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  Scheda  
24 Aprile 2025


Changing lenses: qualcosa di meglio del raddoppio del male


Riportiamo di seguito il testo dell'intervento tenuto dall'Autore all'incontro "Schemi e paradigmi di Giustizia. Dalle 'Eumenidi' alla 'Restorative Justice'" organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e tenutosi a Napoli, dal 12 al 14 marzo 2025. 

 

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E di continuo tutto può fallire

 

Con le parole del filosofo Roberto Mancini, coautore del volume La giustizia accogliente (insieme a Grazia Mannozzi, alla quale devo moltissimo delle poche cose che so del tema che ci occupa), con questa consapevolezza sfidante, proverò ad accostarmi al tema grande che mi è stato assegnato, in questo luogo così suggestivo.

Quella che segue è solo e soltanto una traccia scritta, pensata prima dello scambio che a breve si aprirà, senza pretesa di farne un’ordinata esposizione (destinata, anzi, allo scarto di lato, a seguito delle suggestioni che verranno). Mi interessa, piuttosto, come si conviene in una dimensione relazionale, quale quella che impronta e connota la giustizia riparativa, aprirmi a un confronto dialogico, muovendo da alcune premesse di fondo e provando a dar conto durante questa giornata di alcuni temi che mi paiono di particolare significato: 1) Cos’è la Restorative Justice?; 2) Perché la Restorative Justice, e cosa c’entra col diritto (e il processo) penale?; 3) Quali i ruoli delle parti?; 4) Quali sono i suoi rapporti con la Costituzione?

Rapporto e racconto, relazione e narrazione: la dimensione narrativa è coessenziale alla giustizia riparativa su un duplice piano: da un lato, il piano della metodologia intrinseca alla sua pratica, in quanto ciò che rende possibile la comunicazione tra le parti è il narrarsi, l’ascoltare, il parlarsi, con la conseguente potenziale riappropriazione del senso che è andato smarrito dallo spezzarsi del legame relazionale causato dal reato, tra il suo autore e la vittima; dall’altro, che importa particolarmente in questa fase storica non ancora normativamente [recte: all’atto pratico - inciso nostro] consolidata della giustizia riparativa, quello della sua diffusione, della sua comprensione e della sua accettazione in una platea sempre più ampia, che può convincersi del suo valore come elemento di ristabilimento della giustizia attraverso le storie e le vicende narrate, ove possibile, di chi ha compiuto un percorso di riparazione” (Cartabia).

Ed è dunque seguendo questa indicazione di metodo che possiamo aprire anche qui la riflessione di oggi

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Prendendo le mosse dal mutamento di prospettiva che la RJ può offrire, quel cambio di lenti che fa da sfondo a questo intervento, potremmo dire che questa si definisce con l’azione (art.42 D.L.vo n.150/2022), si fa attraverso le pratiche; guarda al futuro, in una prospettiva orizzontale e comunitaria, non al passato, con cui pure fa i conti.

Riconciliare è un termine che contiene al suo interno una microstoria: quella di una (possibile, non sempre) iniziale unione su cui agisce una forza disgregatrice, controbilanciata successivamente da una forza centripeta che porta alla nuova unione”. Come ci ricorda Mancini, conciliare viene da cilleo, e ha attinenza con il verbo greco kéllo (muovere, spingere); nella riconciliazione si aggiunge il prefisso latino re – che implica la ripetizione di qualcosa – e nasce il movimento, che può portare a una storia trasformativa.

La riconciliazione può diventare l’autentico orizzonte di senso in cui si collocano le pratiche riparative, ma va intesa correttamente, giacché “dare un nome sbagliato alle cose contribuisce all’infelicità del mondo”, come ci ricorda Camus. Ma è sempre Camus, ne L’Homme révolté a rilevare come “l’uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è” (per paura, vergogna, senso di colpa, etc.), e dunque il percorso verso l’altro si presenta irto di ostacoli, dopo che un fatto di reato è accaduto.

