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05 Luglio 2021


Peculato e bancarotta distrattiva: la Cassazione riconosce il concorso formale tra le due fattispecie

Cass., Sez. VI, 5 novembre 2020 (dep. 16 aprile 2021), n. 14402, Pres. Fidelbo, Rel. Silvestri, ric. Bovo



1. Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del concorso formale tra fattispecie di natura eterogenea, valutandone positivamente la configurabilità in relazione ai delitti di peculato e bancarotta fraudolenta per distrazione. Con riferimento a ulteriore motivo di ricorso, si è inoltre sostenuta la necessità di un preventivo accertamento in concreto dell’idoneità dissimulatoria della condotta punibile a titolo di autoriciclaggio.

 

2. Brevemente i fatti: l’imputato, incaricato di pubblico servizio, è stato condannato in primo e in secondo grado per i reati di peculato, bancarotta fraudolenta per distrazione, autoriciclaggio e bancarotta impropria, in relazione all’art. 2621 c.c., per essersi appropriato, tramite condotta distrattiva, di un’ingente somma di denaro, in parte reimpiegata, appartenente al patrimonio di una società interamente partecipata da un ente pubblico (e da lui stesso unicamente gestita) nonché per averne falsificato i bilanci, determinandone così il successivo fallimento.

Questi ha, poi, proposto ricorso per cassazione avverso la pronuncia di appello deducendo, tra più rilievi, violazione di legge avendo il giudice assunto – in contrasto con il divieto di bis in idem, così come individuato secondo i canoni interpretativi dettati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 200 del 2016[1] – il medesimo fatto storico quale presupposto per la applicabilità, a titolo di concorso, di entrambe le fattispecie criminose; violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento all’addebito di cui all’art. 648-ter.1 c.p., non costituendo le successive condotte poste in essere dall’imputato – quali il pagamento di ratei di finanziamento e il deposito di somme su conti correnti a lui intestati – attività finanziarie idonee ad ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa del denaro illecitamente sottratto.

 

3. La Corte ha considerato infondato il primo motivo di ricorso, ritenendo improprio – data la sussistenza di un simultaneus processus per la violazione, con la medesima condotta, di più disposizioni incriminatrici – il riferimento alla mancata applicazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU (richiamato nell’ordinamento dall’art. 649 c.p.p.). Tale principio, come chiarito dal giudice delle leggi nella richiamata pronuncia del 2016, opera infatti in una dimensione prettamente processuale, poiché volto a precludere una reiterazione dell’azione giudiziale in presenza di altra decisione irrevocabile in relazione al medesimo fatto storico (inteso quale coincidenza sul piano empirico di condotta, nesso di causalità ed evento, avuto riguardo anche a differenti circostanze di tempo, di luogo e di persona[2]). Pertanto, nel caso di specie, il citato divieto non incide sulla configurabilità di un’ipotesi di concorso formale tra reati, in quanto questione esterna di carattere sostanziale che “prescinde dalla preclusione processuale derivante dalla consumazione del potere di azione a seguito della già esercitata azione penale per lo stesso fatto, ma riguarda solo la verifica della esistenza di una unità o pluralità di reati, da accertare secondo i criteri relativi al rapporto strumentale tra norme[3].

Conseguentemente i giudici di legittimità, esclusa la sussistenza di un rapporto di specialità, sussidiarietà o consunzione tra il delitto di peculato e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione – elemento che, se presente, avrebbe potuto dare vita a un concorso apparente di norme – hanno dunque ammesso il concorso tra le due fattispecie, differenziandosi le stesse per struttura ed offensività.

