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17 Marzo 2025


Sull'automatismo della sospensione dall'esercizio della responsabilità genitoriale ex art. 34. co. 2 c.p.: la parola alla Consulta

Trib. Siena, ord. 6.6.2024, Pres. ed est. Spina



*Contributo pubblicato nel fascicolo 3/2025. 

 

1. L’esistenza nel nostro ordinamento di meccanismi sanzionatori che, a norma dell’art. 20 del codice penale, «conseguono di diritto alla condanna», come effetti penali della stessa, porta di certo ad interrogarsi sulla compatibilità di questi spazi sottratti alla discrezionalità del giudice con i principi di proporzionalità ed individualizzazione cui la pena dovrebbe essere improntata. Collocate in un sistema in cui l’esercizio della potestà punitiva trova il proprio fondamento e la propria legittimazione nella prospettiva della effettiva rieducazione del singolo condannato[1], queste perplessità crescono all’aumentare dei profili predeterminati a monte dal legislatore. Si moltiplicano, così, le criticità in ipotesi in cui, in virtù della previsione di comminatorie edittali stabilite per legge in misura fissa, il giudice, oltreché escluso dalla scelta sull’an, è estromesso dalla graduazione del quantum di pena accessoria da infliggere all’individuo; una pena non parametrata, allora, in rapporto alla concreta gravità del fatto di reato per cui si procede, ovvero alla luce degli ulteriori interessi di rango costituzionale emergenti nel caso di specie, ma definita sulla base di astratte scelte di politica criminale. 

È in questo contesto che si collocano i dubbi circa la legittimità costituzionale del secondo comma dell’articolo 34 del codice penale avanzati dal Tribunale di Siena nell’ordinanza che può leggersi in allegato.

La norma censurata dal giudice toscano individua la disciplina della pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale e, più nel dettaglio, dispone che, ove condannato per un delitto commesso con abuso della responsabilità genitoriale, il genitore sia automaticamente sospeso, per un periodo pari al doppio della pena a lui inflitta, dall’esercizio del complesso di poteri-doveri allo stesso attribuiti a protezione e tutela del figlio. Ebbene, secondo la prospettazione offerta dal rimettente, tal previsione confliggerebbe con gli articoli 2, 3, 27, 29 e 30 della Costituzione, nonché con l’articolo 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, ratificata dallo Stato e resa esecutiva per tramite della legge 27 maggio 1991, n. 176, nella parte in cui «prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per delitti commessi con abuso della responsabilità genitoriale comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporla, nonché nella parte in cui la misura della sospensione della responsabilità genitoriale è disposta per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta, anziché in misura eguale a quella della pena principale inflitta»[2].

 

2. Volendo descrivere sinteticamente la vicenda processuale al cui interno si innesta la questione di legittimità costituzionale in commento, nel caso di specie due genitori sono chiamati a rispondere del delitto aggravato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572, comma 2, c.p.), perpetrato ai danni dei figli minorenni. Tra il 2015 ed il 2022, difatti, la coppia di imputati instaura un clima di abuso e vessazione nella propria abitazione: i soggetti utilizzano metodi educativi di caratura violenta, realizzano abitualmente condotte aggressive nei confronti dei figli minorenni, li percuotono con schiaffi e calci e, in talune occasioni, utilizzano una cintura per punirli.

Gli elementi agli atti portano il Collegio giudicante a formulare un positivo giudizio di responsabilità penale dei soggetti in ordine ai reati a loro ascritti, «commessi nei confronti dei figli e, dunque, con abuso della responsabilità genitoriale»[3]. Nondimeno, se da un lato la sussistenza di tale responsabilità – e la conseguente condanna per i fatti così qualificati – è presupposto necessario e sufficiente per l’applicazione della sospensione della responsabilità genitoriale e determina l’automatica attuazione di quanto previsto dall’art. 34, comma secondo, c.p., d’altro canto il Tribunale di Siena rileva l’inadeguatezza della specifica misura accessoria rispetto alle peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame. Ad avviso del Collegio, infatti, nel caso di specie, a fronte di una sopravvenuta ricomposizione del quadro familiare, accompagnata dalla completa resipiscenza delle figure genitoriali, la sospensione degli imputati dall’esercizio della responsabilità che compete agli stessi finirebbe con l’esplicare effetti meramente disgregativi, nocivi in primis per gli interessi della prole.

