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21 Luglio 2025


Un’importante sentenza della Corte costituzionale sul principio di proporzionalità della pena come criterio di interpretazione restrittiva delle fattispecie penali

Corte cost., 18 luglio 2025, n. 113, Pres. Amoroso, Rel. Viganò



* Contributo pubblicato nel fascicolo 7-8/2025

 

 

1. Con la sentenza n. 113 del 2025 la Corte costituzionale fa un importante passo in avanti nel riconoscimento del principio di proporzionalità della pena e del correlativo diritto individuale a non subire pene sproporzionate alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto commesso.

 

Chiariamo subito: la novità non risiede nel riconoscimento del rango costituzionale del principio stesso, fondato sugli artt. 3 e 27, co. 1 e 3 Cost., che rappresenta già, come è noto, uno dei più rilevanti approdi della giurisprudenza costituzionale, in particolare dell’ultimo decennio. Sono ormai numerose, infatti, le sentenze con le quali la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questa o quella disposizione penale per contrasto con il principio di proporzionalità della pena, valorizzato (questo è il punto) nella sua dimensione di vincolo per il legislatore, cioè di limite alla sua discrezionalità, sul piano generale e astratto delle comminatorie di pena. In questa prospettiva si annoverano sentenze di incostituzionalità relative: a) ai limiti edittali, minimo e massimo, della pena detentiva (ad es., Corte cost. n. 236/2016, sull’alterazione di stato mediante falsità; Corte cost. n. 63/2022, sull’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare aggravata, di cui all’art. 12, co. 3, lett. d t.u. imm.); b) al solo minimo edittale della pena detentiva (ad es., Corte cost. n. 40/2019, in relazione all’art. 73, co. 1 t.u. stup.; Corte cost. n. 46/2024, in relazione all’appropriazione indebita); c) alla mancata previsione, quale “valvola di sicurezza”, di una attenuante ad effetto comune quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità (Corte cost., n. 68/2012, in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione; Corte cost. 244/2024, sul sabotaggio militare; Corte cost.120/2023, relativa all’estorsione; n. 86/2024, in tema di rapina; n. 91/2024, in materia di produzione di materiale pedopornografico; n. 83/2025, in tema di sfregio del volto); d) ad automatismi sanzionatori relativi alle pene accessorie (ad es., Corte cost. nn. 222/2018, 55/2025, 83/2025) o al bilanciamento delle circostanze, attraverso la previsione di divieti di prevalenze delle attenuanti su alcune aggravanti (ad es., Corte cost. nn. 73/2020, 94/2023, 141/2023, 188/2023, 197/2023), e) alla confisca obbligatoria (diretta o per equivalente), quando l’entità dell’ablazione risulti sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto (Corte cost. n. 7/2025, in tema di confisca dei beni commessi per commettere reati societari).

Questa volta – ecco la novità – succede qualcosa di diverso: la Consulta dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale che le era stata sottoposta e (se non erriamo, per la prima volta) valorizza espressamente il principio di proporzionalità della pena come canone ermeneutico, indicando al giudice una possibile, e doverosa, interpretazione costituzionalmente conforme a tale principio. In questa occasione, in altri termini, anziché individuare un limite nella discrezionalità del legislatore nelle scelte sulla pena, la Consulta suggerisce al giudice penale una possibile e doverosa via per evitare, a quadro normativo invariato, l’irrogazione di una pena sproporzionata.

 

2. Nel caso di specie, il Tribunale di Teramo dubitava della compatibilità col principio di proporzionalità della pena del trattamento sanzionatorio previsto per il sequestro di persona a scopo di estorsione, per il quale l’art. 630 c.p. commina la reclusione da venticinque a trent’anni. Una pena così severa, introdotta negli anni Settanta del secolo scorso, si giustifica, storicamente, in ragione della volontà politica di contrastare gravi episodi di sequestri frequenti in quegli anni. Oggi tali limiti edittali risultano sproporzionati se rapportati alla gravità di fatti criminologicamente ben diversi, come quello per i quali il giudice a quo procede: sequestri per brevi lassi di tempo, finalizzati a ottenere il pagamento di poche centinaia di euro quale corrispettivo di prestazioni sessuali che le vittime, ‘adescate’ tramite una piattaforma online, ritenevano gratuite. Di qui il petitum: in via principale, dichiarare incostituzionale la comminatoria di pena da venticinque a trenta anni di reclusione, sostituendola con quella da dodici a venticinque anni; in via subordinata, fissare in dodici anni di reclusione il minimo edittale. Il giudice a quo individuava tale minimo edittale, in particolare, in quello comminato dall’art. 630, co. 2 c.p. nella versione antecedente alla riforma del 1978, che introdusse la cornice di pena ancora oggi vigente; mirava, cioè, a fra rivivere la pena allora prevista per l’ipotesi aggravata dal fatto del conseguimento del profitto, come prezzo per la liberazione.