Ad avviso della Corte, le principali difformità si riscontrano con riferimento alla qualifica del soggetto attivo, al bene giuridico tutelato nonché alle modalità di aggressione dello stesso: nella bancarotta fraudolenta prefallimentare è, infatti, punito l’imprenditore – o altro soggetto qualificato, ai sensi dell’art. 223 l. fall. – che, mediante una qualsiasi condotta di natura anche distrattiva, distoglie i beni sociali dal patrimonio dell’impresa, sottraendoli così alla loro funzione di garanzia per il soddisfacimento dei creditori, sempre che intervenga una sentenza dichiarativa di fallimento; nel peculato, invece, non ogni appropriazione di denaro o altra utilità da parte del pubblico funzionario è passibile di sanzione penale, ma solo quella che dimostri lo sfruttamento a scopo privatistico (e quindi l’abuso) da parte di quest’ultimo del rapporto privilegiato che la legge gli attribuisce con la res, di cui ha il possesso proprio in ragione del suo ufficio, andando così a ledere i principi di buon andamento, legalità e imparzialità della pubblica amministrazione[4]. Per quanto concerne poi il tempo di consumazione del reato, osserva la sentenza che, nel caso della fattispecie disciplinata dall’art. 216 l. fall., la presenza della declaratoria di fallimento, la quale – secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente[5] – opera come condizione obiettiva di punibilità, esenta da pena l’ipotesi in cui sia preventivamente intervenuta un’attività integralmente ripristinatoria della precedente condotta illecita (cd. bancarotta riparata). Diversamente, il delitto di peculato si consuma istantaneamente, ossia nel momento in cui l’agente si appropria del bene, non assumendo pertanto rilievo l’eventuale successivo ravvedimento da parte del soggetto attivo.

 

4. I giudici di legittimità hanno invece accolto, come si è anticipato, i rilievi posti dal ricorrente con riferimento al mancato accertamento della reale capacità dissimulatoria dell’attività di cui all’art. 648-ter.1 c.p., precisando che – come già chiarito in dottrina[6] – tale verifica debba essere effettuata mediante un criterio di idoneità ex ante, dovendosi dunque valutare se, al tempo della commissione della condotta descritta dalla norma incriminatrice, indipendentemente da un suo successivo disvelamento, la stessa sia stata espressione di un meccanismo realmente decettivo, volto a rendere quantomeno difficoltosa l’individuazione dell’origine criminosa dei beni sottratti. A sostegno di tali argomentazioni la Cassazione richiama copiosa giurisprudenza di legittimità[7] nella quale le azioni di mutamento della titolarità della res oppure di reintroduzione della stessa, non più destinata ad uso personale, all’interno del normale circuito economico sono state considerate idonee a integrare il delitto di autoriciclaggio, poiché atte a dissimularne la provenienza delittuosa. Di contro, in tale ipotesi, la sola “creazione” di debito tramite la stipulazione di contratti di finanziamento oppure il mero deposito del denaro su conti correnti personali intestati allo stesso imputato, non sono risultati comportamenti di effettivo ostacolo alla concreta tracciabilità delle somme oggetto di illecita appropriazione.

 

5. Qualche osservazione a margine. La decisione in commento esula dal contesto interpretativo giurisprudenziale inaugurato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 2016, poiché la presenza, nel caso di specie, di un simultaneus processus per l’accertamento dei plurimi reati contestati assurge già a presidio contro un possibile ed illecito duplice esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto storico, rendendo pertanto inconferente il richiamo al mancato rispetto del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. Di conseguenza, appare allora irrilevante – come puntualmente motivato – il richiamo alla sentenza della Cassazione n. 25651 del 2018[8], la quale, in ottemperanza ai suddetti criteri costituzionali, ha escluso che la declaratoria di fallimento, qualificata come condizione obiettiva estrinseca di punibilità, poiché opera indipendentemente dall’agire del soggetto attivo, sia per la mancanza di un nesso di causalità con la condotta dallo stesso posta in essere, sia per quanto attiene al profilo della colpevolezza, possa fungere da elemento specializzante idoneo a distinguere il fatto illecito di cui all’art. 216 l. fall. – secondo l’accezione storico-naturalistica costituzionalmente intesa – dalla situazione giuridica (avente ad oggetto i medesimi beni) punita a titolo di appropriazione indebita. Premesso, innanzitutto, quanto chiarito dai giudici di legittimità, ossia che il peculato si differenzia da quest’ultima fattispecie – nella sua ipotesi aggravata ex art. 61 n. 9 c.p. – già sotto il profilo della materialità, poiché nel delitto di cui all’art. 314 c.p. non vi è una devoluzione all’agente del possesso della resintuitu personae” e “l’abuso dei poteri o l’inosservanza dei doveri servono al medesimo non già per procurarsi quel possesso, ma ad agevolarlo nella realizzazione della condotta tipica[9], nella situazione in commento, proprio in virtù della riferita assenza di un duplice esercizio dell’azione giudiziale, viene in realtà richiesto un più approfondito confronto tra le fattispecie al fine di poter valutare se le stesse abbiano ad oggetto una “stessa materia”, intesa quale idem factum storicamente verificatosi. S’impone dunque – come sostenuto dalla dottrina e da consolidata giurisprudenza[10] – una comparazione in astratto della configurazione giuridica di entrambe le disposizioni incriminatrici, con riferimento a tutti i loro elementi costitutivi, secondo i canoni ermeneutici che regolano i rapporti strutturali tra norme. Condivisibili paiono allora le conclusioni cui è giunta la Cassazione all’esito di tale operazione interpretativa: individuati nella dichiarazione di fallimento e nelle ulteriori differenze attinenti ai destinatari dei precetti penali, agli interessi tutelati nonché alle modalità lesive degli stessi beni giuridici i discrimina tra il delitto di peculato e la bancarotta distrattiva, i giudici non hanno poi potuto riconoscere alcun rapporto di specialità tra le citate fattispecie[11], non avendo rilevato tra tali ipotesi di reato, in aggiunta alle singole specificazioni, gli elementi identificativi comuni richiesti dall’art. 15 c.p. ai fini dell’applicabilità del citato criterio (dovendosi escludere la sussistenza di un concorso apparente di norme in presenza della cd. specialità reciproca, inidonea a individuare la disposizione speciale prevalente su quella generale[12]). Si osserva, inoltre, che, anche con riferimento all’ulteriore profilo d’indagine ai sensi dell’art. 84 c.p., non è ravvisabile, nel caso di specie, alcun concreto rapporto funzionale tra le fattispecie in esame, poiché la successiva bancarotta fraudolenta, parimenti offensiva, quanto a cornice sanzionatoria, rispetto al delitto di cui all’art. 314 c.p. assolve – nell’ottica del legislatore, come emerge anche dai dati posti a confronto – a una logica punitiva differente, non potendo in definitiva considerarsi idonea ad esaurire in se stessa il disvalore proprio dell’intero accadimento storico[13].

