Corte cost. sent. 9 luglio 2025 (dep. 29 luglio 2025), n. 139, Pres. Amoroso, rel. Viganò
1. Segnaliamo ai lettori la sentenza n. 139/2025, depositata lo scorso 29 luglio, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze (ord. 18 aprile 2024) e dalla Corte d’appello di Firenze (ord. 14 febbraio 2025) in merito alle preclusioni all’applicabilità di pene sostitutive per i condannati dei reati indicati nell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario (cd. reati ostativi).
Entrambe le questioni incidono sull’art. 59 della l. 689/1981 (come sostituito dalla riforma Cartabia) in riferimento, complessivamente, agli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 della Costituzione.
In attesa di ospitare più approfonditi contributi a commento, richiamiamo brevemente le questioni sollevate e il percorso argomentativo seguito dalla Corte nella decisione.
2. Con l’ordinanza del 18 aprile 2024, la GUP del Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 della l. 689/1981, in riferimento agli artt. 3 e 27 comma 3 della Costituzione, «laddove la norma prevede, in via assoluta, che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di imputati infraventunenni di reati di cui all’art. 609 bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall’applicazione d[i] una sanzione sostitutiva». Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di quattro anni di reclusione per il delitto di violenza sessuale aggravata ex artt. 609-bis e 609-ter, comma 1, numeri 2) e 5), c.p., per aver costretto – minacciandola con un punteruolo puntato al collo – una minore a subire un rapporto sessuale completo.
A seguito della condanna, l’imputato ha chiesto l’applicazione di una pena sostitutiva e il processo, quindi, è stato sospeso ai sensi dell’art. 545-bis c.p.p. per consentire la predisposizione del programma di trattamento da parte dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE). Dopo la lettura del programma – che prevedeva la detenzione domiciliare, lo svolgimento di attività lavorativa e il mantenimento dei contatti con l’Ufficio – la Giudice ha ritenuto che, integrata anche con la prescrizione di seguire un percorso presso uno degli enti di cui all’art. 165 co. 5 c.p., la pena sostitutiva sarebbe risultata «idone[a] a fornire una risposta sanzionatoria adeguata alla gravità del reato commesso e che, rispetto alla esecuzione della pena detentiva carceraria» nonché alla «alla rieducazione dell’imputato consentendo l’applicazione di misure e prescrizioni prive di effetti desocializzanti».
La strada della sostituzione, tuttavia, risulta sbarrata dall’art. 59 lett. d) l. 689/1981, ove si rinviene una preclusione assoluta alla sostituzione nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4-bis della l. 354/1975, con l’unica eccezione del caso in cui sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis co. 2 c.p. (come vedremo, però, di fatto inapplicabile).
Per la giudice a quo, tale previsione è «irrazionale» e in contrasto con gli art. 3 e 27 co. 3 della Costituzione per i seguenti motivi.
In primo luogo, perché sembra collidere con il generale «favor» del legislatore per le pene sostitutive, applicabili anche nei confronti di soggetti a rischio di recidiva (l’art. 58 richiede che la misura sostitutiva assicuri la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati, non la sua assenza) o sottoposti a misura cautelare (si veda qui l’art. 300 co. 4 bis c.p.p. che nei loro confronti non prevede alcuna presunzione assoluta di ostatività alla concessione di pene sostitutive). Di fatto, la più importante preclusione alla loro applicazione discende dal titolo di reato per il quale si procede, a prescindere da ogni considerazione sulla pericolosità dell’imputato.
In secondo luogo, perché il richiamo operato dall’art. 59 all’art. 4 bis non tiene conto del diverso regime penitenziario cui sono sottoposte, a seconda del tipo di reato, le diverse fattispecie incluse nell’art. 4 bis: ai fini della ostatività assoluta alla applicazione delle misure sostitutive, tutti i reati del 4 bis sono trattati in modo unitario.
In terzo luogo, perché tale previsione preclude al giudice «di valutare le condizioni soggettive dell’autore del reato soprattutto ove queste, unite alle circostanze concrete in cui è stato commesso il fatto, consentano di escludere un rischio attuale di recidiva ovvero la possibilità di contenerlo con una efficace misura diversa dalla detenzione».