Nel sollevare la questione, il giudice a quo precisava poi di non ritenere applicabile l’attenuazione di pena resa possibile dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 68/2012, con la quale, proprio per evitare pene sproporzionate, fu introdotta, in analogia a quanto prevede l’art. 311 c.p. per il sequestro a scopo estorsivo ex art. 289 bis c.p., una riduzione di pena fino a un terzo in caso di fatto di lieve entità. Secondo il giudice a quo, infatti, l’attenuante – che consente di irrogare nel minimo la pena di sedici anni e otto mesi di reclusione – non sarebbe configurabile “in considerazione della pluralità e della ripetitività degli episodi delittuosi in atti ipotizzati, della partecipazione agli stessi di più imputati e, in generale, di tutte le circostanze dell’azione, nonché dell’entità del danno, quest’ultimo da considerarsi non solo nella sua dimensione patrimoniale, ma anche in quella non patrimoniale, consistente nella lesione della libertà personale e dell’autodeterminazione delle vittime”.

 

3. Che una pena minima di venticinque anni di reclusione sia evidentemente sproporzionata in rapporto a fatti come quelli per cui si procede, ben diversi dai sequestri dell’Anonima sarda o nelle grotte dell’Aspromonte, è del tutto evidente. Come anche è evidente che il concetto di “lieve entità” di un sequestro estorsivo strida con la pena minima di sedici anni e otto mesi, pur resa possibile dalla Corte costituzionale con la sua sentenza del 2012 e che il giudice a quo, a ragione o a torto, ha ritenuto non applicabile.

Quid iuris allora? La Corte costituzionale non ritiene fondata la questione che le è stata sottoposta: questa volta non ha seguito il solco della propria giurisprudenza sopra richiamata, con la quale in tante occasioni, negli ultimi anni, ha ricondotto a proporzione questa o quella disciplina sanzionatoria, attraverso la declaratoria di incostituzionalità, cioè modificando l’assetto normativo.

In questa occasione la Corte costituzionale, sul piano del metodo, cambia radicalmente il proprio approccio al problema della proporzionalità della pena. Forse anche in ragione della soluzione non agevole prospettata dal giudice a quo (far rivivere una pena comminata ormai quasi cinquant’anni fa per un’ipotesi aggravata di sequestro a scopo die estorsione), e a fronte di un caso di evidente sproporzione della pena irrogabile, lo fa – e ciò merita senz’altro di essere segnalato e di non passare inosservato nel contesto di una sentenza di infondatezza – esaltando una dimensione del principio restata fino ad oggi in ombra nella giurisprudenza e nella dottrina maggioritaria: quella di vincolo per il giudice, quale canone ermeneutico. Con le parole della Corte: “Il principio di proporzionalità della pena opera non solo come standard di legittimità costituzionale delle leggi penali, ma anche come criterio che orienta la loro interpretazione e la loro applicazione a opera del giudice comune”.

 

3.1. L’importante affermazione di principio viene argomentata nel § 4.1. della motivazione in diritto della sentenza annotata. Qui la Consulta sviluppa un interessante e persuasivo parallelismo con altri principi penalistici fondamentali, che condividono con il principio di proporzionalità della pena una duplice valenza di vincolo per il legislatore, da un lato, e per il giudice, dall’altro lato. Il riferimento è ai principi di offensività e di colpevolezza. Con riferimento a quest’ultima dimensione, la Corte osserva come “nell’uno e nell’altro caso, i principi costituzionali [di offensività e di colpevolezza] operano, entro il perimetro segnato dal testo, come criteri che guidano l’attività ermeneutica del giudice, sì da evitare risultati applicativi in contrasto con la Costituzione, come la punizione di una condotta radicalmente inoffensiva, ovvero di una condotta del tutto incolpevole. Ciò non può non valere anche per il principio di proporzionalità della pena, che mira ad assicurare che la reazione sanzionatoria a un fatto di reato, pur offensivo del bene giuridico e colpevolmente realizzato, non risulti eccessiva rispetto alla concreta gravità oggettiva e soggettiva del fatto […]. Nei limiti consentiti dal testo della legge, il giudice penale è pertanto tenuto a utilizzare tutti gli strumenti a propria disposizione per assicurare tale obiettivo, nel quadro di una doverosa interpretazione secundum constitutionem dei dati normativi, ferma restando naturalmente la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale, laddove tali dati normativi non permettano di raggiungere in via ermeneutica l’obiettivo dell’uniformazione a Costituzione”.