Eppure, è proprio questa “fame di senso”, intesa come significato e direzione, “questa fame insopprimibile, che ci accomuna, che condividiamo tutti nelle strade spesso tortuose delle nostre vite, ciò che ci muove, la ragione del movimento, il motivo che induce a cambiare posizione. Possono esserci tante circostanze che favoriscono o impediscono determinati percorsi, ma il senso, come percezione, consapevolezza, significato e direzione, è indispensabile per tutti al fine di stabilire un salutare rapporto con il mondo comune” (Cartabia).

Dal versante della persona indicata come autrice dell’offesa si può pensare che un percorso di riconciliazione (che resta una prospettiva, un’eventualità, senza assurgere a presupposto o regola) comporta un contatto con sé stessa ed il proprio passato, con le azioni commesse e le ragioni che le hanno indotte, con l’altro da sé e col conflitto, e con la comunità. L’evidente connessione tra questi momenti del percorso introspettivo, guidato (ma mai costretto) dal mediatore, può allora consentire di vedere la vittima.

Per contro, la vittima ha bisogno di uscire dall’immagine pietrificante che la connota, di capire le ragioni (perché a me, proprio a me?), non solo chi è stato, perché “anche le vittime devono essere in grado di andare oltre il proprio statuto, uscendo dalla prigionia del ricordo, recuperando il senso del vivere attraverso la ricerca di quel livello di verità che si incontra nel dialogo attivo con chi ha commesso i reati” (Ceretti), laddove il verbo dovere, come giustamente rileva Pulitanò, deve essere “inteso come indicazione di una possibilità positiva, ritenuta meritevole di essere cercata, non di un dovere obbligante”.

La vittima va aiutata, perché “a volte sono le vittime stesse ad avere difficoltà a credere in se stesse” (Bouchard), e vanno liberate dai sentimenti di vergogna (che spesso assistono anche la persona indicata come autore dell’offesa). E poi, con dolorosa esperienza professionale di chi parla, ci sono le vittime cattive, quelle scomode, quelle che nessuno aiuta.

La RJ posa lo sguardo anche sulla società, sulla comunità, quale vittima o danneggiata, quale destinataria di condotte riparatorie, quale attrice di percorsi di giustizia riparativa.

Una possibilità, dunque, potenzialmente atta ad offrire una diversa risposta (una risposta, si direbbe) alla dolente presa d’atto secondo la quale “da millenni gli uomini si puniscono vicendevolmente, e da millenni si domandano perché lo facciano” (Wiesnet); com’è stato autorevolmente affermato in dottrina (Maggio) “la GR è, e rimane, una chance, non è mandatoria; non implica contraccolpi probatori impliciti. La responsabilizzazione rispetto al fatto, che è anche riconoscimento di un certo mondo, si sottrae alle logiche confessorie della giustizia convenzionale”.

 

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C’è chi non lo intende, e con un fuoco incrociato da più parti si propone un malinteso.

Breve; secondo l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione “la riparazione simbolica tende al superamento di un evento storico attraverso un gesto che esprime rimorso ingeneratosi negli autori di un reato e l’impegno dei predetti a non ripeterlo; la sua forma più spettacolare è il pentimento, consistente in un atto pubblico di contrizione”. Com’è evidente, non si è troppo lontani da una forma “moderna” dello splendore del supplizio.

Ancora, si è affermata l’impossibilità di impugnare un provvedimento di rigetto della richiesta di accesso ad un programma di giustizia riparativa, attesa la speciale natura “non giurisdizionale” (di procedimento “incidentale” è lo stesso Ufficio del Massimario a parlare) delle procedure restorative, che si concretizzerebbero in “un servizio pubblico di cura relazionale tra persone, disciplinato da regole non mutuabili da quelle del processo penale, che talora risultano incompatibili con quest’ultime” (Cass. Sez.II, 12.12.2023, n.6595, Baldo; conformi, Cass. Sez.II, 1.3.2024, n.12986; Cass.Sez. III, 20.6.2024, n. 24343; contra, cfr. Bonini – Maggio), così consegnando ad una pretesa insindacabilità motivazionale (un arbitrio) la possibilità di accesso e fruizione di servizi riparativi, malgrado l’indiscutibile favor sotteso alla riforma (Daraio). Per fortuna, da ultimo qualcosa si muove, affermando il contrario (Cass. Sez.V, 26.11.2024 – 3.1.2025, n.131).

