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19 Novembre 2024


La giustizia riparativa, questa sconosciuta. Uno svarione della Suprema Corte

Cass. Sez. I, sent. 9 luglio 2024 (dep. 7 novembre 2024), n. 41133, Pres. Di Nicola, est. Filocamo



1. Da quando è stata introdotta nell’ordinamento italiano, dal d.lgs. n. 150 del 2022, la giustizia riparativa è oggetto di dibattiti, anche molto accesi, e di feroci critiche. Queste riguardano soprattutto la possibilità di attivare programmi di giustizia riparativa prima della conclusione del procedimento penale e del relativo accertamento definitivo della responsabilità. Mai, neanche i più acerrimi oppositori della restorative justice, hanno messo in discussione la possibilità di accedervi nella fase dell’esecuzione della pena.

Lo ha fatto la Prima Sezione della Cassazione in una recente pronuncia nella quale ha annullato senza rinvio le decisioni del Magistrato di sorveglianza e del Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila, che avevano ammesso alla struttura penitenziaria operatori di un’associazione per valutare la praticabilità di un programma di giustizia riparativa. Secondo i supremi giudici della nomofilachia entrambi i provvedimenti erano da ritenersi viziati da una palese violazione di legge: entrambi non avevano considerato che, «secondo il disposto dell’art. 44, comma 2, d.lgs. n. 150 del 2022, ai programmi di giustizia riparativa, “si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione della stessa”. Essendo il ricorrente ancora detenuto in esecuzione di pena egli non può essere ammesso ad alcun programma di giustizia riparativa sintantoché la pena sarà in esecuzione, indipendentemente dal regime detentivo a cui è sottoposto».

Confesso che ho dovuto leggere più volte questo passaggio della motivazione. Ma  la ratio decidendi è proprio questa: alla giustizia riparativa non si può essere ammessi durante l’esecuzione penale. All’evidenza, si tratta di un principio di diritto stupefacente.

 

2. Stupefacente anzitutto per la natura della giustizia riparativa.

Se con questa espressione si intende «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore» (art. 42 del d.lgs. n. 150/2022), è evidente che la fase esecutiva costituisce il «terreno di elezione»[1] di questo paradigma di giustizia. Non solo e non tanto perché il periodo del conflitto processuale – alimentato dal metodo dialettico – è alle spalle e la responsabilità è stata accertata con sentenza definitiva.

Vi è una ragione più profonda: quello dell’esecuzione penale è il tempo della costruzione del futuro; mentre il processo di cognizione è tutto proteso a ricostruire il passato e la sentenza irrevocabile chiude – con una logica spesso di mera contabilità retributiva – i conti con il fatto di reato. La fase esecutiva, già nell’ottica del finalismo rieducativo scolpito nell’art. 27, comma 3, Cost., è rivolta al futuro. E la giustizia riparativa è tutta proiettata al superamento del reato: la «risoluzione delle questioni derivanti dal reato» serve all’autore dell’offesa e alla vittima per costruire il proprio futuro. E alla comunità serve per riaffermare la validità della norma violata e, in definitiva, a ridurre la recidiva.    

E poi il tempo dell’esecuzione è – o dovrebbe essere – il tempo per la riflessione[2].

È il tempo in cui il condannato e la vittima vivono sulla propria pelle, in maniera spesso brutale, l’insufficienza del sistema di giustizia tradizionale. È il tempo in cui emerge in forma violenta e traumatica lo iato tra le parole e le cose; la distanza siderale tra le promesse del diritto e dei suoi operatori e la realtà vissuta dall’autore dell’offesa e dalla vittima[3].

Il processo non ha fornito – a entrambi – le risposte più intime e profonde sulle ragioni della sofferenza provocata e subita.

Il carcere provoca isolamento e solitudine: «separa materialmente ed idealmente il delinquente dalla società»[4]; inaridisce le trame comunicative interiori e con il mondo esterno. Le pene detentive e le misure alternative – pur con tutte le scommesse sul trattamento rieducativo – non riescono ad accogliere il disordine emotivo che accompagna il reato; non riescono a rimuovere quelle barriere di sofferenza, di passione, di bisogno di vendetta, di senso di ingiustizia che impediscono di andare oltre al reato e di liberare i suoi protagonisti dalle sue conseguenze.

