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12 Maggio 2022


Eccesso di delega nell’attuazione del principio di ‘riserva di codice’: il commercio di sostanze dopanti torna punibile a prescindere dal fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti

Corte cost., sent. 9 marzo 2022 (dep. 22 aprile 2022), n. 105, Pres. Amato, Red. Amoroso



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1. Nuovo sindacato della Corte costituzionale sulla riforma attuativa della ‘riserva di codice’: la declaratoria di illegittimità ha l’effetto di ampliare l’area della rilevanza penale della condotta di commercio di sostanze dopanti, per la cui punibilità non occorre (più) il dolo specifico del fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.

A essere qui sottoposta allo scrutinio della Corte è la formulazione del co. 7 dell’art. 586-bis c.p. introdotta dall’art. 2, co. 1, lettera d), del d.lgs. n. 21/2018 (recante disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma della legge n. 103/2017) e la decisione, nel merito, ha sancito l’elisione dal testo di tale disposizione delle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».

La Corte ha in tal modo censurato l’uso scorretto del potere legislativo da parte del Governo che, nel compiere una formale traslazione di sede della norma incriminatrice in attuazione del principio di riserva di codice, aveva tuttavia operato una parziale abolitio criminis delle condotte di commercializzazione di sostanze dopanti poste in essere senza la finalità di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.

 

2. La Terza sezione della Corte di cassazione e il Tribunale ordinario di Busto Arsizio sospettavano di illegittimità costituzionale, in rapporto all’art. 76 Cost., il solo comma 7 dell’art. 586-bis c.p. proprio perché il legislatore delegato, nel dare attuazione alla delega contenuta nella c.d. “legge Orlando”, non si era limitato a traslare all’interno del codice penale l’incriminazione del commercio di sostanze dopanti ex art. 9, co. 7, della legge n. 376/2000[1] (recante la disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping), ma ne aveva modificato il contenuto precettivo prevedendo la punizione dell’agente solo quando la condotta venisse compiuta al fine di alterare la prestazione agonistica dell’atleta acquirente.

Rinviando per una più dettagliata analisi dell’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione ad altro precedente contributo sulle pagine di questa Rivista, è qui opportuno sottolineare la rilevanza della questione sottoposta alla Corte: in entrambi i giudizi a quibus si era raggiunta la prova dell’integrazione della fattispecie di commercio di sostanze dopanti, ma difettava la sussistenza di un tale dolo specifico.

 

3. La Corte costituzionale ha, anzitutto, effettuato una ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale nel cui ambito si collocano i reati di doping.

Fondamentale, nel determinare la decisione assunta, è risultata la ratio complessiva sottesa alla legge n. 376/2000 recante la disciplina in materia di doping, ed enunciata sin dall’art. 1, co. 1, secondo cui «[l]’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva […]».

Il comma 2 del medesimo articolo 1, poi, reca la definizione di doping stabilendo che «costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». Ai sensi del comma 3 costituisce altresì doping, in quanto ad esso equiparata, «la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati al comma 2».

La definizione di doping che si ricava dal combinato disposto di tali due commi trova infine concretizzazione nell’art. 2, rubricato «Classi delle sostanze dopanti», secondo cui «i farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche mediche, il cui impiego è considerato doping a norma dell’articolo 1, sono ripartiti […] in classi di farmaci, di sostanze o di pratiche mediche approvate con decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive di cui all’articolo 3».

Le disposizioni appena richiamate stabiliscono dunque le caratteristiche e la procedura per la determinazione dell’oggetto materiale delle fattispecie incriminatrici che sanzionano le varie condotte di doping: e cioè le sostanze dopanti e le pratiche mediche idonee a modificare le condizioni psico-fisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.

 

4. Con specifico riferimento alle disposizioni di natura penale, la Corte si è soffermata sulla distinzione tra le previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9 della legge n. 376/2000 e quella di cui al comma 7 del medesimo articolo.

