ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Articolo  
08 Maggio 2025


La crisi sistemica dell’esecuzione penale e la problematica dei liberi sospesi


Riportiamo di seguito il testo della relazione tenuta dall'Autore al corso organizzato presso la Scuola Superiore della Magistratura “Alternative al carcere ed esecuzione penale esterna: nuove pene sostitutive, misure alternative alla detenzione e messa alla prova”, tenutosi a Scandicci dal 24 al 26 marzo 2025.

***

 

1. Alle radici di una crisi sistemica.

Da tempo ormai la dottrina e gli operatori (la politica è, infatti, la grande assente) si interrogano sulle sempre più evidenti avvisaglie delle crisi sistemica in cui è entrata l’esecuzione penale.

Una riflessione che ha coinvolto l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura si è avviata lo scorso settembre nell’ambito di un workshop tenutosi presso l’Università Statale di Milano[1], che appunto si è occupato delle “problematiche dei liberi sospesi” in rapporto alle molte criticità che investono il sistema dell’esecuzione penale e, in particolare, in relazione ai principi costituzionali e convenzionali che possono entrare in sofferenza di fronte alla condizione nascente dalla disposizione del comma 5, art. 656 c.p.p. definita al suo materializzarsi nell’ordinamento, con la c.d. “legge Simeone”, “liberi sospesi”: una definizione che riecheggia quella dantesca quando descrive la condizione delle anime ospitate nel Limbo.

Chi sono i liberi sospesi? Roberto Bartoli definisce, in un suo scritto, i “liberi sospesi” come coloro che sono sospesi in un duplice senso: perché godono di una sospensione de facto della pena che è stato loro inflitta, ma anche perché si trovano in una sorta di condizione anodina, lungo una linea del tempo tra la condanna e l’esecuzione, della quale non è dato conoscere né il termine finale, né il relativo esito[2].

L’istituto, cristallizzato nella già evocata disposizione codicistica ha conosciuto un destino paradossale: è stato introdotto con una ratio garantista, correlata all’opportunità di evitare l’ “assaggio di carcere” per quanti siano ragionevolmente destinati a svolgere la propria esecuzione mediante una misura alternativa alla detenzione ma, nella sua declinazione pratica, ha finito per produrre effetti pregiudizievoli proprio nei confronti di coloro che intendeva, invece, tutelare.

 

2. Uno sguardo ai numeri.

I numeri che identificano la condizione di “liberi sospesi” sono impressionanti: ci sono i numeri ufficiali, forniti dal Ministero in seguito a un’interrogazione dell’on.le Giachetti)[3], stando ai quali, alla data del 13 dicembre 2022, il dato numerico dei procedimenti riguardanti i soggetti condannati “liberi sospesi” relativo a tutti i tribunali di sorveglianza del territorio nazionale evidenziava n. 41.993 pendenze al «nord» (Bologna, Bolzano, Brescia, Genova, Milano, Torino, Trento, Trieste e Venezia), 15.162 al «centro» (Ancona, Firenze, Perugia e Roma), 25.219 al «sud» (Bari, Campobasso, Catanzaro, l’Aquila, Lecce, Napoli – ben 14.613 – Potenza, Reggio Calabria, Salerno, e Taranto) e 7.746 nelle «isole» (Cagliari, Sassari, Caltanissetta, Catania, Messina e Palermo), per un totale complessivo nazionale pari a 90.120.

Tuttavia, i dati “ufficiosi” che sono emersi in sede del workshop milanese parlano di oltre 100.000 “liberi sospesi”, forse 115.000; ulteriori fonti (riportate nel corso di un convegno organizzato dalla Camera Penale di Milano del 7 marzo 2025) riferiscono numeri tra i 120.000 e 130.000 e il numero appare coerente con il costante e parallelo aumento delle persone detenute e in misura alternativa negli anni 2022-2024[4].

Cosa suggeriscono i numeri? Principalmente, che il problema dei “liberi sospesi” ha assunto natura sistemica, poiché quantitativamente rilevante e diffuso su tutto il territorio nazionale connettendosi – in una sorta di “tempesta perfetta” – a quello del sovraffollamento carcerario e generando una crisi globale dell’intero sistema dell’esecuzione penale.