Per colmare questo iato e superare la logica tradizionale della pura ritorsione che cristallizza e vincola inesorabilmente al passato nasce la giustizia riparativa[5]. Una giustizia dialogica e relazionale proiettata a costruire nuove trame esistenziali su cui disegnare il futuro. In fondo, di futuro (individuale e collettivo) ci parla l’art. 3, comma 2, Cost.: quell’impegno costituzionale che prescrive alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo delle persone. Ecco, la giustizia riparativa, proprio perché libera autore e vittima dei resti generati dai fatti ricollegati a un reato, trova il suo fondamento in questa (tanto straordinaria quanto disattesa) promessa costituzionale.

 

3. Stupefacente è la ratio decidendi alla luce della storia recente della giustizia riparativa, che si è sviluppata – almeno per gli adulti – prevalentemente nella fase esecutiva.

Merita ricordare che, già nel 2002, dopo l’approvazione del regolamento penitenziario del 2000 (d.p.r. n. 230/2000), il capo del DAP aveva istituito una Commissione di studio su “Mediazione penale e giustizia riparativa” (Decreto del 26 febbraio 2002) con l’obiettivo di definire linee guida che assicurassero, nell'ambito dell'esecuzione penale di soggetti adulti, l'adozione di modelli uniformi di giustizia riparativa in linea con le Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d'Europa[6].

In effetti, anche sulla spinta delle esperienze pionieristiche compiute negli Stati Uniti e in Canada, e successivamente in paesi europei quali il Belgio e la Germania[7], si sono affacciati nelle carceri italiane diversi progetti. Uno dei punti più significativi è rappresentato dall’esperienza di mediazione penale – probabilmente la prima avviata in Italia per detenuti per gravi reati – avviata a metà degli anni 2000 da uno dei componenti della cd. “Banda della Uno bianca”, mentre scontava l’ergastolo per omicidio e altri gravi reati. Un percorso che ha portato all’incontro con una vittima aspecifica – individuata nel figlio di un maresciallo di pubblica sicurezza ucciso dalle Brigate Rosse – e che è stato poi valorizzato da una storica decisione del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ai fini della concessione della semilibertà[8].

A quella vicenda sono seguiti negli anni innumerevoli esperienze, condotte in molti istituti penitenziari, grazie alla determinazione di associazioni del terzo settore e alla sensibilità delle istituzioni locali: da Ancona a Palermo; da Bari a Bolzano; da Torino a Palermo; da Milano a Trento; da Bologna a Padova.

E, non a caso, proprio nel contesto dell’esecuzione penale si è iniziato a discuterne concretamente in prospettiva di riforma, nell’ambito del XIII Tavolo dell’esecuzione penale, istituito nel 2015 nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale (coordinato da Grazia Mannozzi). Nella relazione finale, il gruppo di lavoro aveva proposto «una serie di modifiche normative in materia di esecuzione delle sanzioni (ord. penit., reg., cod. pen. e cod. proc. pen.), volte a rendere pienamente operativi strumenti e metodi della giustizia riparativa»[9].

Una traccia di quel lavoro era confluita nella delega contenuta nell’art. 1, comma 85, lett. f), l. 23 giugno 2017, n. 103, che valorizzava i programmi di giustizia riparativa «quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative». Ne era seguito un prezioso lavoro sviluppato da una Commissione per la riforma in tema di ordinamento penitenziario minorile e di modelli di giustizia riparativa in ambito esecutivo (la cd. Commissione Cascini), che aveva proposto un articolato tutto riferito alla fase dell’esecuzione. Articolato che ha trovato solo parziale recepimento nel tessuto dell’ordinamento penitenziario minorile, introdotto con d.lgs. n. 121 del 2018 – ove si stabiliva che «l’esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato».

