Recensione a Maria Martello (a cura di), Il senso della mediazione dei conflitti. Tra diritto, filosofia e teologia, Giappichelli, Torino 2024
È un buon segno che anche in Italia stiano crescendo le ricerche meta-tecniche sulla mediazione, come quella curata da Maria Martello. Significa che nonostante le molte difficoltà e le numerose false partenze, l’istituto sta finalmente uscendo dalla palude meramente utilitaristico-deflattiva della giustizia ordinaria per accedere alla dignità di strumento capace di generare mutamenti evolutivi profondi nella realtà delle strutture giuridiche e delle interazioni sociali.
La mediazione moderna, quella che in vari modi si svolge “all’ombra della legge” nelle società complesse contemporanee, può essere descritta come un insieme di pratiche comunicative messe in atto da una figura terza, imparziale e accettata dalle parti che le aiuti a cercare una soluzione consensuale al conflitto atta a soddisfare nel miglior modo possibile i loro interessi. In generale, medi-azione è letteralmente l’azione di chi “sta in mezzo”, di colui che cerca di costruire uno spazio comune di dialogo per evitare che il conflitto degeneri in dissidio insanabile. Ma è anche medi(c)azione, l’azione di colui che letteralmente si prende cura del conflitto, di chi attua una terapia comunicativa che è soprattutto preventiva di più gravi patologie. E talvolta può diventare medi(t)azione, l’azione di chi tenta di scalfire la superficie di un conflitto per coglierne le ragioni profonde, di chi aiuta a considerare il problema come un’opportunità di riconoscimento dell’altro e di trasformazione relazionale.
Le forme che va assumendo questo strumento di gestione dei conflitti possono essere ricondotte a tre tipi principali di orientamento operativo, distinguibili tra loro in base ai mezzi utilizzati e ai fini perseguiti. Tenendo comunque sempre presente che la mediazione, per sua natura ontologica, non sopporta più di tanto il settarismo classificatorio delle ‘ortodossie’ fenomenologiche.
Un primo tipo, quello finora più diffuso, è riconducibile al modello di mediazione “conciliativa”, o utilitaristica, del genere problem solving: le relazioni e gli interessi delle parti nel conflitto vengono tematizzati e discussi soprattutto in funzione del problema da affrontare, allo scopo di raggiungerne, se possibile, una concreta soluzione. Il percorso di questa mediazione si presta ad affiancare, o in vario modo a intrecciarsi, a quello della giustizia civile tradizionale.
Un secondo tipo è quello che interpreta la mediazione come uno strumento di giustizia riparativa che pone al centro del proprio intervento l'esigenza di rimediare a una violenza fatta o subita: si tratta di una giustizia post-conflitto, che mette in primo piano la rielaborazione di ciò che gli attori hanno vissuto e persegue il riconoscimento reciproco tra vittima e reo. Assume le forme della mediazione penale quando si presenta come diversion dal normale processo. Può diventare uno strumento di verità e riconciliazione collettive quando interviene come meccanismo per gestire i processi di transizione in senso lato postbellici.
Un ultimo tipo, il più recente come sviluppo, attiene a quell’insieme di forme di mediazione in funzione soprattutto trasformativa che si concentrano, per così dire, più sulla procedura che sul risultato: il loro obbiettivo è quello di migliorare la qualità delle relazioni tra i soggetti coinvolti nel conflitto, allo scopo di renderli capaci di risolvere autonomamente i loro problemi, anche futuri, attraverso la crescita di una comunicazione interpersonale volta al superamento della mera tolleranza nella direzione di un vero reciproco riconoscimento.
