizzazione produttiva è stato sostituito da un modello frammentato: agilità, flessibilità, rapido adattamento, proceduralizzazione, digitalizzazione. Un sistema biologico; mosso dalla specializzazione produttiva, dal contenimento dei costi, dalla esternalizzazione di attività meno importanti e strategiche. Tuttavia, non si potrebbe negare che pure in questa più ampia e complessa rappresentazione, temi di deresponsabilizzazione, di riduzione dei costi della sicurezza siano vistosamente presenti.

Rientrando infine nel recinto del diritto penale, resta da chiedersi come l’iperdeterrenza ed il chilling effect possano essere temperati, guardando al mondo della giurisprudenza cui queste brevi considerazioni sono dedicate. La Corte di cassazione, come accennato, ha recentemente espresso innovativi principi a proposito della necessità di una sagace selezione, già all’avvio del processo, delle figure che, per via delle concrete competenze nella gestione del rischio, possono essere coinvolte, con umana sensatezza, nel giudizio di responsabilità. Ma non si può nascondere che tali principi sono spesso evocati, ripetuti in modo stereotipato, per essere di fatto subito dopo smentiti nel concreto costrutto della decisione. Inoltre, tali elaborazioni, che hanno una dichiarata vocazione selettiva, vengono non di rado coinvolte in sottili e spesso inutili dispute teoretiche, che ne minano la comprensione e l’utilizzazione. È soprattutto da auspicare che tali modelli teorici penetrino nel tessuto della giurisprudenza di merito ove, occorre pure riconoscerlo, le istanze di semplificazione e di selezione cui si è fatto cenno, si confrontano spesso con vicende di straordinaria complessità. L’esito sperato è che la sedazione del rischio connesso al ruolo datoriale incoraggi virtuose, corali organizzazioni del rischio lavorativo.