Oltre che su quello della concreta operatività, la ravvisata crisi sistemica attinge il piano sistematico: come osserva un’acuta dottrina, infatti, non solo si è dissolto il mito della certezza della pena come certezza del carcere, dal momento che  il sistema si regge soltanto in virtù delle alternative alla detenzione (se, per ipotesi, si eliminassero le misure alternative alla detenzione carceraria, come vorrebbero coloro che sostengono la certezza della pena come certezza del carcere, la popolazione carceraria schizzerebbe ad almeno 240.000 persone, una cifra spropositata e insostenibile), ma viene colpito anche il dogma della certezza della pena come certezza della sua stessa esecuzione[5].

In altri termini, i numeri della crisi sistemica in cui versa l’esecuzione penale paiono evidenze del tramonto della concezione della pena come pena eminentemente carceraria (siccome concretamente irrealizzabile e in quanto inidonea ad assicurare l’obiettivo della rieducazione).

 

3. Il “problema” dei liberi sospesi.

Perché possiamo dire che i “liberi sospesi” rappresentano un problema? Mettiamo subito il termine tra virgolette, però.

Con una dose di cinismo, potremmo dire che, per il sistema, i condannati  sospesi non costituiscono un problema; anzi, sarebbe paradossalmente drammatico se, ipoteticamente, si aggredisse in tempi brevissimi l’enorme numero di esecuzioni sospese,  azzerando l’arretrato giacente nelle cancellerie dei tribunali di sorveglianza, perché una tale azione si tradurrebbe in più di 100.000 nuove esecuzioni che, come una sorta di tsunami, si abbatterebbero sul nostro già disastrato sistema di esecuzione penale che, semplicemente, non sarebbe in grado di reggere.

I liberi sospesi rappresentano, invece, un problema, sotto altri punti di vista. Per riassumere con una sola espressione, potremmo dire che il problema dei liberi sospesi si lega a quello che è stato identificato come “il diritto al giudice”.

La questione può essere analizzata da molteplici angolazioni:

 

- tempistiche di definizione dei procedimenti relativi ai liberi sospesi troppo estese potrebbero integrare violazioni costituzionali e convenzionali (violazione art. 8 CEDU): sappiamo che la Corte di Strasburgo afferma che uno Stato vìola il disposto dell’art. 8 della Convenzione quando esercita un’interferenza nella vita privata o familiare non giustificata o comunque sproporzionata rispetto agli obiettivi, pure legittimi, che lo Stato si propone di perseguire. Secondo la Corte edu, questa ingerenza si può verificare con un’azione ma anche con un’omissione. Quali sono queste possibili, illegittime, “interferenze”? È agevole fornire alcuni esempi: si pensi all’inevitabile allungamento dei tempi per conseguire la riabilitazione penale (che indice sulle possibilità di lavoro o di svolgere determinate attività); al divieto di ottenere il passaporto per recarsi all’estero imposto ai soggetti che devono eseguire una pena restrittiva della libertà personale (artt. 3 e 24, L. 1185/67); si pensi soprattutto all’esecuzione di una pena imposta a una tale distanza di tempo dal reato o dalla condanna definitiva, che può incidere in modo sproporzionato e a volte drammatico sulla vita privata e familiare dell’interessato, nel frattempo pienamente reinseritosi nel contesto della civile convivenza;

 

  • tempistiche di definizione eccessivamente lunghe pongono un problema di effettività della pena: gli attuali tempi di definizione rasentano spesso il termine che secondo l’art. 172 c.p. importa la prescrizione della pena (per la pena dell’arresto già avviene in non episodici casi che il Tribunale di sorveglianza rinvii al G.E. per la relativa declaratoria), così generando un fenomeno che rende lo stesso sistema delle alternative al carcere ineffettivo di fatto[6]. Nel caso dei liberi sospesi, in altri termini, le stesse misure alternative al carcere sono oggi ineffettive, ma non in quanto istituti vuoti di contenuto – come pure viene spesso affermato -, ma perché di fatto il sistema non è in grado di applicare le misure alternative, con la conseguenza che queste persone si trovano nella sostanza in piena libertà. La realtà dei liberi sospesi decreta, in definitiva, l’ineffettività della pena tout court ovvero la vera e propria ineffettività della pena come tale, quale che sia il suo contenuto, carcerario oppure non carcerario;

 