Non basta; contro la lettera della legge (art. 44, comma 2) si è perfino sostenuto (contra; cfr. Giglio; Gialuz; Mattevi) che (Cass. Sez.I, 9.7/7.11.2024, n.41133) “essendo il ricorrente ancora detenuto in esecuzione di pena egli non può essere ammesso ad alcun programma di giustizia riparativa sintantoché la pena sarà in esecuzione, indipendentemente dal regime detentivo a cui è sottoposto” (sic!).

Anche in dottrina, non poche voci critiche (sia pure con accenti diversi, taluni ideologicamente contrari, altri più sorvegliati e argomentati) hanno mosso obiezioni al significato della novella, accusata da più parti di voler contrapporsi all’epistemologia del processo, piegato ai desiderata delle vittime in dispregio di fondamentali presidi costituzionali, affermando che “nella prospettiva del nuovo processo penale la colpevolezza è un dato già accertato nel corso delle indagini, mentre il giudizio serve solo per dare soddisfazione alla pretesa vendicativa della vittima e per instradare l’imputato verso una giusta punizione” (Mazza;  Zilletti; Caiazza; Vitale; Guidi; Carnevale).

 

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Detto in sintesi dei bias, credo possa ragionevolmente sostenersi che la Giustizia riparativa chiama invece a ripensare il tema della finalità della pena, secondo sensibilità costituzionali che si affacciano e che paiono farsi strada (sentt. n.223/2015, 179/2017, 40/2019).

Eppure, lo sappiamo, la Legge ha reso pubblica la RJ (per tutti, ma non da tutti), ma non l’ha resa popolare, come abbiamo appena visto, anche se “paradossalmente, a volte è proprio, e solo, la narrazione a svelarci chi siamo in realtà, e quindi è la narrazione che ci mostra la nostra identità…la categoria di identità postula sempre come necessario l’altro” (Cavarero).

Di questo diremo, provando a capire perché.

Per farlo, possiamo partire da un’affermazione, pienamente condivisibile, che ha a che fare col concetto del limite: secondo Curi “la giustizia riparativa può essere tanto più persuasiva quanto meno pretende di aver risolto una volta per tutte le aporie connesse con la nozione stessa di pena. Al contrario, per evitare di essere infine coinvolta e travolta da quelle stesse aporie che minano la plausibilità dei modelli tradizionali, la giustizia riparativa dovrebbe puntare a proporsi eminentemente come una pratica che non ambisce contraddittoriamente a fondazioni incrollabili, ma che agisce nella presa di coscienza del limite. Una concezione e una prassi che anzi individuano il loro punto di forza nella presa di coscienza del limite insuperabile insito nel diritto in quanto tale, come imitazione intrinsecamente e irreparabilmente imperfetta della giustizia”.

Dunque, con la consapevolezza del limite, possiamo considerare la Giustizia riparativa come una heilende Gerechtigkeit (Schrey – Waltz), indicativa di un percorso di guarigione, quasi più interessata al cammino che all’epilogo; la narrazione, nel rispetto della Dignità della persona (art. 43, comma 4, D.L.vo n.150/2022), costituisce elemento imprescindibile. Si media col valore del precetto, ma deve accettarsi che qualcosa di più possa accadere nella conca della mediazione, l’emersione di un conflitto che si sviluppa con la forza emotiva dell’ascolto e dei vissuti reciproci, che potrebbero acuire la contrapposizione, invece che sanarla.

E tuttavia, vale la pena provarci, giacché ogni uomo è “sinolo di suitas e socialitas, in esso soggettività e relazionalità convivono necessariamente” (Pozziani).