Infine, perché, in una prospettiva di sistema, nell’attuale contesto normativo per l’imputato infraventunenne di un reato di cui all’art. 4-bis si prevede lo stesso trattamento riservato a soggetti pienamente adulti e non vi è alternativa all’inserimento, per almeno un anno, in un sistema carcerario, con gravi effetti desocializzanti.
3. Con la seconda ordinanza, depositata il 14 febbraio 2025 (consultabile in allegato), la Corte d’appello di Firenze ha sollevato a sua volta questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 – in riferimento agli artt. 3, 27 comma 3 e 76 Cost. – nella parte in cui «non consente la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, secondo comma, c.p.».
In questo caso, l’imputato era stato condannato in primo grado con rito abbreviato a tre anni e due mesi di reclusione per i reati di pornografia minorile (600 ter c.p.) e violenza sessuale di gruppo aggravata (609 octies, 609 ter n. 5 c.p.) per aver ripreso e conservato il filmato del corpo nudo e delle parti intime di una minore, dopo aver consumato un rapporto sessuale e per aver in più persone riunite costretto la minore a subire atti sessuali, approfittando del suo stato di alterazione.
Nel giudizio di appello, la Corte ha rigettato la richiesta di concordato, non ritenendo la pena proposta – 2 anni e 6 mesi di reclusione, subordinata alla concessione della sospensione condizionale – congrua rispetto alla gravità dei fatti, ma ha invece accolto la richiesta di sostituzione della pena detentiva, subordinata alla rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
Anche in questo caso, la previsione dell’art. 59 lett. d) della l. 689/1981 osta alla sostituzione, dal momento che i reati coinvolti rientrano nell’elenco di cui all’art. 4 bis l. 354/1975.
Oltre alla violazione degli art. 3 e 27 co. 3 della Costituzione, la Corte d’Appello ritiene che il d.lgs. 150/2022 sia incorso in un eccesso di delega (in violazione dell’art. 76 Cost.), introducendo una disciplina contrastante con le rationes sottese alla legge delega (l. 134/2021). In particolare, ad avviso della Corte fiorentina, il Governo, inserendo nell’art. 59 della l. 689/1981 una presunzione di inidoneità delle pene sostitutive a conseguire ogni finalità rieducativa nei confronti del soggetto che sia imputato per uno dei reati di cui all’art. 4 bis, ha sottratto al giudice di cognizione la possibilità di valutare discrezionalmente le peculiarità del caso concreto ai fini dell’applicazione di una pena sostitutiva. Tale preclusione – prosegue la Corte – in primo luogo tradisce la delega (con violazione dell’art. 76 Cost.) a rivitalizzare le pene sostitutive e a disciplinare il potere discrezionale del giudice; in secondo luogo, vìola l’art. 3 Cost. introducendo nell’ordinamento la («irragionevole») possibilità di trattare in maniera diversa situazioni differenziate dal titolo di reato ma connotate in concreto da eguale gravità; infine, impedisce al giudice di cognizione di individuare la sanzione più adeguata al caso concreto, violando il principio costituzionale per cui la pena deve tendere alla rieducazione del soggetto (art. 27 Cost.).
4. In breve, entrambi i rimettenti si dolgono della preclusione assoluta alla concessione di pene sostitutive per gli imputati di uno dei reati di cui all’art. 4-bis o.p. stabilita dall’art. 59 della l. 689/1981, così come formulato dopo l’intervento della riforma Cartabia.
Come anticipato, la Corte, riuniti i giudizi, ha dichiarato non fondate tutte le questioni.
Riportiamo di seguito alcuni passaggi della sentenza, relativi ai principali temi oggetto della decisione.
4.1. Carattere “assoluto” della preclusione. Sebbene l’art. 59 l. 689/1981 preveda che la preclusione all’accesso alle pene sostitutive per gli imputati di tutti i reati menzionati dall’art. 4-bis o.p. possa venire meno in caso di riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 323 bis, comma 2, c.p. (integrata in caso di collaborazione processuale rispetto a una serie di delitti contro la pubblica amministrazione), tale eccezione ha oggi «perso ogni significato pratico». A seguito della estromissione dei delitti contro la pubblica amministrazione dal catalogo dei reati ostativi di cui all’art. 4-bis o.p., ad opera del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 (convertito, con modificazioni, in l. 30 dicembre 2022, n. 199), l’accesso alle pene sostitutive risulta oggi precluso, senza eccezioni, agli imputati di tutti i reati menzionati dall’art. 4-bis o.p.
