Cass. Sez. VI, ord. 21.2.2025 (dep. 7.3.2025), n. 9442, Pres. Fidelbo, Rel. D'Arcangelo, ric. Spinelli
Pubblichiamo in allegato l’ordinanza con la quale la VI Sezione penale della Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale della c.d. legge Nordio (l. n. 114/2024), nella parte in cui ha abrogato la norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio. In attesa di ospitare sulla nostra Rivista contributi di commento, segnaliamo – come già anticipato nei giorni scorsi attraverso la pubblicazione della notizia di decisione – che la questione, pur comportando, se accolta, un effetto in malam partem (la reviviscenza dell’art. 323 c.p.) – è stata ritenuta ammissibile alla luce della giurisprudenza costituzionale che individua una eccezione al divieto di sindacato con effetti in malam partem nell’ipotesi del contrasto con obblighi sovranazionali (cfr. Corte cost. n. 37/2019). Nel caso di specie, secondo la S.C., l’abrogazione dell’art. 323 c.p. avrebbe comportato una sopravvenuta inattuazione di quegli obblighi, fondati sulla Convenzione ONU contro la corruzione (Merida, 2003).
L’ordinanza – la prima della Cassazione, dopo 13 ordinanze di giudici di merito – si segnala, indubbiamente, per un particolare sforzo argomentativo, che in parte riprende considerazioni svolte da alcune delle ordinanze di rimessione e, nella parte di maggiore interesse, sviluppa un argomento ulteriore: l’obbligo rilevante rispetto al sindacato della Corte costituzionale, al metro degli artt. 11 e 117, co. 1 Cost., non sarebbe solo un obbligo di incriminazione vero e proprio – inesistente rispetto all’abuso d’ufficio – ma un ben più ampio obbligo di mantenere standard di efficace attuazione della Convenzione di Merida nel suo complesso e, in particolare, rispetto ad ambedue le anime di cui si compone: quella della prevenzione e quella della repressione.
La tesi della Cassazione, in questa prospettiva che muove dalla premessa di una interpretazione complessiva e sistematica della Convenzione di Merida, fa leva sull’impatto dirompente dell’abolizione dell’abuso d’ufficio sul complessivo sistema di prevenzione e contrasto del malaffare e degli abusi di potere nella p.a. delineato dalla Convenzione ONU; un impatto che si determina in ragione dell’assenza di interventi sul piano amministrativo/contabile/disciplinare o, comunque, extrapenale, in grado di compensare l’abbassamento dello standard di tutela realizzato con l’abolizione dell’abuso d’ufficio.
La violazione degli obblighi assunti in sede internazionale, insomma, non sarebbe riducibile alla mera inosservanza di una raccomandazione di punire l’abuso d’ufficio, bensì all’abbassamento complessivo – anche sul terreno della prevenzione, questo è il punto – dello standard di tutela, incompatibile con gli obblighi assunti a Merida; obblighi che prevedono anche quello di mantenere e quindi di non abbassare quello standard.
Ne risulta un sacrificio della tutela dei cittadini rispetto agli abusi dei funzionari pubblici incompatibile con la Convenzione e con la Costituzione.
Il caso oggetto del giudizio è significativo in tal senso: riguarda un abuso di potere commesso da un segretario comunale a danno di capogruppo di un partito di opposizione, dimesso dalla carica di consigliere in violazione della legge, essendosi quel consigliere limitato in aula a minacciare le sue dimissioni (da capogruppo, peraltro) e, soprattutto, non avendo egli presentato formali dimissioni, come richiesto dalla legge.
Sul tema dei rapporti tra abolizione dell’abuso d’ufficio e prevenzione del conflitto di interessi e degli abusi nella p.a. rinviamo ai contributi del prof. Carloni e della prof.ssa Mercati, pubblicati sulla nostra Rivista.