 

6. Meritevoli di positiva considerazione paiono, inoltre, le conclusioni della Corte a sostegno della necessità di una preventiva valutazione, disattesa dai giudici di merito, dell’effettiva idoneità decettiva della condotta di autoriciclaggio. È, d’altronde, già richiesta nella disposizione normativa – come evidenziato dalla dottrina[14] – una particolare connotazione modale del comportamento punibile che impone un’interpretazione restrittiva delle ipotesi riconducibili alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 648-ter.1 c.p. nel rispetto del principio di legalità. Non ogni attività di impiego, sostituzione o trasferimento di denaro o altre utilità di illecita provenienza potrà allora avere rilevanza penale, ma solo quella destinata al compimento di attività economiche legali che disponga anche di un quid pluris, ossia si manifesti ex ante quale concreto ostacolo al riconoscimento dell’origine delittuosa dei beni illecitamente sottratti. Diversamente si osserva come nel caso di specie si rientri pacificamente nell’ambito di applicazione della circostanza di esclusione della punibilità di cui al comma 4 della citata disposizione normativa, poiché, in assenza di intestazione formale a terzi o di altro evidente meccanismo dissimulatorio, si può ragionevolmente dedurre che il prevenuto abbia direttamente goduto dell’utilizzo delle somme di denaro in suo possesso, avendole effettivamente in parte reimpiegate nella ristrutturazione della propria abitazione o comunque depositate su conti correnti destinati ad un uso di natura tipicamente personale.

 

 

[1] Si tratta della sentenza relativa al cd. processo Eternit bis, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 c. 1 Cost. in relazione all’art. 4 del protocollo n. 7 CEDU nella parte in cui, secondo il diritto vivente, veniva esclusa la medesimezza del fatto per la sola sussistenza, per l’ipotesi sub iudice, di un concorso formale con altro illecito già giudicato con pronuncia di carattere definitivo. A fondamento di tale decisione – sulla scia della nota sentenza della corte EDU Grande Stevens vs Italia – vi è dunque l’adozione di una nozione interpretativa di identità fattuale di tipo storico-naturalistico la quale, individuando nell’idem factum, in luogo del più restrittivo idem legale, il presupposto per escludere un successivo esercizio dell’azione penale, amplia notevolmente i parametri applicativi del principio del ne bis in idem ridefinendo i rapporti con l’istituto del concorso formale di reati e scongiurando così “il rischio di reiterazione di iniziative relative a un medesimo fatto, fondate esclusivamente su una molteplicità di qualificazioni penalistiche” (D. Pulitanò, La corte costituzionale sul ne bis in idem, in Cass. pen., fasc. 1/2017, p. 71).