 

3. Gli snodi argomentativi dell’ordinanza di promovimento, nella loro estrema concisione ed essenzialità, mettono ben in chiaro la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata ai fini del decidere: nel giudizio principale innanzi a lui radicato il giudice a quo non può prescindere dall’applicazione del secondo comma dell’art. 34 c.p., sussistendone i presupposti attuativi e non essendo previsto dalla disposizione alcun margine di intervento dell’autorità procedente, né in punto di determinazione dell’an, né con riferimento alla calibrazione del quantum di pena accessoria da infliggere agli imputati[4].

Il giudizio principale e l’instaurando giudizio di costituzionalità risultano, allora, all’evidenza, avvinti da un concreto ed effettivo nesso di strumentalità, giacché l’eventuale soluzione positiva del quesito sottoposto al Giudice delle Leggi, con accoglimento e pronuncia di illegittimità della norma, sarebbe suscettibile di avere un’incidenza attuale – e non meramente eventuale – sulla definizione del procedimento innanzi al Tribunale di Siena[5].

A rimarcare la rilevanza e, pertanto, l’ammissibilità della questione sollevata non può, poi, ignorarsi un ulteriore profilo, lasciato per vero sottinteso nell’ordinanza di rimessione: la chiarezza e l’univocità della littera legis impediscono all’interprete di percorrere strade interpretative alternative che consentano di adeguare il testo della norma ai principi dell’ordinamento costituzionale che si assumono violati, così ponendo rimedio al vulnus riscontrato.

 

4. Delineata la rilevanza della questione, il giudice a quo procede all’inquadramento dei profili di non manifesta infondatezza dei propri dubbi di legittimità costituzionale facendo proprio un principio affermato dalla Consulta: «se la “regola” è rappresentata dalla “discrezionalità”, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo “indiziata” di illegittimità»[6].

Il “volto costituzionale” del sistema penale[7], difatti, di fronte alla variabile complessità delle condotte antigiuridiche dei singoli, impone la realizzazione di una «riparatrice giustizia distributiva»[8], di una giustizia, cioè, che, improntata alla diversificazione e non all’uniformità, sia in grado di soppesare l’offensività delle diverse ipotesi criminose e di farvi conseguire, in maniera ragionevolmente differenziata, conseguenze sanzionatorie proporzionali e proporzionate.

Muovendo da tal considerazione, il ragionamento del rimettente si biforca e profila due piani di attrito tra la norma oggetto di censura ed i principi dell’ordinamento costituzionale: se per certi versi è innegabile, ad avviso del Tribunale di Siena, la contrarietà del meccanismo di cui all’art. 34, comma secondo, c.p. al principio di proporzionalità ed alla necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione, d’altro canto non può ignorarsi l’incompatibilità della disposizione con l’esigenza di tutelare gli interessi dei figli minori di chi è condannato a tal pena accessoria, interessi tutelati dagli articoli 2, 3, 29 e 30 della Costituzione, nonché dall’articolo 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo.

 

4.1. Ebbene, sotto il primo profilo, la previsione sanzionatoria rigida in commento, per le proprie caratteristiche, non sarebbe in grado di collimare con il bisogno «di mobilità o individualizzazione della pena, […] naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale»[9]: l’esigenza di una pena il più possibile calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, della Costituzione, richiederebbe, invero, per potersi dire pienamente soddisfatta, l’intervento discrezionale di un giudice, chiamato a determinare in concreto il trattamento sanzionatorio muovendosi in una cornice edittale stabilita per legge, tenendo in preminente considerazione la vasta gamma di circostanze indicate negli artt. 133 e 133-bis c.p.