Per le vittime, verità e giustizia vanno di pari passo; hanno bisogno di capire, di sapere il motivo, che spesso non conoscono. Hanno bisogno di uno spazio e di un tempo, per tirare fuori il senso di un’esperienza vissuta, nella ricerca di un’auspicata condivisione e di una riaffermata dignità della loro persona, sfregiata dal reato. Una verità aléhteia, che non si nasconda e non si scordi, che possa disvelarsi nell’incontro e col discorso.

 

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Con la c.d. “riforma Cartabia” si è dato luogo alla più ampia normazione sistemica della giustizia riparativa, un fatto sociale che aveva trovato spazio sino ad allora solo in limitati segmenti processuali (in specie nel rito minorile e nei processi di competenza del giudice di pace). Il rapporto di complementarietà tra giustizia punitiva e giustizia riparativa è unanimemente condiviso (non foss’altro perché si media all’insegna del precetto, non suo malgrado), e sebbene sia opinione altrettanto comune (Palazzo) quella per la quale non vi è da attendersi grandi effetti sul processo, attese le modeste conseguenze pratiche derivanti dall’esito positivo dei percorsi, non può sottacersi come in altri ordinamenti, e segnatamente in quello francese (che pure da molto tempo prevede il ricorso alla RJ), la misura riparativa è priva di conseguenze sul processo penale (Grieco).

Per provare a spiegare le ragioni sottese alla riforma non si può dunque trascurare come lo speculare atteggiarsi del panpenalismo, o più chiaramente del populismo penale, riveli con chiarezza l’incapacità – reale, non declamata – di far fronte a una vera e propria domanda di Giustizia che non passi dalla minaccia della pena, potendo invece parlarsi con la RJ di “una nuova cultura, che arriva a bussare alle porte del pianeta giustizia e che lo intride di un personalismo sotto il profilo umano e sociale che la sua vita futura  non potrà più permettersi di ignorare” (De Francesco).

Non solo; se è vero che il diritto punitivo non consente di raggiungere il mandato costituzionale di cui all’art. 27, comma 3, paradossalmente al contempo esso esalta le ragioni del paradigma vittimario, che proprio coloro i quali avversano la riforma giustamente stigmatizzano. Incapace com’è di consentire un vero e proprio spazio narrativo e comprensivo per le vittime, all’evidenza impossibilitate dal ricevere un vero ristoro dall’eventuale pena inflitta all’imputato (foss’anche perpetua; la pena non basta mai), il processo non risponde (non è capace) ad alcuna esigenza di giustizia.

Al contrario (Bortolato – Vigna), con la giustizia riparativa “tra i tanti effetti positivi, ce n’è uno da evidenziare: quello di portare la vittima fuori dal processo penale, il luogo in cui le viene inibita la possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni, e quindi anche di elaborarle, contenendo allo stesso tempo l’espansione del paradigma vittimario. Un fenomeno che ha cominciato a mostrarsi una quarantina di anni fa e che ha visto le vittime diventare il fulcro delle narrazioni pubbliche, della cronaca giudiziaria, delle televisioni del dolore, con una forte enfasi sulle loro sofferenze, sulle ingiustizie subite e sulla necessità di un risarcimento materiale, politico e giudiziario”.

Ancora; la RJ rovescia la logica della ostatività, consentendo l’invio in ogni stato e grado del procedimento (ed anche prima del suo inizio e dopo l’espiazione della pena o della misura di sicurezza), senza esclusione per limiti edittali e/o titoli di reato. Per chi ha che fare con le prigioni è quanto basta per averla a cuore.

 

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Quanto alle parti, lasciando al dibattito che si aprirà, ci si limita a brevi accenni.

Diverso l’oggetto (non c’è spazio per l’accertamento dei fatti di reato, l’ascrizione di responsabilità, la pena), diversi i protagonisti; giudici e avvocati stanno fuori, ad evitare la replica di meccanismi processuali eccentrici per la RJ.