Quel che, in altri termini, la sentenza 113/2025 dice al giudice a quo, e a tutti i giudici penali, è che la cornice edittale – e, in particolare, il minimo edittale, soprattutto in presenza di quadri sanzionatori elevati, come nel caso dell’art. 630 c.p. – è un criterio di interpretazione che rende doveroso estromettere dall’ambito di applicazione della fattispecie penale fatti tipici, pur offensivi e colpevoli, che non raggiungono la soglia di disvalore e di gravità espressa dal legislatore attraverso la comminatoria di pena. Comminatoria di pena che implica un sacrificio per la libertà personale necessariamente proporzionato, in un bilanciamento di valori di rilievo costituzionale, alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto commesso. Quanto più elevato è il limite edittale di pena, in particolare, tanto più alta è la soglia della rilevanza penale di fatti che, pur tipici, offensivi e colpevoli, se non raggiungono quella soglia devono essere estromessi dalla fattispecie legale all’esito di  una riduzione teleologica della stessa, imposta da un’interpretazione conforme a Costituzione e, in particolare, al principio di proporzionalità della pena.

E’ indubbiamente questo il passaggio più importante della sentenza annotata, con il quale si valorizza e si sviluppa un’idea talora affiorata in dottrina. Diamo ancora la parola alla Corte costituzionale: “come si è efficacemente osservato in dottrina, il principio di proporzionalità della pena impone al giudice di espungere dalla fattispecie – nei limiti in cui il dato normativo lo consenta – condotte incapaci di attingere la soglia di disvalore congeniale alla gravità del compasso edittale, collocandosi così in una zona in cui alla ‘formale’ integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie astratta non corrisponde, sul piano ‘sostanziale’, l’integrazione del nucleo di disvalore che dovrebbe caratterizzare quella fattispecie, secondo la stessa valutazione del legislatore riflessa nella misura della pena edittale”.

In effetti, nella dottrina italiana l’idea di valorizzare la cornice edittale come canone ermeneutico, che impone interpretazioni restrittive in ossequio al principio di proporzionalità della pena, era stata prospettata  da diversi Autori. Oltre al Giudice relatore della sentenza annotata (cfr. F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, 2021, p. 257), possono vedersi, tra gli altri, V. Manes, L’evoluzione del rapporto tra Corte e giudici comuni nell’attuazione del ‘volto costituzionale’ dell’illecito penale, in V. Manes-V. Napoleoni, La legge penale illegittima, 2019, p. 371 s. – al quale sembra riferita la citazione della sentenza annotata – nonché, in precedenza, S. Prosdocimi, Note sul delitto di estorsione, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2006, p.  679 e, volendo, G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevanti, 2013, p. 160 e, ivi, anche la nota n. 33.

 

3.2. E’ interessante notare (in particolare, leggendo il § 4.2. del considerato in diritto) come la Consulta individui, in sostanza, tre diverse fasce di gravità nelle quali il giudice penale può inquadrare sotto-fattispecie di sequestro estorsivo di diversa gravità.