Sul piano del fatto tipico, i primi due commi punivano le condotte di etero-doping (procacciamento, somministrazione, favoreggiamento dell’uso di farmaci o sostanze proibite, adozione di pratiche mediche vietate) e auto-doping (assunzione di sostanze proibite, sottoposizione alle pratiche mediche vietate); al contrario, il co. 7 vietava il commercio di sostanze dopanti.

Quanto al profilo soggettivo, la Corte costituzionale ha richiamato la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui le fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 9 contemplavano la previsione del dolo specifico costituito dal «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti»; invece, l’integrazione del reato di commercio di sostanze dopanti richiedeva il solo dolo generico. Il consolidato indirizzo giurisprudenziale poggiava proprio sul rilievo che la formulazione del co. 7 dell’art. 9 non ripetesse la dizione “al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti” «per la evidente ragione che la condotta di [commercializzazione delle sostanze dopanti], che il legislatore ha inteso reprimere con la sanzione penale, persegue normalmente un fine di lucro piuttosto che quello di alterare l’esito delle competizioni sportive» (§ 4.2).

 

5. Su tale consolidato assetto normativo e giurisprudenziale ha inciso il nuovo art. 586-bis c.p.

Nel trasporre all’interno del codice la disciplina penale in materia di doping, il legislatore delegato ha invero mantenuto invariati i primi due commi, e ha invece aggiunto nel co. 7 proprio la dizione “al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

Sul piano oggettivo, dunque, la condotta di commercio di sostanze dopanti ha mantenuto lo stesso ambito e la stessa estensione che aveva la fattispecie incriminatrice prevista dalla legge n. 376/2000, che peraltro coincide con quelle dei primi due commi: tutte le condotte hanno ad oggetto le sostanze dopanti e le pratiche mediche individuate con riferimento alle «classi indicate dalla legge», e cioè le sostanze e le pratiche mediche individuate con la procedura di cui all’art. 2 della legge n. 376/2000 secondo i criteri indicati dall’art. 1, commi 1 e 2.

L’aspetto soggettivo della fattispecie di cui al co. 7 è stato invece scalfito proprio dall’introduzione dell’inciso relativo al “fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”. Rileva invero la Corte che, al pari di quanto già accadeva in relazione ai primi due commi, tale inciso non specifica la sostanza nel suo contenuto oggettivo, bensì connota l’elemento soggettivo del reato. E, del resto, così come accade in relazione alla medesima dizione contenuta nei primi due commi, non può che costituire una tipica ipotesi di dolo specifico (§ 11).

La modifica del dato testuale ha avuto l’effetto di restringere l’area penalmente rilevante, peraltro in contrasto – sottolinea la Corte – con la scelta del legislatore del 2000, la cui intenzione era quella di contrastare con effettività e maggior rigore il commercio illegale di sostanze dopanti e, inoltre, in divergenza rispetto al bene giuridico protetto, costituito soprattutto dalla salute, individuale e collettiva, ai sensi dell’art. 1, co. 1, della legge n. 376/2000.

 

6. In definitiva, la disposizione censurata aveva alterato l’originaria struttura della fattispecie del reato prevista dal comma 7 dell’art. 9 della legge n. 376/2000 e, l’entrata in vigore del (nuovo) comma 7 dell’art. 586-bis c.p., come arbitrariamente modificato a opera del legislatore delegato, implicava la punibilità delle sole condotte di commercio delle sostanze dopanti poste in essere al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti.

Sulla base delle premesse illustrate, la Corte costituzionale non ha potuto che rilevare l’illegittimità della disposizione nella parte in cui aveva ristretto l’area della punibilità della condotta di commercio di sostanze dopanti senza rispettare i criteri e i principi sanciti dalla legge delega, «che non autorizzava un abbassamento del livello di contrasto delle condotte costituenti reato secondo la legislazione speciale» (§ 12).