4.2. Eccesso di delega e coordinamento con le misure alternative. Sul punto la Corte riprende ampiamente il contenuto della Relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, ove si chiarisce che l’obiettivo del legislatore delegante era quello di assicurare un coordinamento, quanto alle possibilità di accesso, tra le pene sostitutive (semilibertà e detenzione domiciliare) e le corrispondenti misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario «all’evidente fine di evitare che, in sede di giudizio di cognizione, fossero garantite più ampie possibilità di accesso a tali pene sostitutive rispetto alle possibilità del condannato di beneficiare, in sede di esecuzione, delle corrispondenti misure alternative».
Non un eccesso di delega, dunque, ma un meccanismo per scongiurare l’elusione della disciplina del 4-bis o.p.: dal momento che pene detentive di breve durata (ossia non superiori a quattro anni) possono essere inflitte anche agli autori di reati inclusi nel catalogo dell’art. 4-bis o.p. (motivo per il quale il legislatore ha introdotto la previsione dell’art. 656, co. 9 c.p.p., che esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, co. 5 c.p.p. nei confronti dei condannati per reati di cui all’art. 4-bis o.p.), «un ragionevole e opportuno coordinamento con le preclusioni all’accesso alle misure alternative» non poteva che prevedere – secondo la Relazione illustrativa – l’esclusione della sostituzione della pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all’art. 4-bis. Diversamente, «la disciplina dell’art. 4 bis ord. penit. (e dell’art. 656, co. 9 c.p.p.) risulterebbe sostanzialmente elusa: sarebbe irragionevole limitare la concessione della semilibertà e della detenzione domiciliare, quali misure alternative alla detenzione, subordinandole alla collaborazione e alle ulteriori stringenti condizioni sostanziali e procedurali previste dall’art. 4 bis e, per altro verso, consentire al giudice all’esito del giudizio di cognizione di applicare la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva o, addirittura, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo[…]» (così la Relazione, p. 216).
Per la Corte, dunque, «il legislatore delegato ha, evidentemente, ritenuto che l’anticipazione di tali accertamenti nel giudizio di cognizione fosse incompatibile con l’obiettivo […] di consentire già al giudice della cognizione, nel quadro di un procedimento il più possibile celere, la valutazione sull’ammissione del condannato a una pena da scontarsi del tutto al di fuori del carcere». E tale scelta, per la Corte, appare «del tutto compatibile con la (invero generica) indicazione della legge delega di assicurare il «coordinamento» della disciplina delle riformate pene sostitutive con le preclusioni stabilite dall’ordinamento penitenziario».
Parimenti, la Consulta esclude che la violazione della legge delega possa dedursi dalla scelta del legislatore delegato di introdurre ex novo nel testo dell’art. 59 una preclusione assoluta per gli imputati dei reati di cui all’art. 4-bis, dal momento che «l’esigenza di coordinamento tra pene sostitutive e ordinamento penitenziario nasceva proprio dalla decisione […] di allargare incisivamente la platea dei possibili destinatari della sostituzione: platea che oggi comprende i condannati a pene detentive non superiori a quattro anni, mentre in precedenza era applicabile ai condannati a pene detentive non superiori, secondo i casi, a sei mesi, un anno e due anni».
4.3. Principio di uguaglianza. La Corte ci ricorda che la riforma del 2022 ha inteso configurare le pene sostitutive come «autentiche pene», destinate come tali ad arricchire gli strumenti sanzionatori a disposizione del giudice della cognizione. «Se, però» osserva la Corte «le pene sostitutive sono a tutti gli effetti delle pene, non pare potersi negare che, in linea di principio, il legislatore debba poter decidere a quali tipologie di reato esse debbano o possano trovare applicazione, esattamente come accade rispetto alle pene detentive, a quelle pecuniarie, a quelle accessorie, alla confisca, e così via». Per la Corte, dunque, il legislatore ha certamente la possibilità di stabilire i limiti oggettivi di applicazione di tali pene e, in particolare, ha la facoltà di fissare soglie massime di pena sostituibile, ovvero indicare i reati per i quali la sostituzione può non può essere operata.