Al contrario, “è indubbio che la pena criminale costituisca un efficacissimo strumento di rimozione del male, causato con il reato. Ed infatti, di fronte al male generato dal reato il bisogno emotivo della vittima e della comunità più diffuso (anche, se non sempre) è quello della rimozione, dell’allontanamento da sé del male subito. E a tale scopo la pena, specie quella carceraria, riesce benissimo” (Cingari).

Diverse le garanzie (che il processo costruisce a tutela dell’imputato), diverso il metodo, gli strumenti di cui i mediatori (equiprossimi) si servono, con l’ascolto empatico che auspicabilmente consenta di alzare lo sguardo sull’altro.

Si vedrà col tempo se i mediatori sapranno corrispondere all’investimento pubblico che lo Stato ha inteso affrontare; quanto alla valutazione dell’esito del programma di giustizia riparativa, ex art.58 del D.L.vo n.150/2022, le prime letture giurisprudenziali potranno dare indicazione sull “riparto di competenze” con i giudici, ed anche sulla possibilità che costoro apprezzino anche la sola partecipazione al programma riparativo, per ciò che concerne la determinazione della pena. Nondimeno, dovrebbero delinearsi gli eventuali spazi di autonomia che la magistratura rivendica (Bortolato; Bouchard) non solo sulla valutazione dell’esito positivo, ma anche sulla proporzionalità degli esiti riparativi consensualmente raggiunti (art.43, comma 1, lett.f), anche se vi è chi sostiene (Brunelli; volendo, Passione) che su questo aspetto possa e debba in primo luogo concorrere il mediatore.

 

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Infine, quanto ai rapporti della RJ con la Costituzione, la matrice solidaristica sociale che permea la Carta e che prevede riconoscimento e garanzie per i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali (art. 2), in uno all’impegno repubblicano (la concreta utopia di Lelio Basso) di rimuovere gli ostacoli che derivano dal reato per il pieno sviluppo della persona (di tutte le persone), rassicura in ordine alla piena inscrizione della disciplina di nuovo conio nella cornice costituzionale.

Vero si è che autorevole dottrina (Fiandaca) si interroga sulla compatibilità tra la concezione laica della funzione rieducativa della pena e la giustizia riparativa, temendo improprie sovrapposizioni tra l’art.27 e i percorsi restorative, del resto (e non a caso) collocati autonomamente nell’ordinamento penitenziario (art.15 bis) rispetto al novellato art.13, comma 4, o.p. Per l’autorevolezza della voce, peraltro da sempre sostenitrice della RJ, occorre prendere sul serio il rischio che una lettura distorta della riforma possa ricondurre la novella a logica di potere, piuttosto che di servizio. Per fare buon uso della giustizia riparativa in fase esecutiva occorrerà vigilare sui rischi di trasformazione in pay-back sanction, di retribuzione mascherata da riparazione, di mezzo di intensificazione delle misure penali esistenti, di pretesa emenda morale dell’autore del reato. Del resto, con considerazione che qui si condivide, il rischio paventato assume ancor più forza (Fiorentin) sol che si tenga conto del fatto che anche il significato di rieducazione non gode a tutt’oggi di buona salute, non solo per la sua polisemia. Per contro, vi è chi sostiene da sempre la piena sintonia (pur nella diversa accezione) tra riparazione e rieducazione (Mattevi), e chi invita a “incorporare, piuttosto, la necessità di risanare la ferita provocata dal reato alla vittima nella teleologia della pena e, in genere, della reazione al reato, comprensiva quest’ultima di percorsi complementari alla pena stessa come, appunto, la giustizia riparativa, che si fonda, concettualmente, proprio sul riconoscimento, nel diritto penale, di un ruolo ci (co)protagonista alla vittima del reato, assieme all’autore” (Viganò).

Su tutto questo, un mondo nuovo, vale l’invito a maneggiare con cura, avendo presente che le eventuali ricadute rieducative (e/o deflattive) sono effetti (possibili), e non scopi, della disciplina di nuovo conio.