Come omaggiare un Maestro e al tempo stesso offrire una mappatura di una vita di ricerca, che al tempo stesso dia conto dei tratti fondamentali di un pensiero? La complessità della sfida è maggiore se quel penalista si chiama Gerhard Werle e se dunque l’opera deve rispecchiarne l’ampiezza della visione e il costante equilibrio fra aperture esplorative sul piano internazionale, storico e comparato, da un lato, e rigore sistematico e dogmatico, dall’altro. Eppure questa sfida è stata vinta dai tre curatori: Florian Jeßberger, già collaboratore e ora successore di Werle presso la cattedra di Strafrecht, Strafprozessrecht und Juristische Zeitgeschichte della Humboldt-Universität zu Berlin, Moritz Vormbaum e Boris Burghardt, già allievi di Werle. Il risultato è un volume di 987 pagine, che raccoglie 77 contributi di Autori tedeschi e di colleghi provenienti da Cile, Cina, Corea, Etiopia, Finlandia, Giappone, Italia, Kazakistan, Paesi Bassi, Regno Unito, Ruanda, Spagna, Stati Uniti, Sudafrica.
Allievo di Karl Lackner, Gerhard Werle fu fra i primi ad arrivare alla Humboldt Universiät dopo l’unificazione delle due Germanie[1]. È stato per alcuni anni docente anche fuori dall’Europa, in Sudafrica, e per dieci anni (2008-2018) direttore del South African-German Centre for Transnational Criminal Justice. Nella sua vasta produzione scientifica, Werle si è concentrato in particolare sul Systemunrecht, a partire dall’elaborazione del passato nazista[2] e dell’ex DDR,[3] per poi occuparsi della transizione sudafricana, e più di recente della giustizia di transizione in generale,[4] fino al diritto penale internazionale, che ha visto in Werle un vero e proprio pioniere fra i penalisti. In tempi in cui da molti la giustizia penale internazionale, ancora in fieri, veniva liquidata come “giustizia politica” o al più un tema da lasciare agli internazionalisti, Werle cercava di coniugare l’esigenza di lotta all’impunità con l’approccio rigoroso del penalista tedesco, la dimensione internazionale sul piano delle fonti e della persecuzione con l’essenza strettamente penale dei processi per crimini internazionali. Il suo manuale Völkerstrafrecht (oggi a firma Werle - Jeßberger)[5] è stato tradotto in inglese,[6] spagnolo, cinese e russo, diventando un riferimento imprescindibile.
Il volume collettaneo dedicatogli in occasione del suo pensionamento e 70° compleanno, rispecchia il pensiero di Werle, che unisce «da un lato, un serio universalismo, che comprende il progetto del diritto penale internazionale come soppressione, sul piano globale, delle gravi violazioni dei diritti umani su larga scala, e, dall’altro, un serio pragmatismo che lavora per migliorare le strutture dottrinali e soluzioni giuridiche dettagliate di un sistema di diritto penale internazionale emergente».[7] In particolare con riferimento alla ricezione tedesca del diritto penale internazionale, culminata nel Codice dei crimini internazionali del 2002 (Völkerstrafgesetzbuch), Werle «non ha solo accompagnato lo sviluppo del diritto penale internazionale tedesco, ma ha contribuito a formarlo»,[8] sia rafforzandolo dal punto di vista dogmatico che sostenendo attivamente la sua legittimazione. Già negli anni ‘90, in difesa del processo di Norimberga, scriveva che «il diritto penale internazionale può avere dei deficit di precisione, ma non ha dei deficit di legittimazione [..in quanto questa deriva] dalla elementare giustizia di un diritto penale essenziale (Kernstrafrecht) che tutela i diritti umani»[9]. Il diritto penale, dunque, contraddice la sua stessa natura se diventa un privilegio per la criminalità di Stato. Dopo l’entusiasmo dei “wilden Neunziger”,[10] Werle anticipava già possibili crisi del sistema ed un uso politico e unilaterale del diritto penale internazionale.[11] Ciò rende ancora oggi attuale e costruttivo il suo pensiero, laddove invece commentatori più giovani paiono confondere la crisi delle istituzioni con la crisi della legittimazione del diritto penale internazionale.[12]
Gli studi in onore di Werle si compongono di quattro sezioni: 1) diritto penale internazionale e giustizia di transizione, 2) Strafanwendungsrecht[13] e diritto penale transnazionale, 3) juristische Zeitgeschichte[14], 4) diritto penale sostanziale e processuale.