Distante da tal impianto ideale parrebbe, invece, il secondo comma dell’art. 34 c.p. e la sua peculiare struttura doppiamente rigida, tanto nell’automatica applicazione della pena accessoria quanto nella predeterminata durata della stessa: tale fissità sarebbe in manifesto conflitto con i principi di proporzione ed individualizzazione di cui agli articoli 3 e 27 della Costituzione, poiché non riuscirebbe a garantire una risposta sanzionatoria «ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili ai presupposti applicativi» della norma ed anzi ben potrebbe dar luogo all’applicazione di misure accessorie «manifestamente sproporzionate per eccesso […] rispetto ai fatti commessi con abuso di responsabilità genitoriale meno gravi»[10].

 

4.2. Quanto, poi, al secondo profilo di asserita contrarietà a Costituzione della norma, il Collegio senese rappresenta che, in una ipotesi analoga, a fronte della fattispecie delittuosa di sottrazione e trattenimento di minore all’estero, la Corte costituzionale ha già avuto modo di pronunciarsi dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 574-bis, comma terzo, c.p., «nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale»[11].

Gli argomenti già spesi dalla Consulta nella precedente pronuncia sono, allora, richiamati dal Tribunale rimettente ed utilizzati per avallare i dubbi relativi alla compatibilità della disposizione oggetto di censura con gli articoli 2 – che, come precisa il giudice a quo, « riconoscendo e tutelando i diritti fondamentali dell’individuo, costituisce fondamento anche per la tutela dei diritti dei minorenni»[12] –, 3, 29 e 30 della Costituzione, nonché con l’art. 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo – «che impegna gli Stati parte a rispettare, tra l’altro, il diritto dei minori alle proprie relazioni familiari»[13] –: dal novero di parametri normativi evocati discenderebbe il principio in virtù del quale, nell’adozione di provvedimenti che coinvolgano minorenni, dovrebbe considerarsi con prevalenza l’interesse del soggetto di minore età, interesse che parrebbe, invece, irragionevolmente sacrificato dalla previsione di cui al secondo comma dell’art. 34 c.p., «che comporta conseguenze che ricadono sui figli dei condannati non già semplicemente de facto – come può avvenire per qualsiasi provvedimento giudiziario – ma de jure»[14].

 

5. Acclarata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, il Tribunale di Siena invoca un intervento della Consulta di tipo sostitutivo, che modifichi la previsione normativa sia in punto di an che in punto di quantum, rendendola compatibile alle necessità ed ai bisogni propri del sistema sanzionatorio utilizzando le precise indicazioni «già rinvenibili nell’ordinamento, quali sono quelle individuate dall’art. 37 c.p.»[15]. Richiede, insomma, il rimettente che la Corte costituzionale dichiari la contrarietà a Costituzione del secondo comma dell’art. 34 c.p. nella parte in cui la disposizione prevede in capo al giudice un dovere di applicazione della pena accessoria al genitore condannato, e non invece un potere di applicazione discrezionale della misura sanzionatoria, e, al contempo, nel passaggio in cui la norma quantifica rigidamente l’ammontare di pena accessoria nel doppio della pena principale inflitta, anziché in misura uguale ad essa.  

 

***

 

6. In attesa di una pronuncia della Corte costituzionale[16] che dia risposta ai dubbi paventati dal Collegio toscano, sia consentita qualche breve considerazione sulla questione oggetto di queste note.

 

6.1. Preliminarmente, volendo brevemente inquadrare il contesto normativo in cui si colloca la disposizione censurata dal giudice a quo, così da meglio profilare le ragioni di fondo su cui la stessa poggia e le peculiarità che la caratterizzano, giova ricordare che l’odierna formulazione testuale dell’art. 34 c.p. è il risultato delle modifiche operate sull’originaria previsione legislativa prima dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, quindi dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154.