La riforma Cartabia è stata tributaria di tutte le esperienze nate dal basso sul territorio nazionale e di questi preziosi lavori preparatori. Infatti, la delega contenuta nell’art. 1, comma 18, lett. c, della l. n. 134 del 2021 richiedeva di «prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena»; l’art. 1, comma 18, lett. e aggiungeva la necessità di «prevedere che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena».

L’innovazione introdotta dal d.lgs. n. 150/2022 è stata quella di affermare – in piena coerenza con le fonti internazionali – un principio di accessibilità ai programmi anche nella fase di cognizione. Per la fase esecutiva, non vi è mai stato alcun dubbio.

 

4. Stupefacente è l’affermazione contenuta nella sentenza della Corte di cassazione soprattutto alla luce del tessuto normativo introdotto dal legislatore delegato. La disciplina sul punto è veramente chiara.

Il principio generale di accessibilità alla giustizia riparativa, fissato dall’art. 44 d.lgs. n. 150/2022, stabilisce che ai programmi «si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione delle stesse e all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità».

Questo principio viene poi specificato nel nuovo testo dell’art. 15 bis ord. penit., secondo il quale, «in qualsiasi fase dell’esecuzione, l’autorità giudiziaria può disporre l’invio dei condannati e degli internati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa».

Ma il delegato ha voluto introdurre un’ulteriore norma al fine di valorizzare la portata della restorative justice nella fase dell’esecuzione: il nuovo comma 4 dell’art. 13 ord. penit., precisa che «nei confronti dei condannati e degli internati è favorito il ricorso a programmi di giustizia riparativa». Il senso lo spiega chiaramente la relazione di accompagnamento: si intende introdurre «un obbligo per l’amministrazione penitenziaria, per gli operatori che “hanno in carico” la persona condannata, nonché per la magistratura di sorveglianza, di favorire, attraverso le opportune azioni, il ricorso alla giustizia riparativa, offrendo agli interessati l’insostituibile opportunità di accedere ai programmi anche durante l’esecuzione della pena»[10].

Nella stessa ottica, proprio per favorire la piena consapevolezza da parte del condannato, la riforma Cartabia ha modificato l’art. 656, comma 3, c.p.p. prevedendo che l’ordine di esecuzione deve contenere «l’avviso al condannato che ha facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa».

Insomma, un caso (raro) nel quale si può ripetere il vecchio – e oggi molto spesso inservibile – brocardo “in claris non fit interpretatio”.

 

5. Stupefacente è la conclusione della Cassazione anche alla luce del d.l. 4 luglio 2024, n. 92, che ha inopinatamente (e illegittimamente) escluso i programmi di giustizia riparativa per i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. Il difensore aveva chiesto – in modo del tutto ragionevole – un rinvio per sollevare una questione di legittimità costituzionale della disciplina in parola, potenzialmente rilevante nel caso di specie perché il soggetto si trovava sottoposto al regime di sorveglianza speciale. Ma la Corte ha rigettato l’istanza sull’assunto che la giustizia riparativa non si applica in fase esecutiva. Evidentemente, il governo sarebbe intervenuto di tutta fretta durante l’estate – e, visti i tempi, si potrebbe pensare anche in relazione alla vicenda all’attenzione della Corte – solo per escludere dalla giustizia riparativa i detenuti al 41-bis in custodia cautelare. 

 

6. Ebbene, vi è da credere che il grossolano errore di diritto compiuto dalla Prima Sezione sia stato frutto di una svista. Verosimilmente, un abbaglio determinato dal numero impressionante di decisioni che la Corte pronuncia e che ogni singolo consigliere è chiamato a scrivere.

Non lo si mette in dubbio. E ciò non può che indurre a riflettere – una volta in più – sulla crisi profonda del nostro “sistema di Cassazione”; un modello che vede la Corte suprema sopraffatta da una mole tale di ricorsi da non consentirle di svolgere i suoi compiti fondamentali: tutelare la libertà personale e i diritti fondamentali dei soggetti coinvolti nel processo e produrre precedenti autorevoli per assicurare la certezza del diritto e l’uguaglianza dinnanzi alla legge dei cittadini.