I fatti più gravi si collocano nella prima fascia, che integra senz’altro la fattispecie di cui all’art. 630 c.p. A scalare, nella seconda fascia si collocano i fatti in concreto meno gravi, ma pur sempre meritevoli di una pena assai severa perché pari, nel minimo, a sedici anni e otto mesi, che vanno ricondotti, in ossequio al principio di proporzionalità della pena, all’ipotesi attenuata introdotta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 68 del 2012. Tale circostanza, sottolinea la Corte nella sentenza qui annotata, mira a evitare l’irrogazione di pene sproporzionate rispetto alla gravità concreta del fatto e va essa stessa interpretata alla luce del principio di proporzionalità della pena. Laddove poi la pena risultante dall’applicazione di tale circostanza attenuante risulti comunque sproporzionata rispetto alla gravità del fatto concreto commesso dall’imputato – dice la Corte – entra in gioco la terza fascia (v. il § 4.3. del considerato in diritto): “il giudice dovrà vagliare la possibilità di una interpretazione restrittiva secondo la ratio della fattispecie astratta di sequestro di persona a scopo di estorsione, sì da evitare di irrogare una pena incompatibile con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost”. Si legge nella sentenza annotata: “Il principio di proporzionalità della pena – nella sua veste di canone ermeneutico – imporrà al giudice di valutare con particolare attenzione se i fatti accertati siano effettivamente sussumibili nell’art. 630 c.p. Rispetto a tale reato, la misura della pena edittale (e in particolare, della pena minima) costituisce, in effetti, un segnale della particolare gravità del fatto che il legislatore ha inteso contrastare; sicché potrà e dovrà presumersi, nel quadro di un’interpretazione costituzionalmente orientata al principio di proporzionalità, che il legislatore stesso abbia voluto escludere dal tipo quei fatti concreti che siano connotati da un disvalore assai meno significativo, tale da non giustificare una pena così elevata”.

 

3.3. Ciò non significa necessariamente, osserva la Corte, determinare un esito di impunità del fatto. Proprio nel caso del sequestro di persona a scopo di estorsione, la mancata applicazione della norma penale sproporzionata alla gravità del fatto, ove non ricorra l’ipotesi attenuata introdotta nel 2012, comporterà “l’applicazione – in luogo di un reato complesso – delle singole fattispecie criminose che lo compongono, sì da assicurare comunque una risposta adeguata alla gravità del fatto commesso e ragionevolmente dissuasiva, e però contenuta entro i limiti della proporzione. Così, una privazione della libertà personale durata poche decine di minuti finalizzata al conseguimento di un profitto pari a qualche centinaio di euro ben potrà essere ritenuta integrare il comune delitto di sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p., sanzionato con la pena minima di sei mesi di reclusione, in concorso con il delitto di estorsione (o se del caso rapina), tentata o consumata; ma, verosimilmente, non potrà ritenersi di tale gravità da integrare addirittura la fattispecie di sequestro di persona a scopo di estorsione: delitto che resta punibile, pur laddove il fatto venga qualificato come di lieve entità (e in assenza di altre attenuanti), con l’elevatissima pena minima di sedici anni e otto mesi di reclusione. Il disvalore di una simile condotta è, infatti, del tutto analogo a quello che caratterizzerebbe una comune estorsione o rapina realizzate attraverso l’uso di violenza o minaccia contro la vittima; reati, questi ultimi, che pure comportano una lesione del suo patrimonio, del suo diritto all’autodeterminazione nella sfera patrimoniale, ed eventualmente (nel caso in cui venga usata violenza) della sua integrità fisica, senza che, però, vengano in alcun modo in considerazione gli ulteriori connotati offensivi che, nella visione del legislatore, caratterizzano il sequestro estorsivo”.

 

3.4. A tale risultato, osserva infine la Consulta nel § 4.4. del considerato in diritto, non osta il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, co. 2 Cost. Osserva la Corte: “la ratio garantistica del principio – posto a tutela, in primis, della libertà della persona e della sicurezza delle sue libere scelte di azione – non si oppone, […] a che il giudice possa (e talvolta debba) interpretare restrittivamente una disposizione incriminatrice, escludendone l’applicazione allorché sia chiaro che il suo testo plus dixit quam voluit: ogniqualvolta, cioè, la sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta sia preclusa dall’interpretazione corretta di quest’ultima, imposta dal suo rapporto con la pena prevista dal testo normativo, alla luce del principio costituzionale di proporzionalità della pena. L’interpretazione restrittiva secondo la ratio (o “riduzione teleologica”, secondo una nota definizione dottrinale) della disposizione incriminatrice è, in particolare, doverosa per il giudice penale allorché risulti necessaria per evitare un risultato contra constitutionem, come da tempo comunemente si riconosce in riferimento ai principi di offensività e di colpevolezza, quanto meno laddove non risulti la chiara volontà del legislatore di imporne comunque l’applicazione anche in simili circostanze: ipotesi, quest’ultima, in cui il giudice sarà tenuto a sollevare incidente di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte. Rispetto alla disposizione incriminatrice ora all’esame, è evidente che il legislatore del 1978 [nel prevedere l’ancora vigente comminatoria di pena da 25 a 30 anni di reclusione n.d.r.] ha inteso colpire fenomeni criminosi affatto diversi da quelli di cui si discute nel giudizio a quo: sicché nulla osterà, in casi siffatti, a una interpretazione restrittiva costituzionalmente orientata che conduca a escludere l’applicazione dell’art. 630 c.p. laddove il giudice ritenga che il grado di offensività dei fatti accertati non attinga la soglia di gravità che giustifica, nella valutazione politico-criminale del legislatore, la previsione di una pena così severa; pena il cui rigore è solo parzialmente mitigato dalla possibilità di applicare – per effetto della sentenza n. 68 del 2012 di questa Corte – la circostanza attenuante del fatto di lieve entità”.