Mediazione non è transazione, né compromesso: non si tratta soltanto di fare concessioni per raggiungere un accordo che eviti la lite, ma di prospettare possibilità e inventare alternative per una ‘vittoria’ comune. Tanto meno è giudizio: non si tratta di decidere, di tagliare con la spada della giustizia per separare una ragione da un torto, un’innocenza da una colpevolezza, al fine di attribuire responsabilità. Mentre il giudizio guarda al passato per attribuire una responsabilità e raccogliere gli elementi su cui fondare la sua ‘verità’, la mediazione è rivolta al futuro per esplorare possibilità e generare opportunità di soluzione. La sua logica non è quella escludente dell’aut-aut e del tertium non datur, ma quella inclusiva dell’et-et. In questo senso, soprattutto, è una strategia di riduzione del danno radicalmente alternativa al modello giudiziario standard di soluzione dei conflitti. Mediazione non è infatti soltanto il risultato eventuale di un accordo, ma soprattutto un percorso di autonomia che genera uno spazio di comunicazione. Praticandola, si può diventare relazionalmente adulti, perché si accetta il confronto con l’altro senza aspettare la soluzione eteronoma generata da un potere esterno al conflitto: se siamo stati autonomi nel produrre un accordo, perché non dovremmo continuare ad esserlo nel gestire i problemi che da esso possono derivare?
Nel suo saggio introduttivo, Maria Martello abbraccia con decisione il modello trasformativo della medi(c)azione/medi(t)azione, esponendone le innumerevoli potenzialità. Nessun dubbio sulla superiorità culturale dell’approccio umanistico rispetto a quello utilitaristico. Ma in un contesto sociale di ancora diffuso analfabetismo in tema conflittuale, in mancanza di meglio lasciamo anche che due persone comincino intanto ad accostarsi al problem solving invece di togliersi la parola andando in giudizio: le vie della mediazione sono infinite.
Ottime le notazioni di Tommaso Greco sulle origini ‘sfiduciarie’ del diritto. Ritualizzare la violenza; scambiare libertà per sicurezza sotto la spinta della paura; evitare che i cives ad arma veniant; riuscire a far vivere come santi un gruppo di ladroni…Tutte immagini che confermano lo stigma di insocievole socievolezza che segna il diritto nelle sue forme tradizionali. La ‘contaminazione’ con la mediazione può davvero riuscire a curare il diritto dalla diffidenza e farlo evolvere verso una giustizia fiduciaria.
Roberto Bartoli dedica il suo contributo alla giustizia riparativa, il secondo dei grandi tipi di mediazione cui accennavo prima, e ne esamina le relazioni con le forme classiche della giustizia retributivo/punitiva. Anche alla luce della recente riforma Cartabia, Bartoli ritiene che tra giustizia punitiva e giustizia riparativa possa instaurarsi un rapporto di complementarietà e non di concorrenza. Perché è comunque in the shadow of law che la mediazione penale tenta di ricostruire, per così dire, il contesto di una ‘buona vendetta’, dove alla vittima e al reo venga restituita la dignità di protagonisti che la penalità statuale ha espropriato loro, al fine di esplorare la sconvolgente possibilità di una metánoia del riconoscimento e del perdono.
Particolarmente coinvolgenti sono poi le pagine in cui Luciana Breggia descrive la sua esperienza di giudice civile che, come pochi altri, ha preso veramente sul serio lo ‘tsunami’ della mediazione. La mediazione ha avuto bisogno del cavallo di Troia del processo civile per cominciare ad affermarsi. Anche grazie alla recente riforma processuale, è arrivato finalmente il momento di smettere con gli estenuanti cavillosi tecnicismi formali e approfittare di tutti gli spazi che le vengono aperti: perché “il significato più profondo della mediazione non è quello di alleggerire tribunali ingolfati, ma di promuovere l’autodeterminazione delle persone”.
Infine, gli scritti di Letizia Tomassone e di Pietro Bovati offrono uno sfondo che non è solo teologico, ma in senso forte archetipico, al fenomeno del conflitto e al significato profondo delle sue forme di gestione.
Ormai più di trenta anni fa Jean-François Six auspicava l’avvento di un ‘tempo dei mediatori’. Oggi il volume curato da Maria Martello rinnova tale speranza, sullo sfondo di una molto più impellente necessità e urgenza. In un mondo sempre più pullulante di imprenditori della paura, di stupide identità inflazionate individuali e collettive, pronte a far degenerare pregiudizialmente ogni fisiologico avversario in patologico nemico, i mediatori sembrano tra i pochi capaci di tenere accesa la fiaccola del dia-logo: la sola che può riuscire a illuminare il logos comunicativo terapeutico del conflitto.