Resta però il fatto che, quando viene in gioco una materia innovativa – e, a maggior ragione, se si tratta di un tema culturalmente sfidante come la giustizia riparativa – sarebbe auspicabile che i giudici di Cassazione si fermassero un attimo. Per evitare il rischio di pasticci nomofilattici, che non sono a costo zero: rischiano di vanificare tanti progetti e tante speranze alimentate da una riforma coraggiosa e di dare la stura a controriforme già avviate.

In fondo, non sarebbe stato necessario affaticarsi a lungo sui (molti e pregevoli) saggi pubblicati in materia negli ultimi anni. Non sarebbe stato indispensabile leggere la (pur inequivoca) relazione del Massimario della stessa Cassazione[11]. Sarebbe stato sufficiente buttare un occhio sull’intera disciplina introdotta dal d.lgs. n. 150/2022 e vedere come il – peraltro di per sé chiarissimo – principio generale dell’art. 44 viene specificato dagli artt. 13 e 15-bis dell’ordinamento penitenziario. Bastava, insomma, girare qualche pagina su un codice aggiornato.

 

 

 

 

[1] Questa l’espressione usata da M. Bortolato, Giustizia riparativa ed esecuzione penale, in La giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022 – d.lgs. n. 31/2024), a cura di V. Bonini, Torino, 2024, p. 289.

[2] Così, S. Amato – M. Passione, La giustizia riparativa nella fase di esecuzione. Giustizia riparativa, misure alternative, benefici, in Riforma Cartabia. Le modifiche al sistema penale, diretto da G.L. Gatta e M. Gialuz, vol. IV, La disciplina organica della giustizia riparativa, a cura di A. Ceretti, G. Mannozzi e C. Mazzucato, Torino, 2024, p. 249.

[3] Si legga, da ultimo, A. Ceretti, I nuovi orizzonti della giustizia riparativa nella riforma Cartabia, in Riforma Cartabia. Le modifiche al sistema penale, diretto da G.L. Gatta e M. Gialuz, vol. IV, La disciplina organica della giustizia riparativa, cit., p. 28-29.

[4] Queste le parole di F. Palazzo, Il diritto penale tra universalismo e particolarismo, Napoli, 2011, p. 11.

[5] V. G. Mannozzi, voce Giustizia riparativa, in Enc. Dir., Annali, Milano, 2017, p. 473.

[6] Lo ricorda A. Diddi, Effetti sull’esecuzione penale e penitenziaria della Restorative Justice, in Proc. pen. giust., 2023, numero speciale Accertamento penale e giustizia riparativa, a cura di V. Bonini, p. 101.

[7] Cfr., G. Mannozzi, La reintegrazione sociale del condannato tra rieducazione, riparazione ed empatia, in Dir. pen. proc., 2012, p. 842.

[8] Trib. Sorveglianza di Venezia, 7 gennaio 2012, n. 5, in Dir. pen. proc., 2012, p. 833. 

[9] Così, la Relazione finale, consultabile a questo link. Per una prospettiva riformatrice della fase esecutiva cfr., tra i molti, A. Ceretti – G. Mannozzi, Giustizia riparativa, in G. Giostra e P. Bronzo (a cura di), Proposte per l’attuazione della delega penitenziaria, Roma, 2017, pp. 195 ss.

[10] Testualmente, Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150: «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», in GU, 19 ottobre 2022, suppl. n. 5, p. 591.

[11] V. Corte Suprema di Cassazione – Ufficio del Massimario, Relazione su novità normativa. La “riforma Cartabia”, 5 gennaio 2023, p. 285, nota 577, ove naturalmente si afferma che «l’ art. 44 d.lgs. n. 150 del 2022, nel disciplinare l'accesso ai programmi di giustizia riparativa, espressamente prevede al comma 2 che ad essi si può accedere anche durante e dopo l'esecuzione della pena e delle misure di sicurezza».