 

***

4. Qualche considerazione a caldo, a margine di una sentenza di indubbia importanza, che richiamerà senz’altro l’attenzione di dottrina e giurisprudenza.

In una stagione di crescente torsione punitiva del sistema penale, che ha di recente vissuto il suo apice con il decreto-sicurezza, la Corte costituzionale consegna al giudice penale – ai giudici di merito e alla Cassazione – nonché ai pubblici ministeri, agli avvocati e agli interpreti in genere, uno strumentario concettuale utile ad evitare, per via interpretativa, l’applicazione di pene evidentemente sproporzionate. Il giudice comune viene così elevato a “custode” del principio di proporzione (cfr. F. Viganò, La proporzionalità della pena, cit., p. 253 s.), tutte le volte in cui il dato testuale della norma incriminatrice consenta e, quindi, imponga, una interpretazione conforme e Costituzione. Sotto questo profilo – ed è un’altra importante novità della sentenza annotata – al principio di proporzionalità della pena viene riconosciuta pari dignità e forza, sul piano dell’interpretazione secundum Constitutionem, rispetto ai principi di offensività e colpevolezza. Non è un fratello minore di quei principi, che il penalista è senza dubbio abituato a maneggiare con più confidenza, salvo preoccupanti amnesie (vale, in particolare, per alcuni orientamenti della Cassazione, ad esempio, in tema di omicidio preterintenzionale o di errore sulla legge penale). La sentenza n. 113/2025 ci dice, insomma, che con la proporzionalità della pena il giudice deve fare sul serio: non solo quello costituzionale, ma anche e ancor prima quello comune.

Così facendo, la Corte valorizza il ruolo del giudice comune, nel sistema, e la fiducia che nello stesso deve essere riposta, al fine di un’applicazione del diritto penale conforma a Costituzione. In questa occasione, insomma, la Consulta evita di dichiarare incostituzionale una norma e, con una sentenza che, nella sostanza anche se non nella forma, è una interpretativa di rigetto, dà al giudice comune gli strumenti per irrogare, caso per caso, una pena proporzionata.

 

4.1. Una sentenza con la quale la Corte costituzionale dice al giudice penale che, se il fatto non raggiunge una certa soglia di gravità, può e deve non applicare la norma sul sequestro di persona a scopo di estorsione, in lugo di quelle sul sequestro semplice e sull’estorsione, può comprensibilmente far sorgere dubbi sotto il profilo del rispetto della riserva di legge. La Corte ne è consapevole e si preoccupa di fugare tali dubbi, in modo, secondo noi, opportuno e persuasivo. Se, e nel momento in cui, la norma che configura il reato complesso (l’art. 630 c.p.) viene messa fuori gioco, diventano applicabili, in concorso, le norme che danno vita a quel reato complesso (gli artt. 605 e 630 c.p.).; e diventa inapplicabile l’art. 85 c.p. Il fenomeno è analogo a quello che si verifica, in caso di abolizione del reato complesso o di sua dichiarazione di illegittimità costituzionale: nessuno dubiterebbe dell’applicabilità delle norme incriminatrici che davano vita al reato complesso ed erano in esso assorbite.

D’altra parte, come sottolinea la Corte, il principio di riserva di legge – in ragione della sua ratio di garanzia, non messa in discussione nel caso di specie – non è di ostacolo a un’interpretazione conforme a Costituzione in chiave di riduzione (e non già di espansione) dell’ambito di applicazione di una fattispecie penale. Nessuno ha infatti mai invocato la riserva di legge per impedire al giudice, attraverso una interpretazione conforme a Costituzione, di applicare una norma a un fatto inoffensivo o incolpevole. Perché lo stesso non dovrebbe valere quando il giudice esclude dal perimetro della fattispecie penale un fatto di gravità sproporzionatamente inferiore a quella segnalata dalla cornice edittale? Sempre che, come la sentenza annotata si preoccupa di sottolineare, la lettera della legge consenta di estromettere il fatto dal tipo legale, il che si deve escludere in caso di norme che (a differenza dell’art. 630 c.p.) siano formulate dando rilievo a ipotesi individuate specificamente. In questa evenienza, il giudice si troverebbe sbarrata la via dell’interpretazione conforme a Costituzione e dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale.