  • tempistiche di definizione eccessivamente lunghe pongono un problema sotto il profilo dell’effetto rieducativo dell’esecuzione delle pene: che si rivolgono in molti casi a soggetti che non sono più né pericolosi né socialmente disadattati ma che, invece, si sono formati una famiglia, hanno trovato un lavoro e comunque si sono ricollocati nella società e tutto questo rischia di essere compromesso dall’esecuzione della pena;

 

  • tempistiche di definizione eccessivamente lunghe pongono un problema sotto il profilo delle esigenze di difesa sociale che pure la pena deve tutelare, come ricorda anche la Corte costituzionale (sent. 176/2024) quando, riferendosi al meccanismo applicativo delle nuove pene sostitutive introdotto dalla “riforma Cartabia” afferma: «Anticipando al giudizio di cognizione la decisione sull'alternativa al carcere si rende possibile l'immediata applicazione di misure «che consentono anche di controllare l'eventuale pericolosità sociale del condannato sin dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna» (sentenza n. 84 del 2024), evitando di lasciare lungamente l'interessato in un "limbo", fin tanto che il tribunale di sorveglianza si pronunci»[7].

 

4. Liberi sospesi e violazione convenzionale: il caso Valorio c. Italia.

La questione dei “liberi sospesi” è stata posta alla attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo con il ricorso n. 54859/20, Valorio c. Italia. Il ricorso ha superato il filtro di ammissibilità e sarà dunque trattato a Strasburgo.

Il caso riguarda un pubblico ufficiale arrestato nel 2011 nell’ambito di un’indagine su irregolarità nella gestione e nell’incasso delle contravvenzioni. Il 23 maggio 2014, la persona patteggia tre anni e due mesi di reclusione per reati contro la P.A. con la concessione delle attenuanti generiche e l’attenuante del risarcimento del danno di 12mila euro all’amministrazione costituitasi parte civile.  La sentenza di applicazione pena non viene impugnata e passa rapidamente in giudicato. L’ordine di carcerazione viene emesso un anno dopo e sospeso ex art. 656 comma 5 c.p.p.

L’interessato propone domanda di affidamento in prova al Tribunale di sorveglianza di Milano, confidando ragionevolmente di ottenere la misura richiesta, poiché incensurato e con una rete sociale idonea a sostenere l’impegno dell’esecuzione extramuraria ed avendo già integralmente risarcito il danno. L’udienza davanti alla sorveglianza viene inizialmente fissata solo il 2 ottobre 2019, quasi cinque anni e mezzo dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Nello stesso anno, viene introdotta la legge ‘Spazzacorrotti’ che esclude l’accesso alle misure alternative per peculato e induzione indebita, due dei reati per i quali il soggetto era stato sanzionato.

Il Tribunale di sorveglianza rinvia la trattazione del procedimento in attesa che la Consulta si pronunci sulla costituzionalità della preclusione, che viene infatti censurata con la sentenza n.32/2020. A causa della pandemia, la trattazione viene ulteriormente differita e si arriva al 10 febbraio 2022, quando il Tribunale di sorveglianza di Milano accoglie l’istanza di affidamento in prova del condannato. Dunque: i fatti reato sono stati commessi tra il 2010 e il 2011, mentre la sentenza di condanna è divenuta definitiva il 20 aprile 2015; l’affidamento in prova giunge pertanto a 12 anni dal fatto reato e a 7 dalla condanna definitiva, senza che l’interessato abbia "in alcun modo contribuito ad allungare il tempo dell’esecuzione, ad esempio rendendosi irreperibile”, come sottolinea il ricorso presentato alla Corte di Strasburgo.

Nel ricorso alla Corte europea sono state dedotte le violazioni degli articoli 8 paragrafo 2 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 2 paragrafo 3 del Protocollo n. 4 aggiuntivo alla Convenzione (libertà di circolazione) sotto il duplice profilo della sussistenza di un’ingerenza statale nell’esercizio del diritto priva – per il decorso del tempo – della connotazione di necessità per ragioni di pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati e dell’impossibilità di fare valutare al giudice interno la persistenza dell’interesse dello Stato a fare eseguire il residuo di pena, che rileva anche ai sensi della violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, come possibilità di accedere a un tribunale. Il ricorrente chiede, inoltre, alla Corte edu di accertare "il problema strutturale italiano" e di pronunciarsi con una “sentenza pilota” analoga alla Torreggiani.