Fra i diversi italiani che hanno contribuito all’opera collettanea, Alberto di Martino[15] analizza criticamente un’applicazione della Joint Criminal Enterprise III - che si riferisce al crimine commesso da uno dei partecipi, che diverge dall’oggetto del piano comune - davanti alle Camere Straordinarie delle Corti in Cambogia, con una ricostruzione comparata del concorso anomalo.
Emanuela Fronza[16] esplora la possibilità di introdurre un crimine internazionale di ecocidio alla luce di quello che fu il momento fondativo del diritto penale internazionale: il paradigma di Norimberga, basato sulla responsabilità individuale. Con riferimento all’ecocidio e alla scelta di utilizzare il diritto penale internazionale in una logica non più antropocentrica ed in una funzione preventiva, l’Autrice individua sia dei punti di continuità che di rottura di questo paradigma; si lascia tuttavia al lettore la riflessione circa l’opportunità o meno di utilizzare lo strumento penale a tal fine.
Stefano Manacorda[17] indaga il cd. diritto penale internazionale economico, a partire dai più recenti casi giudiziari relativi a corporate crimes, da Kouwenhoven a Farange. L’Autore si interroga, sia alla luce della normativa esistente che de iure condendo, sulle possibilità di perseguire il contributo delle corporation nella commissione di crimini internazionali, sia sul piano individuale che in termini di responsabilità dell’ente. Quest’ultimo profilo è ripreso, con riferimento invece al diritto penale domestico, da Luigi Foffani,[18] che fa il punto sul dibattito in Germania - ultimo avamposto ostile alla responsabilità degli enti - anche in comparazione con Italia e Spagna.
Un altro dei temi cari a Werle, è quello della decolonizzazione del diritto penale internazionale,[19] contrastando la tendenza a utilizzare un doppio standard e a trasformare la Corte penale internazionale nel luogo in cui il Nord del mondo giudica il Sud - e l’Africa nella fattispecie - dimenticando invece i propri crimini. Ecco allora che, in quest’ottica, Chantal Meloni[20] riesamina criticamente la decisione della (ex) Procuratrice della Corte di chiudere l’indagine preliminare sui crimini commessi dai soldati britannici nell’ambito dell’occupazione dell’Iraq. Già chiusa nel 2006 e poi riaperta nel 2014 in base a una comunicazione presentata dallo European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) e da Public Interest Lawyers (PIL), l’indagine è stata chiusa nel 2020.
Nell’ambito della sezione Juristische Zeitgeschichte, Donato Castronuovo indaga la legislazione premiale italiana della stagione del terrorismo, poi estesa alla criminalità organizzata in generale, riflettendo in particolare sulla rilevanza attuale della figura del collaboratore di giustizia.
Massimo Donini[21] inizia la sua riflessione dal senso che l’Olocausto ha avuto per la cultura giuridica, vedendo «la Shoah come big bang culturale», che ebbe come reazione la nascita del diritto penale internazionale, ma anche della formula di Radbruch e del biodiritto. Da qui, l’Autore diparte per analizzare le norme penali che sanzionano la negazione dell’Olocausto, alla luce delle categorie del danno e del pericolo, sia in generale che nella peculiare soluzione italiana dell’aggravante ex art. 604-bis c.p., che non avrebbe un carattere di Kulturnorm, in quanto la negazione viene punita solo ove si faccia strumento di discriminazione.
Lo storico del diritto Michele Pifferi si interroga sull’anomalia del regime fascista, ove, a differenza del regime nazista e di quello sovietico, non si giunse mai ad un’abolizione espressa del divieto di analogia; l’Autore ricostruisce l’ampio dibattito dottrinale di quegli anni e le posizioni degli esponenti della scuola classica e di quella positiva.