Indubbiamente, un punto debole è rappresentato dalla linea di confine, non netta, tra le sotto-fattispecie che possono rientrare nell’alveo applicativo della fattispecie e quelle che il giudice deve estromettere dalla fattispecie stessa, in applicazione del principio di proporzionalità della pena. Si tratta di un problema irrisolvibile, connaturato all’esistenza di infiniti casi e di una inevitabile zona grigia. Quel che, a noi pare, è incontrovertibile, è che esistono nondimeno casi, come quello oggetto del procedimento a quo, rispetto ai quali una certa pena (minima, in particolare) è macroscopicamente sproporzionata. Il principio affermato dalla Consulta è senz’altro valido e può operare con riferimento a questi casi; diventa invece più problematico tanto più ci si allontana dagli stessi.

 

4.2. In una stagione di continue tensioni tra legislatore e giudice penale, la Corte ricorda a noi tutti che l’interpretazione conforme a Costituzione è compito e dovere del giudice. Il che non toglie, a dire il vero, che un intervento della Consulta, sulla scia dei tanti sopra ricordati che hanno dichiarato l’incostituzionalità di questa o quella norma per violazione del principio di proporzionalità della pena, ha il vantaggio di fugare il rischio della sempre possibile elusione dell’interpretazione conforme (non infrequente, ad esempio, nella giurisprudenza di merito e di legittimità in rapporto al principio di colpevolezza) ed evita altresì di esporre i giudici all’impopolarità che può conseguire dalla mancata inflizione di pene sproporzionate per la Costituzione ma non anche per una parte dell’opinione pubblica, sobillata da politica e mezzi di informazione. Insomma, in tempi di populismo penale custodire il principio di proporzionalità della pena è un’opera ancor più nobile e importante, che non può essere rimessa solo alla Corte costituzionale e che richiede la collaborazione, essenziale e preventiva, del giudice comune, al quale, questa volta, la Consulta ha passato la palla con un assist degno dei migliori numeri dieci.

Se la sentenza 113 farà giurisprudenza, ci potremo aspettare nel futuro un cambio di strategia e un self restraint della Consulta nella dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme penali per violazione del principio di proporzionalità della pena. Analogamente a quanto già fa in rapporto ai principi di colpevolezza e di offensività, la Corte vaglierà, verosimilmente, se il giudice a quo ha sperimentato la via dell’interpretazione conforme a Costituzione, prima di sollevare la questione. Una via che, che da oggi, comprende anche l’interpretazione restrittiva attraverso una riduzione teleologica guidata dalla pena comminata per il reato di cui si tratta. Se questo sarà il futuro, potremo aspettarci un minor numero di declaratorie di incostituzionalità in punto di proporzionalità della pena; così come è avvenuto in rapporto ai principi di offensività e di colpevolezza. E’ quindi fondamentale, per la tutela dei principi costituzionali e dei diritti ad essi sottesi, che i giudici comuni prendano sempre più sul serio il loro ruolo e l’interpretazione conforme a Costituzione, iniziando a valorizzare anche e proprio le cornici edittali e il trattamento sanzionatorio in genere come canone ermeneutico.

 