Volgendo lo sguardo, in particolare, al secondo comma dell’articolo, qui tacciato di illegittimità costituzionale, l’esame delle dinamiche evolutive che lo hanno coinvolto consente di distinguere tra un “nucleo duro” della norma, rappresentato dai contenuti sostanziali della stessa, conservati inalterati dalle novelle legislative succedutesi nel tempo, ed una porzione della previsione di aspetto magmatico, costituita dai profili attinenti ai rapporti tra genitori e figli, condensati nella terminologia utilizzata dal legislatore e modificati dallo stesso in considerazione del progresso giuridico e socio-culturale che ha interessato l’istituto della famiglia.

Se da un lato, quindi, sin dall’originaria introduzione del codice penale, il secondo comma dell’art. 34 c.p. prevedeva – e tutt’oggi prevede –, in ipotesi di delitti commessi con abuso, l’applicazione di diritto di una pena accessoria «per un periodo pari al doppio della pena [principale] inflitta», d’altro canto all’iniziale previsione, quale condizione di applicazione della sanzione accessoria, dell’abuso «della patria potestà o dell’autorità maritale», si è sostituita in un primo momento quella dell’abuso «della potestà dei genitori» e, da ultimo, quella dell’abuso «della responsabilità genitoriale». Modifiche tutte, come già si è rimarcato, dettate dalla necessità di adattare l’articolo alla differente visione prospettica maturata con riferimento alla posizione ricoperta dai genitori e dai figli nei loro reciproci rapporti, non più costretti nel binomio potestà-soggezione: precisa, sul punto, la Relazione illustrativa al decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, che ha introdotto nel tessuto codicistico il concetto di responsabilità genitoriale, che detta nozione, «già presente da tempo in numerosi strumenti internazionali […] è quella che meglio definisce i contenuti dell’impegno genitoriale, non più da considerare come una “potestà” sul figlio minore, ma come un’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio, [ragion per cui] i rapporti genitori-figli non devono essere più considerati avendo riguardo al punto di vista dei genitori, ma occorre porre in risalto il superiore interesse dei figli minori».

 

6.2. Per ciò che concerne il significato di responsabilità genitoriale, e pertanto gli effettivi contenuti delle pene accessorie delineate dall’art. 34 c.p. – che, accanto alla sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale qui in commento, disciplina la decadenza dalla responsabilità genitoriale –, la norma in parola si limita a precisare al terzo comma che la decadenza dalla responsabilità genitoriale importa «anche» – e, dunque, non esclusivamente – «la privazione di ogni diritto che al genitore spetti sui beni del figlio in forza della responsabilità genitoriale di cui al titolo IX del libro I del codice civile», aggiungendo poi, al quarto comma, che la sospensione dal relativo esercizio importa «anche l’incapacità a esercitare, durante la sospensione», i medesimi diritti.

Se le indicazioni date dal codice penale non paiono sufficienti a definire i contorni del concetto in esame, una più precisa delineazione del sintagma può ricercarsi, allora, nelle disposizioni del codice civile ad esso dedicate: la lettura congiunta, in particolare, degli articoli 147 e 316 del codice civile consegna una situazione giuridica complessa di contenuto eterogeneo, personale e patrimoniale, che condensa in sé i doveri, gli obblighi ed i diritti derivanti per il genitore dalla filiazione. 

 

6.3. Tornando alla littera legis della norma oggetto di censura, il secondo comma dell’art. 34 c.p. delinea un meccanismo di applicazione automatica della pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale che riflette i caratteri propri del genus sanzionatorio di appartenenza: la pena di cui all’art. 34 c.p. si caratterizza per l’accessorietà e, pertanto, ai sensi dell’art. 20 c.p. per un conseguire di diritto alla condanna, «come effetto penale di essa», profilo che non può che riflettere la volontà sistemica – ma non priva di eccezioni – del legislatore di limitare al massimo la discrezionalità giudiziale in relazione a questa tipologia di sanzioni.