Ancora una volta, dunque, la Corte ha avuto l’occasione per ribadire che, in forza del principio di legalità-riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., spetta al Parlamento compiere la scelta dei fatti da sottoporre a pena, e che l’esercizio del potere legislativo adottato dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa costituisce una violazione dell’art. 76 Cost. che consente il sindacato di legittimità costituzionale anche con effetti in malam partem[2].

 

7. In conclusione, i profili di diritto intertemporale che conseguono a questa pronuncia di parziale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 586-bis co. 7 c.p.

Al paragrafo n. 15 la Corte ha statuito che, senz’altro, in forza dell’art. 25, co. 2, Cost., i fatti eventualmente commessi tra la data di entrata in vigore della disposizione censurata e la pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale integreranno il reato soltanto qualora sussista in capo all’agente il dolo specifico.

In relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disposizione censurata, invece, la Corte rimanda ai giudici a quibus la valutazione circa le conseguenze applicative che derivino dalla propria pronuncia di accoglimento, con l’indicazione di tenere conto della giurisprudenza costituzionale in materia e, in particolare, di quanto espresso dalla sentenza n. 394/2006.

 

8. Dunque, in relazione ai c.d. fatti concomitanti, quelli cioè commessi nel periodo di vigenza della disposizione censurata, è pacifico che l’ablazione della norma di favore da parte della Corte costituzionale non possa ripercuotersi negativamente sulla posizione di chi commetta il fatto in vigenza di una legge che non qualifichi tale fatto come reato al momento della sua commissione.

Resta aperta, invece, la questione se la norma di favore espunta dall’ordinamento per effetto della sentenza della Corte costituzionale possa o meno produrre effetti nei confronti degli imputati dei procedimenti a quibus che abbiano commesso i fatti prima dell’entrata in vigore della norma dichiarata illegittima.

In un precedente del 2017, valorizzando il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., la Cassazione ha sostenuto l’operatività del principio di retroattività favorevole anche rispetto al soggetto imputato per un fatto commesso prima dell’entrata in vigore di una norma abolitrice poi dichiarata illegittima.

Una tale conclusione non appare tuttavia convincente. In primo luogo, occorre invero considerare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma determina l’eliminazione radicale, con effetto ex tunc, della norma stessa dall’ordinamento, la quale non può quindi essere ritenuta utile neppure al fine di determinare un fenomeno di abolitio criminis rilevante ai fini dell’art. 2, co. 2, c.p.[3].

Nei confronti di chi ha commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della norma favorevole dichiarata illegittima, poi, tale norma non era in grado di ingenerare alcun legittimo affidamento.

Del resto, come si è rilevato in dottrina[4], proprio la sentenza n. 394/2006, oggi nuovamente richiamata dalla Corte costituzionale, aveva già offerto un’utile chiave di lettura al riguardo: «il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal legislatore, può giustificare – in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione

I giudici a quibus hanno dunque ora l’occasione per superare il precedente del 2007 e dare puntuale applicazione a tali principi enunciati dalla Corte costituzionale.

 

 

[1] L’art. 9, co. 7, della legge n. 376/2000 puniva «chiunque commercia[va] i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati alla utilizzazione sul paziente».

Di seguito il testo dell’art. 586-bis, co. 7, c.p., introdotto dall’art. 2, co. 1, lettera d), del d.lgs. n. 21/2018: «Chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge, che siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull'uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468».

[2] Sul punto, di recente, cfr. anche Corte cost. n. 189 del 2019, pronuncia avente a oggetto i dubbi di legittimità costituzionale relativi all’art. 570-bis c.p., introdotto proprio in attuazione della c.d. riserva di codice, con commento di F. Lazzeri, La riforma attuativa della “riserva di codice” non ha abolito il delitto di violazione degli obblighi economici nei confronti dei figli di coppie non coniugate: infondate le questioni di legittimità relative all’art. 570-bis c.p., 18 novembre 2019.

[3] Sugli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale di favore e sull’impossibilità della norma dichiarata incostituzionale di produrre ulteriori effetti, volendo, cfr. C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe “pesanti”? Tre questioni all’esame della Consulta, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 2/2017, 78.