5. Sarà interessante vedere, allora, se e come la strada aperta dalla sentenza 113 sarà seguita nella giurisprudenza di merito e di legittimità. Con l’avvertenza che, a nostro parere, il principio di proporzionalità della pena, quale canone ermeneutico, può in via di principio consentire interpretazioni restrittive non solo in rapporto a reati che presentano cornici edittali molto elevate, specie nel minimo, come nel caso del sequestro estorsivo; ma anche in rapporto a reati di non particolare gravità. Si pensi a un reato come l’uccisione di animali realizzata per crudeltà (art. 544 bis c.p.), in rapporto al quale è espressamente esclusa l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. Ora che la recente legge Brambilla (l. n. 82/2025) ha cambiato la rubrica del titolo IX bis del Libro II del codice penale – da “delitti contro il sentimento per gli animali” a “delitti contro gli animali” – per escludere la rilevanza penale dell’uccisione di una mosca, alla quale qualcuno stacchi ali e zampe, non si può più invocare una pretesa mancanza di sensibilità dell’uomo per le mosche: come abbiamo sostenuto in altra sede, si potrà però escludere dal perimetro della fattispecie penale di cui all’art. 544 bis c.p. un fatto che attinge il livello minimo di gravità individuato da una pena che, ora, è stabilita nel minimo in sei mesi di reclusione e in 5.000 euro di multa (cfr. G.L. Gatta, sub art. 544 bis, in E. Dolcini-G.L. Gatta., Codice penale commentato, VI ed, 2025). E’ solo un esempio, tra i tanti possibili, dei percorsi interpretativi che potranno essere argomentati anche e proprio richiamando la sentenza n. 113 del 2025.

 

6. Proprio il nostro esempio e, prima ancora, il riferimento all’art. 131 bis c.p., ci suggerisce un’ultima riflessione, che attiene al rapporto tra i principi di proporzionalità della pena e di offensività. Quale è il rapporto tra i due principi, nella prospettiva della sentenza n. 113? Dire che il fatto concreto non raggiunge una soglia di gravità tale da meritare la pena minima comminata dalla legge (nel caso del sequestro estorsivo, 25 anni) implica che quel fatto sia inoffensivo? Se così fosse, il principio di proporzionalità della pena non avrebbe un ambito di operatività autonomo dal principio di offensività e la Corte, a ben vedere, avrebbe potuto suggerire al giudice a quo la strada dell’interpretazione conforme a quest’ultimo principio. Senonché, a ben vedere, nel caso sottoposto al suo esame la Corte non nega l’offensività della condotta, tanto che, per i fatti di minore gravità, segnala la strada dell’applicazione delle norme sul sequestro di persona semplice e sull’estorsione, poste a tutela degli stessi beni giuridici (persona e patrimonio). Il principio di proporzionalità della pena, allora, ha una sua autonomia funzionale e di tutela rispetto al principio di offensività nella misura in cui indica il livello minimo di offesa richiesto dalla legge per integrare la fattispecie, ricavandolo dal tipo e dalla misura della pena. Ci viene in mente un caso di scuola: il furto di un acino d’uva o di una nocciolina in un supermercato. L’offesa al patrimonio esiste, per quanto esiguo sia il valore di un acino d’uva o di una nocciolina (se vengono collocati su una bilancia di precisione di quelle in uso nei supermercati, l’etichetta del prezzo riporterà un qualche valore in centesimi). Il fatto è, quindi, in astratto offensivo. Senonché la cornice edittale del furto, valorizzata quale canone ermeneutico, esclude che la relativa figura di reato sia integrata: esclude, cioè, che il grado dell’offesa al patrimonio, sufficiente e necessario, individuato dal minimo edittale, sia integrato quando il furto abbia ad oggetto cose del valore di pochi centesimi. Il principio di proporzionalità, insomma, fa luce sul grado dell’offesa necessario, agendo in sinergia e in modo complementare con il principio di offensività. L’un principio pretende che ci sia un’offesa al bene giuridico; l’altro che la pena sia proporzionata alla gravità di quell’offesa e, quindi, che l’offesa stessa raggiunga un certo grado desumibile dall’entità della risposta sanzionatoria.

6.1. Alla luce dei principi di offensività e di proporzionalità della pena, in conclusione, occorre pertanto distinguere: a) fatti senz’altro inoffensivi; b) fatti rispetto ai quali l’offesa è di particolare tenuità e che, a seconda dei casi, possono essere oggetto della causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p., ovvero di una circostanza attenuante come nel caso del sequestro a scopo di estorsione o, comunque, di una pena orientata al minimo edittale, in applicazione dell’art. 133 c.p.; c) fatti offensivi ma non al punto da integrare una determinata fattispecie penale, in ragione della pena per essa comminata e di un’interpretazione conforme al principio di proporzionalità. Tali ultimi fatti potranno essere oggetto di una circostanza attenuante, se prevista dall’ordinamento, o integrare altre figure di reato che comportano una pena non sproporzionata, ovvero restare impuniti se non riconducibili ad alcuna figura di reato. Questo, in sintesi, il quadro di opzioni, di particolare interesse e rilievo, ricavabile dalla sentenza qui annotata.