Una ratio non dissimile è quella che può immaginarsi alla base dell’individuazione del quantum di pena accessoria da applicare al condannato, individuazione che, peraltro, per quanto concerne la sanzione accessoria in esame, non pare precludere in toto qualsivoglia incidenza del giudice sulla concreta quantificazione della durata della pena: non sfugge, difatti, che, a differenza di ipotesi in cui detta misura è predeterminata in via autonoma dalla legge in un quantum fisso – era il caso, ad esempio, delle pene accessorie di cui all’art. 216, ultimo comma, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, dichiarate costituzionalmente illegittime dalla Consulta con la sentenza n. 222 del 2018 –, il secondo comma dell’art. 34 c.p. definisce l’ammontare di sanzione correlandola in maniera rigida alla pena principale e, più precisamente, ponendola in un rapporto di 2 a 1 con il trattamento sanzionatorio discrezionalmente definito dal giudice. Sicché non parrebbe peregrino ritenere che, nel calibrare la pena principale da infliggere al soggetto condannato, il giudice consideri, ad unum, il complesso delle conseguenze promananti dalla pronuncia di condanna e, con esse, le pene accessorie automaticamente scaturenti dalla stessa.

 

7. Una prima conclusione cui si potrebbe addivenire traendo le fila di quanto sino a qui illustrato sarebbe, allora, quella di scansare i dubbi di legittimità costituzionale della norma, invocando la non manifesta irragionevolezza della scelta operata dal legislatore. La doppia automaticità – nell’an e nel quantum – della disciplina in esame sarebbe, in questo senso, il risultato di una attività di ponderazione, all’esito della quale il potere pubblico, valutati comparativamente gli interessi in gioco, avrebbe operato una scelta ragionevole ed in grado di soddisfare le esigenze preminenti dell’ordinamento.

Sul punto si rinvengono plurime pronunce del Giudice delle leggi che, interrogandosi sulla possibilità di dichiarare l’illegittimità di norme concernenti pene o, più in generale, trattamenti sanzionatori, giunge all’affermazione del principio in virtù del quale la determinazione della pena per le fattispecie criminose – e, del pari, la determinazione di pene accessorie – è materia affidata alla discrezionalità legislativa: presupponendo bilanciamenti di interessi e opzioni di politica criminale spesse volte assai complessi, le scelte del legislatore in materia sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale solo ove trasbordino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio[17].

Ciò anche in ipotesi di pene fisse e meccanismi automatici: sebbene, come rimarcato dal giudice a quo richiamando le sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980, la regola che consente una piena aderenza ai principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena sia quella della discrezionalità giudiziale, sì che «ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo “indiziata” di illegittimità», cionondimeno la configurazione di un trattamento sanzionatorio rigidamente fissato per legge è solo “indizio” e non “prova” di irragionevolezza, potendosi superare l’ipotetico dubbio di illegittimità costituzionale «caso per caso, a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente "proporzionata" rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato»[18].

 

8. La nostra riflessione impone, però, un passaggio ulteriore.

Sebbene non parrebbe di per sé irragionevole o arbitraria la previsione legislativa di automatismi sanzionatori, dettata da ragioni di generale e speciale prevenzione a fronte di particolari esigenze di protezione di beni costituzionalmente tutelati, più complesso appare verificare la ragionevolezza e la non arbitrarietà – e, più in generale, la rispondenza ai principi costituzionali – della pena accessoria di cui al secondo comma dell’art. 34 c.p. che, predeterminata nell’an e nel quantum, presenta una fisionomia del tutto peculiare, incidendo su una relazione e, così, colpendo direttamente tutti i soggetti che ne fanno parte.

Il vaglio di ragionevolezza della norma richiede, allora, di tenere in preminente considerazione che la pena della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale riverbera necessariamente i propri effetti, oltreché sul condannato, sul co-protagonista del vincolo familiare, il minore, che subisce le conseguenze di tal applicazione de iure e non solo de facto.