In questa sede, come il lettore avrà notato, si è scelto di evidenziare i contributi dei soli Autori italiani, nell’impossibilità di dar conto di ben 77 contributi. Sia sufficiente qui riaffermare come le riflessioni dell’opera spazino in molte altre direzioni, in maniera sia sincronica che diacronica, facendo dunque onore al pensiero di Werle, che non sottrae il sistema penale ad aperture e alle nuove sfide, ma che al tempo stesso tiene salde le esigenze di sistematizzazione e di ordine dogmatico; un esempio in particolare per i più giovani e per chi, di fronte alle difficoltà dei tempi in cui viviamo e agli ormai perenni sconvolgimenti, è tentato di alzare bandiera bianca o di arroccarsi in difesa di un sistema penale avulso dal proprio tempo e che rinuncia a incidere su di esso.
[1] George Fletcher, riflettendo su quanto Berlino sia cambiata dal celebre discorso di Kennedy del 1963, afferma «ciò è dovuto, non in piccola parte, all’opera accademica di Gerhard Werle e della sua generazione, che ci ha aiutati a superare non solo una Berlino divista, ma anche la divisione fra la dottrina penalistica tedesca e quella statunitense», G.P. Fletcher, Berlin in the American Imagination: A tribute to Gerhard Werle, in F. Jeßberger, M. Vormbaum, B. Burghardt (a cura di), Strafrecht und Systemunrecht. Festschrift für Gerhard Werle zum 70. Geburtstag, Tübingen, 2022, 581-586, 586.
[2] Cfr. G. Werle - T Wanders, Auschwitz vor Gericht, Berlin/New York, 1989.
[3] Cfr. G. Werle - K. Marxen, Die strafrechtliche Aufarbeitung von DDR-Unrecht. Eine Bilanz, Den Haag 2005, 2° ed. 2020 con M. Vormbaum.
[4] Cfr. G. Werle - M. Vormbaum, Transitional Justice, Berlin, 2018.
[5] 1° ed. 2003, ora G. Werle - F. Jeßberger, Völkerstrafrecht, Tübingen, 2020.
[6] Da ultimo, G. Werle - F. Jeßberger, Principles of International Criminal Law, Oxford, 2020.
[7] A. du Bois-Pedain, Social and Political Solidarity in Enforcement of International Criminal Law, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 71-81, 71.
[8] J. Geneuss, “Terrorismusvölkerstrafrecht” – Zu Gegenwart und Zukunft des deutschen Völkerstrafrechts, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 105-118, 105.
[9] G. Werle, Menschenrechtsschutz durch Völkerstrafrechts, in ZStW, 109, 1997, 808 ss., 829. Per un commento F. Jeßberger, Die Krisen des Völkerstrafrechts, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 145-156.
[10] Ivi, 147.
[11] Ibidem per i rimandi.
[12] Ivi, passim.
[13] Termine con cui si indicano le condizioni alle quali si applica, a fatti commessi all’estero, il diritto penale tedesco.
[14] Traducibile con “storia giuridica”.
[15][15] A. di Martino, To Be, or Not to Be Comparable: A short Comparative Endeavour About Joint Criminal Enterprise III, , in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 61-70.
[16] E. Fronza, Towards a New Crime of Ecocide: The Moving Frontiers of International Criminal Law, ivi, 93-104.
[17] S. Manacorda, ‘Fragments’ of International Economic Criminal Law: Short Notes on Corporate and Individual Liability for Business Involvement, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 193-206.
[18] L. Foffani, 20 Jahre europäische Kriminalpolitik - Der Untergang des Prinzips societas delinquere non potest?, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 463-468.
[19] Al riguardo cfr. W. Kaleck, Von Doppelstandards in Völkerstrafrecht, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 157-170; L. Steinl, Postkoloniale Kritik am Völkerstrafrecht, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 295-310.
[20] C. Meloni, Torture, Command Responsibility, and the Vicious Cirle of Impunity: On the ICC’s Failure to Investigate British Responsibilities for Their Crimes in Iraq, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 207-220.
[21] M. Donini, Denialism and Protection of Memory: The heritage of the Holocaust and Its Challenge for Public Ethics And Criminal Law, in Strafrecht und Systemunrecht, cit., 555-568, il contributo è pubblicato in italiano in questa Rivista con il titolo Negazionismo e protezione della Memoria. L’eredità dell’Olocausto e la sua sfida per l’etica pubblica e il diritto penale.