Nel caso di specie, dinnanzi ai reati di violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo e pornografia minorile, per la Corte «non può ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina che preclude in radice la sostituzione della pena. Infatti, salvo che nel caso in cui sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di minore entità nella violenza sessuale, i condannati per questi stessi reati possono essere ammessi ai benefici penitenziari e alle misure alternative solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della loro personalità, condotta collegialmente in carcere per almeno un anno (art. 4-bis, comma 1-quater, ordin. penit.): condizione che, all’evidenza, non può sussistere allorché sia il giudice della cognizione a dover decidere sulla sostituzione della pena detentiva».
4.4. Giovani adulti. Non persuade la Corte l’argomentazione – presentata dal solo GUP di Firenze – secondo cui la disposizione censurata produrrebbe un’irragionevole equiparazione di trattamento tra imputati che abbiano commesso il fatto essendo minori di ventun anni e imputati che l’abbiano commesso a un’età superiore. Sebbene, in conformità alle fonti internazionali di soft law che raccomandano l’adozione di regole differenziate per questa categoria di autori di infatti, vi siano regole speciali applicabili ai cosiddetti “giovani adulti” tanto nel codice penale, quanto in materia di esecuzione, «questa Corte ritiene che questi dati normativi, pur significativi, non possano essere considerati allo stato sufficienti a configurare, all’interno del sistema penale, un vero e proprio statuto differenziato per i “giovani adulti”, che vincoli in via generale il legislatore a prevedere per gli stessi regole differenti, e più favorevoli, quanto alla scelta della tipologia di sanzione e alla sua quantificazione. E ciò fatta salva, come correttamente rilevato dall’Avvocatura generale dello Stato, la necessità per il giudice di tenere conto anche della giovane età del condannato, nel quadro della valutazione delle sue condizioni personali ai sensi dell’art. 133, secondo comma, cod. pen.».
4.5. Finalità rieducativa della pena (art. 27 co. 3 Cost.) e individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Entrambi i rimettenti assumono, infine, che l’attuale formulazione dell’art. 59 violi altresì l’art. 27, terzo comma, Cost., non consentendo al giudice di individualizzare il trattamento sanzionatorio, scegliendo quello più idoneo a conseguire la funzione rieducativa della pena ed evitando al condannato un ingresso non necessario in carcere.
Anche questa censura, per la Corte, non è fondata e l’argomentazione ci consegna un passaggio sulla (sulle) finalità della pena che vale la pena riportare. Richiamate le più importanti sentenze della Corte sulla finalità rieducativa della pena e le sue intersezioni con il principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale, la Corte afferma che «[t]uttavia, non può non evidenziarsi che la giurisprudenza di questa Corte non si è mai spinta ad affermare che la rieducazione debba essere considerata, per vincolo costituzionale, come l’unica finalità legittima della pena. Il legislatore ben può, dunque, assegnare anche altre finalità alla pena – come il contenimento della pericolosità sociale del condannato e la deterrenza nei confronti della generalità dei consociati –, a condizione appunto di non sacrificare, in nome di queste pur legittime finalità, la sola funzione della pena espressamente indicata quale costituzionalmente necessaria, la rieducazione del reo. […] Il diritto penale oggi vigente stabilisce – evidentemente in ottica anche generalpreventiva – che chi è stato condannato per un grave reato deve in ogni caso iniziare a scontare la propria pena in carcere, senza che sia richiesto al giudice di accertarne, caso per caso, la persistente pericolosità sociale. In quella sede dovrà dunque essere avviato il percorso del suo graduale reinserimento nella società […]».
A questa riflessione – sicuramente meritevole di attenzione – la Corte aggancia la propria conclusione sul «passo significativo nella direzione dell’inveramento dell’insieme dei principi costituzionali in materia di pena» compiuto con la riforma Cartabia. «Un’evoluzione» chiosano i giudici «che non può che procedere gradualmente, attraverso sperimentazioni progressive che coinvolgano anzitutto i reati meno gravi, lasciando al margine quelli che il legislatore – con valutazione non arbitraria né discriminatoria – reputi maggiormente offensivi, come indubbiamente sono quelli contestati agli imputati nei processi a quibus»
(Giulia Mentasti).