È questo un aspetto con chiarezza delineato dalla Consulta che, nell’ambito di una pronuncia dai contenuti non lontani dall’argomento di cui si discute[19], precisa che «la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale comporta in capo al genitore che ne è colpito non solo la perdita temporanea del potere di rappresentanza legale del figlio nell’ambito dei rapporti patrimoniali, ma – ben più radicalmente – la privazione, per tutto il tempo della sospensione, dell’intero fascio di diritti, poteri e obblighi inerenti al concetto legale di “responsabilità genitoriale”, con conseguente venir meno di ogni potere di assumere decisioni “per” il figlio, comprese quelle che attengono alle sue necessità di vita quotidiana e che l’art. 357 c.c., nel disciplinare i poteri del tutore, indica riassuntivamente con l’espressione “cura della persona”. Per quanto, allora, la pena accessoria in questione non comporti ipso iure il divieto di convivere con, o di frequentare il minore, è evidente che la privazione di ogni potere decisionale nell’interesse del minore impedirà, di fatto, al genitore sospeso dall’esercizio della propria responsabilità di vivere il proprio rapporto con il figlio al di fuori della immediata sfera di sorveglianza dell’altro genitore, o comunque di persona che sia titolare della relativa responsabilità e sia, pertanto, in grado di assumere in ogni momento le necessarie decisioni per il figlio»[20].

L’impatto potenziale della sanzione accessoria sulla relazione genitore-figlio è, conseguentemente, di tutta evidenza: la sospensione, seppur temporanea, dall’esercizio della responsabilità genitoriale rende obiettivamente più complesso per il genitore rapportarsi con il figlio minorenne e rischia, così, di danneggiare in primis proprio quest’ultimo. E ciò a maggior ragione in ipotesi in cui – come nella vicenda al vaglio del Tribunale di Siena – l’applicazione della pena accessoria possa dar luogo a dinamiche disgregative di un nucleo familiare ricompostosi dopo un’originaria frattura.

 

9. Le considerazioni svolte rendono prospettabile– a parere di chi scrive – l’esistenza di un vulnus là dove la norma, nella sua rigida fisionomia applicativa e commisurativa, impedisce al giudice qualsivoglia ingerenza volta a favorire una aderenza della disciplina normativa alle peculiarità del caso di specie. Paiono, insomma, fondate le censure mosse dal giudice a quo al secondo comma dell’art. 34 c.p., nei limiti in cui tale norma impedisce al giudice una scelta discrezionale che, incidendo sull’an e sul quantum di pena, porti ad una soluzione sanzionatoria improntata alle superiori ragioni di tutela dei diritti del minore.

Se, sotto un primo profilo, prendendo le distanze dall’ordinanza di rimessione, non sembra che, rispetto all’ampio novero di condotte riconducibili ai presupposti applicativi di cui all’art. 34, comma secondo, c.p., la disposizione censurata nei suoi profili di rigidità possa per se dar luogo all’applicazione di misure «manifestamente sproporzionate per eccesso […] rispetto ai fatti commessi con abuso di responsabilità genitoriale meno gravi»[21] – permanendo, come più in alto già illustrato, un margine di discrezionalità in capo giudice, che consente allo stesso di graduare il complessivo trattamento sanzionatorio da infliggere al condannato, perimetrato sulla sua personalità attraverso la quantificazione della pena principale e, di riflesso, della pena accessoria – i profili di attrito con i parametri costituzionali richiamati dal rimettente emergono ove si abbia riguardo alla posizione e agli interessi del figlio minorenne.

La misura sanzionatoria di cui si tratta, invero, frapponendosi in maniera significativa alla relazione tra il figlio e il genitore «in tanto può legittimarsi in quanto tale relazione risulti in concreto pregiudizievole per il figlio, in base al principio generale secondo cui ogni decisione che riguarda il minore deve essere guidata dal criterio della ricerca della soluzione ottimale per il suo interesse»[22]. Ed allora, non pare ragionevole assumere che l’automatica applicazione in proporzione fissa della pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale del genitore che si sia reso responsabile di delitti commessi con abuso dei propri diritti e doveri nei confronti della prole costituisca sempre e necessariamente la soluzione ottimale per gli interessi del minore, che richiederebbero, semmai, una valutazione in concreto, con apprezzamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della sua applicazione.