[2] Elementi tutti già individuati dalla Suprema Corte con la pronuncia Cass., sez. un., 28 giugno 2005, n. 34655, Donati e successivamente ripresi da Corte cost., 30 aprile 2008, n. 129 entrambe citate anche nella sentenza in commento.

[3] Si veda il par. 1.3. della presente pronuncia.

[4] Così Cass., sez. un., 25 giugno 2009 (dep. 6 ottobre 2009), n. 38691, Caruso.

[5] Cass., sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli, con la quale la Cassazione, all’esito di un complesso dibattito giurisprudenziale, ha qualificato la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione estrinseca di punibilità. I giudici di legittimità non hanno ravvisato la necessità di alcun tipo di collegamento di natura eziologica tra la condotta posta in essere dal soggetto attivo e la declaratoria di fallimento – elemento che, se presente, avrebbe potuto valorizzare la stessa come evento del reato – non richiedendosi neppure una consapevolezza in capo all’agente dello stato di insolvenza, né la sussistenza dello scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente che lo stesso abbia concretamente posto in pericolo la consistenza della garanzia patrimoniale dell’impresa destinandone le risorse ad impeghi estranei alla sua attività (sul punto cfr. anche Cass. pen., sez. V, 24 marzo 2017, n. 17819). Le successive pronunce in tema hanno consolidato l’orientamento delle Sezioni Unite (si veda, tra le molte, Cass. pen., sez. V, dep. 22 marzo 2017 n. 13910, Santoro), rimarcando l’intrinseco disvalore proprio delle condotte descritte dalla fattispecie di cui all’art. 216 l. fall., le quali assumono pertanto rilevanza, ai fini della sanzione penale, solo con il successivo intervento della dichiarazione di fallimento.

[6] F. Mantovani, Diritto penale. Parte Speciale. Vol. II: delitti contro il patrimonio, VI ed., Milano, 2016, p. 293.

[7] La Corte cita, tra più decisioni in materia, Cass. pen., sez. II, 18 dicembre 2019, n. 16059 nonché Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2019, n. 38919. Si veda inoltre Cass. pen., sez. II, 21 giugno 2019, n. 37606.

[8] Cass. pen., sez. V, 15 febbraio 2018 (dep. 6 giugno 2018), n. 25651, con commento di F. Mucciarelli, Bancarotta distrattiva, appropriazione indebita e ne bis in idem: una decisione della Corte di cassazione innovativa e coerente con i principi costituzionali e convenzionali, in Dir. pen. cont., fasc. 6/2018, p. 269 ss.

[9] Si veda il par. 1.5. della pronuncia in commento. Sul punto si veda anche C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, Trento, 2016, p. 115 ss.

[10] Così Cass., sez. un., 23 febbraio 2017, 20664, Stalla e Cass., sez. un., 22 giugno 2017, n. 41588, La Marca (con nota di D. Sibilio, Le Sezioni Unite escludono il concorso tra i reati di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo e di porto in luogo pubblico di arma clandestina, in Dir. pen. cont., fasc. 11/2017, p. 242 ss.).

[11] Sul punto v. Cass., sez. un., 28 ottobre 2010, n.1235, Giordano e successive pronunce. In particolare, in tema di concorso tra l’ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale e il delitto di occultamento e distruzione di documenti contabili cfr. anche Cass. pen., sez. III, 24 febbraio 2017 n. 18927, Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2017 n. 35591, Cass. pen., sez. V, 13 novembre 2017 n. 11049 nonché, da ultimo, Cass. pen., sez. V, 6 luglio 2020, n. 22486.

[12] Sul punto v. G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, V ed., aggiornata da E. Dolcini e G.L. Gatta, Milano, 2015, p. 489 ss.

[13] N. Madia, I rapporti tra i reati di malversazione in danno dello Stato e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche al vaglio delle Sezioni Unite, in Cass. pen., fasc. 7-8/2017, p. 2661 ss.

[14] F. Mucciarelli, Qualche nota sul delitto di autoriciclaggio, in Dir. pen. cont., fasc. 1/2015, p. 115 ss.