Procura di Roma, memoria del 2.12.2024, p.m. Tucci e Ielo
*Contributo pubblicato nel fascicolo 12/2024.
1. Con la memoria che può leggersi in allegato, depositata il 2 dicembre 2024, la Procura della Repubblica di Roma ha chiesto al G.u.p. del Tribunale di Roma di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 1, lett. e) della l. 9 agosto 2024, n. 114, che ha riformulato il reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.). Secondo la Procura di Roma, la riformulazione del traffico di influenze illecite comporta l’inadempimento sopravvenuto di un obbligo internazionale di incriminazione assunto dall’Italia con la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione (Strasburgo, 1999, art. 12). Il parametro costituzionale violato, pertanto, viene individuato nell’art. 117, co. 1 Cost. Troviamo così conferma, nella memoria della Procura di Roma, dei dubbi di legittimità costituzionale che ci era sembrato di scorgere durante i lavori parlamentari e di cui abbiamo dato conto negli scorsi mesi di luglio e agosto in due contributi apparsi sulle pagine di questa Rivista (“La legge Nordio e il “soffocamento applicativo” del traffico di influenze illecite. Tra parziale abolitio criminis e profili di illegittimità costituzionale per violazione di obblighi internazionali”; - “Abuso d’ufficio e traffico di influenze dopo la l. n. 114/2024: il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale”) e, ancor prima, in un articolo di Liana Milella pubblicato sul sito di Repubblica (“ Fact-checking sul traffico di influenze ‘in versione’ Nordio. Un reato che ci metterà contro l’Europa. L’analisi del giurista Gatta”).
2. Nel rinviare ai citati contributi per una distesa illustrazione della modifica normativa che ha interessato il delitto di cui all’art. 346 bis c.p., ricordiamo qui che la modifica stessa, restringendo l’ambito applicativo della fattispecie, ha comportato una parziale abolitio criminis. Tra l’altro, infatti, ha perso rilevanza penale lo sfruttamento da parte del mediatore di relazioni meramente asserite/millantate; la contropartita della mediazione illecita deve ora essere una utilità economica (e non di altro tipo); la mediazione onerosa deve essere diretta a far commettere al funzionario pubblico un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato. Tre lacci che, come ritiene la memoria della Procura di Roma, citando espressioni usate in dottrina sulle pagine di questa Rivista, rispettivamente, da chi scrive e da Vincenzo Mongillo (“Splendore e morte del traffico di influenze illecite”), hanno comportato il “soffocamento applicativo” o la “sterilizzazione” del reato. Secondo la Procura romana, anzi, più che di soffocamento applicativo si tratta di “una totale asfissia applicativa, tale da portare in concreto all’ineffettività di ogni profilo sanzionatorio”; di “una fictio incriminatrice, dotata di un elevatissimo tasso di ineffettività, che disvuole ciò che vuole”. Il perché di un giudizio tanto severo, quanto a nostro parere fondato, è presto detto e va in particolare colto considerando la sinergia tra la riformulazione del traffico di influenze illecite e la contestuale abolizione dell’abuso d’ufficio. Nei casi di mediazione onerosa, come quella oggetto del giudizio pendente davanti al Tribunale di Roma, la nuova norma penale (che ha seguito un orientamento della Sezione VI della Cassazione criticato tra le righe dalla memoria in esame), richiede la finalizzazione al compimento di un atto, da parte del funzionario pubblico, che il più delle volte, come nel caso di specie, è un abuso d’ufficio. Il punto allora è questo: venuto meno l’abuso d’ufficio, del traffico di influenze illecite, che si applica fuori dei casi di corruzione e istigazione alla corruzione, rimane molto poco. Di qui l’efficace riferimento della Procura di Roma a sostanziale una “fictio incriminatrice”.
3. Nulla più del caso oggetto del giudizio rende evidente, quanto meno, la non manifesta infondatezza del dubbio e del problema che la Procura ha portato all’attenzione del G.u.p., chiamato ora a decidere se rimettere o meno la questione alla Corte costituzionale. Un caso che rivela un ulteriore macroscopico vuoto di tutela dell’imparzialità e del buon andamento della P.A., ulteriore rispetto a quelli che ha comportato l’abolizione dell’abuso d’ufficio, e ad essa correlato come effetto indiretto.
Il procedimento riguarda una nota vicenda che risale al tempo della pandemia: il caso delle mascherine cinesi. Nella contestazione, il trafficante di influenze illecite, sfruttando relazioni esistenti con il Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19, “si faceva promettere e consegnare ingenti somme di denaro (oltre 11 milioni di euro)” da un imprenditore “per remunerare la sua mediazione sul Commissario straordinario affinché quest’ultimo affidasse” all’imprenditore stesso “una posizione privilegiata nella fornitura dalla Cina di mascherine protettive”. La mediazione illecita era pertanto finalizzata al compimento di un abuso d’ufficio, da parte del Commissario straordinario-funzionario pubblico.
Ecco la rilevanza della questione: applicando la norma che ha riformulato il traffico di influenze illecite, che (sulla scia di un orientamento della VI Sezione della Cassazione) richiede ora per la mediazione onerosa la finalizzazione alla commissione di un reato – e tale non è più l’abuso d’ufficio – il Tribunale dovrebbe concludere il processo con una sentenza di proscioglimento del mediatore (peraltro – notiamo incidentalmente – ordinando la restituzione dell’ingente somma di oltre 11 milioni di euro, sotto sequestro).