 

10. Occorre, tuttavia, segnalare come non consentirebbe di superare la frattura ordinamentale evidenziata la contraddittoria soluzione prospettata dal rimettente, che prefigura l’applicazione della disciplina di cui all’art. 37 c.p. alla disposizione in esame e, così, l’individuazione del quantum di pena accessoria applicabile in un ammontare di tempo pari alla pena principale. All’evidenza, difatti, tal soluzione si limiterebbe a modificare il rapporto matematico tra pena principale e misura accessoria (che così passerebbe da un rapporto di 1 a 2 ad un rapporto di 1 a 1), senza dar ingresso nella disciplina della sanzione accessoria alla auspicata discrezionalità giudiziale, necessaria a plasmare un trattamento sanzionatorio il più possibile rispondente anche agli interessi del figlio del condannato e suscettibile, in ipotesi, di portare ad una differente quantificazione di pena principale e pena accessoria.    

 

 

[1] Principio sancito dal terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, in relazione al quale si rinvia a G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, 13 ed., Giuffrè Francis Lefevbre, Milano, 2024, p. 19 ss.

[2] Trib. Siena, ordinanza n. 142/2024 del 6 giugno 2024.

[3] Ibidem.

[4] È questo, peraltro, secondo costante giurisprudenza costituzionale, elemento necessario e sufficiente a radicare la rilevanza ex art. 23, secondo comma, legge n. 87 del 1953 della questione di legittimità costituzionale sollevata: ai fini dell’ammissibilità, è «esigenza minima, ma inderogabile, che la questione abbia a riferimento leggi o disposizioni di legge delle quali il giudice debba, in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente, fare applicazione nel processo dinanzi ad esso svolgentesi» (C. cost., sentenza n. 142 del 1968 e, nello stesso senso, sentenza n. 216 del 1993 e ordinanza n. 23 del 2004), sicchè «l’applicabilità della disposizione [censurata] al giudizio principale è condizione sufficiente a radicare la rilevanza della questione, che non postula un sindacato più incisivo sul concreto pregiudizio ai principi costituzionali coinvolti» (sentenza n. 174 del 2016).

[5] Giova anche in questo caso richiamare la giurisprudenza costituzionale formatasi in materia di rilevanza della questione di legittimità costituzionale, che precisa che detto requisito «implica necessariamente che la sollevata questione di legittimità costituzionale abbia nel procedimento a quo un’incidenza attuale e non meramente eventuale. La pregiudizialità della questione medesima, conditio sine qua non ai fini del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si concreta solo allorché il dubbio investa una norma, dalla cui applicazione, ai fini della definizione del giudizio innanzi a lui pendente, il giudice a quo dimostri di non poter prescindere» (sentenza n. 190 del 1984).

[6] C. cost., sentenza n. 222 del 2018, ove il Giudice delle Leggi si richiama alla sentenza n. 50 del 1980.

[7] La terminologia è mutuata da C. cost., sentenza n. 50 del 1980, cit.

[8] C. cost., sentenza n. 104 del 1968.

[9] C. cost., sentenza n. 222 del 2018, cit., ove sono richiamate le sentenze n. 67 del 1963 e n. 104 del 1968, cit.

[10] Trib. Siena, ordinanza n. 142/2024 del 6 giugno 2024, cit.

[11] C. cost., sentenza n. 102 del 2020.

[12] Trib. Siena, ordinanza n. 142/2024 del 6 giugno 2024, cit.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Dai dati rinvenibili sul sito della Corte costituzionale, la trattazione della questione di legittimità di cui si tratta è fissata nella data del 24 marzo 2025.

[17] In questo senso, da ultimo, C. cost., sentenza n. 248 del 2020.

[18] C. cost., sentenza n. 50 del 1980, cit.

[19] C. cost., sentenza n. 102 del 2020, cit.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.

[22] C. cost., sentenza n. 102 del 2020.