4. In punto di ammissibilità della questione, la Procura di Roma ha buon gioco a ricordare, correttamente, come il divieto di sindacato costituzionale di norme penali con effetto in malam partem incontra nella giurisprudenza della Consulta alcune eccezioni, una delle quali (v. ad es. C. cost. n. 32/2014 e n. 40/2019) è rappresentata dalla contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi degli artt. 11 o 117, co. 1 Cost. La dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che ha comportato l’abolitio criminis parziale del traffico di influenze illecite, in contrasto con obblighi sovranazionali di incriminazione, comporterebbe pertanto la reviviscenza della norma incriminatrice previgente, risalente alla riforma Bonafede del 2019 (c.d. legge Spazzacorrotti). Quella riforma, come avevamo ricordato sulle pagine di questa Rivista e come la Procura di Roma sottolinea, “aveva riscosso il positivo apprezzamento della Commissione GRECO, organismo internazionale che presidia l’attuazione della convenzione del Consiglio d’Europa, superando le critiche espresse in precedenza nei suoi cicli di valutazione”. Una legge abolitrice del reato, se incostituzionale perché contraria a fonti sovranazionali rilevanti come parametri interposti nel giudizio di legittimità, non retroagisce e non sfugge al sindacato della Corte (v. anche Corte cost. n. 28/2010).
5. In punto di non manifesta infondatezza – tale, lo ricordiamo, è la valutazione che è chiamato a compiere il Tribunale a fronte dell’istanza della Procura –, infine, la memoria della Procura di Roma sottolinea in modo efficace – e a nostro avviso correttamente – l’esistenza di un preciso obbligo di incriminazione del traffico di influenze illecite, che come anche noi avevamo sostenuto è rinvenibile nell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo ed è desumibile dal tenore testuale della norma: “shall adopt…as criminal offence”. Acutamente la memoria della Procura sottolinea come il carattere cogente di un tale obbligo emerga dal confronto con la Convenzione ONU sulla corruzione (Merida, 2003), che all’art. 18, sempre a proposito del traffico di influenze illecite, usa la diversa espressione “shall consider adopting”. In questo caso si tratta di un obbligo di prendere in considerazione l’incriminazione; nel caso della Convenzione di Strasburgo, invece, di un vero e proprio obbligo di incriminazione, la cui violazione, attraverso una seppur parziale abolitio criminis, senza dubbio implica un inadempimento.
La Convenzione di Strasburgo, sottolinea ancora la memoria della Procura, non richiede l’introduzione di un qualsivoglia reato di traffico di influenze illecite, bensì la configurazione di una fattispecie con un “contenuto minimo” che – questo è il punto rilevante rispetto al caso di specie – non limita la mediazione onerosa illecita a quella diretta a commettere un atto contrario diretto ai doveri d’ufficio costituente reato. Di qui la violazione dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, che si prospetta in termini di inadempimento sopravvenuto rispetto alla completa attuazione realizzata con la precedente riforma dell’art. 346 bis c.p., risalente come si è detto al 2019. Una situazione del tutto simile – notiamo incidentalmente – a quella che si verificherebbe se venisse riformulata la fattispecie della tortura in violazione della relativa convenzione internazionale che ne prevede l’obbligo di incriminazione.
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6. Starà al Tribunale di Roma, ora, valutare gli argomenti esposti dalla Procura. La questione prospettata, si noti, è diversa da quella oggetto di plurime ordinanze di rimessione alla Corte costituzionali, relative all’abolizione dell’abuso d’ufficio. In quel caso diversi giudici a quibus hanno lamentato la violazione dell’art. 19 della Convenzione di Merida che, a differenza di quanto fa l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo in relazione al traffico di influenze illecite, non configura un obbligo di incriminazione.
Le questioni sull’abuso percorrono una strada in salita mirando a dimostrare la violazione di un obbligo di conservare l’incriminazione dell’abuso d’ufficio, esistente al momento della stipula/ratifica della convenzione di Merida; l’esistenza, in altri termini, di un obbligo di non fare un passo indietro pur in assenza – questo è il punto – di un espresso obbligo di incriminazione e in presenza di un mero obbligo espresso di ‘considerare l’incriminazione’.
La questione sul traffico di influenze illecite, se proposta, percorrerebbe a nostro avviso, invece, una strada ben più agevole, proprio perché – come sottolinea efficacemente la Procura di Roma, per di più in un caso di rilevante impatto anche agli occhi degli osservatori internazionali (vicenda correlata alla pandemia e che coinvolge interessi economici rilevantissimi e il commercio internazionale), a venire in rilievo è la violazione di un obbligo internazionale di incriminazione, e non di considerare l’adozione dell’incriminazione.
Si tratterebbe per la Corte, certamente, di vagliare la possibilità di dichiarare l’incostituzionalità di un inadempimento sopravvenuto di un obbligo internazionale. Una questione, questa, alla quale abbiamo già accennato nei nostri precedenti contributi e che supera a ben vedere l’orizzonte di un vaglio di non manifesta infondatezza, competendo senz’altro alla Corte costituzionale, se sarà chiamata a pronunciarsi.
La memoria della Procura di Roma offre dunque plurimi argomenti per sollevare per la prima volta un’interessante questione di legittimità costituzionale relativa al riformato delitto di traffico di influenze illecite. Un tentativo in tal senso – lo ricordiamo – era stato compiuto in precedenza dalla Procura di Foggia, con una memoria pure pubblicata su questa Rivista. In proposito segnaliamo ai lettori, per completezza d’informazione, che il caso foggiano, a differenza di quello romano, riguardava un’ipotesi di traffico di influenze millantato (non più rilevante dopo la riforma del 2024) e che la questione è stata ritenuta irrilevante dal g.u.p. perché il capo d’imputazione era stato costruito, alternativamente, facendo riferimento a relazioni esistenti o soltanto asserite”.