Pur con le dovute riserve per le circostanze eccezionali che hanno effettivamente inciso sulle tempistiche decisionali nel caso concreto (la pandemia e il pronunciamento della Corte costituzionale in particolare),  sembra che gli elementi per evidenziare un problema sistemico effettivamente sussistano: è accertata, infatti, sulla base di dati ufficiali forniti dallo stesso Stato contraente, la dimensione quantitativa del fenomeno, la sua uniforme distribuzione sul territorio, la annosa durata del problema e – come subito si dirà - l’assenza di effettività dei rimedi organizzativi e normativi adottati per farvi fronte. Deve essere sottolineato in particolare – come fa acuta dottrina – l’aspetto dell’inadeguatezza delle misure normative introdotte nel tempo, anche recente, soprattutto perché ancora poco si fa per valorizzare il postfatto con finalità di estinzione della pena[8], nonché il profilo della cronica carenza di risorse[9].

 

5. I più recenti interventi riformatori.

Nella prospettiva del vaglio cui sarà sottoposto il nostro sistema di esecuzione penale da parte del Giudice europeo, v’è da chiedersi quale effetto abbiano avuto le riforme più recenti. Intendiamo alludere principalmente alla riforma “Cartabia” e al decreto “carcere sicuro” (D.L. 92/24).

Quanto alla prima, sono principalmente due i profili che qui rilevano: la riforma delle pene sostitutive e l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa.

La novella di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 ha introdotto, nella sua parte seconda («Riforma del sistema sanzionatorio penale»), al capitolo I («Pene sostitutive delle pene detentive brevi»), meccanismi di trasformazione di alcune misure alternative (attualmente di competenza del tribunale di sorveglianza) in sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, direttamente irrogabili dal giudice di cognizione (articolo 545-bis c.p.p.) anche allo scopo di rendere più efficiente il procedimento penale nella fase dell’esecuzione con conseguente riduzione del numero e ridimensionamento della patologica situazione dei liberi sospesi.

Uno degli obiettivi del legislatore era, quindi, collegato al tentativo non solo di abbattere la durata dei procedimenti penali ma, altresì, di consentire l’esecuzione della pena detentiva senza più alimentare l’“odiosa” categoria dei condannati sospesi[10].

Lo afferma claris verbis la Relazione accompagnatoria al D.lgs. n.150/2022, a proposito dell’introduzione del modello bifasico ispirato al sentencing anglosassone, affermando che la riforma vuole realizzare «una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione […] e che la valorizzazione delle pene sostitutive, irrogabili dal giudice di cognizione, promette una riduzione dei procedimenti davanti ai tribunali di sorveglianza, oggi sovraccarichi e incapaci, in molti distretti, di far fronte in tempi ragionevoli alle istanze di concessione di misure alternative, come testimonia il fenomeno dei c.d. liberi sospesi (poiché) l’efficienza della giustizia penale […] non può ragionevolmente essere rapportata al solo processo di cognizione. Se la fase dell’esecuzione penale ha una durata irragionevole, il procedimento penale nel suo complesso non può dirsi certo efficiente»[11].

La stessa Corte costituzionale, con la già ricordata pronuncia 10 maggio 2024, n. 84, pone in evidenza la correlazione tra l’introduzione delle pene sostitutive egli obiettivi di deflazione del numero dei liberi sospesi: « il Governo ha confidato sulla possibilità che l’imputato possa accettare, in sede di patteggiamento, l’obbligo di permanenza nel domicilio per una parte della giornata in cambio del vantaggio di sottrarsi all’alea della possibile determinazione di una pena superiore al limite di quattro anni in esito a un processo ordinario, ovvero – nell’ipotesi di pena comunque applicata entro il limite dei quattro anni – all’alea di una decisione favorevole da parte del tribunale di sorveglianza sull’istanza di applicazione di una misura alternativa. Decisione, peraltro, che spesso interviene a svariati anni di distanza dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna, con conseguente creazione di un enorme numero di cosiddetti “liberi sospesi”: e cioè di circa novantamila persone condannate in via definitiva, la cui pena è attualmente sospesa ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen. in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sulla misura alternativa richiesta (come emerge dalla risposta scritta del Ministro della giustizia all’interrogazione 4-00072, pubblicata lunedì 13 febbraio 2023 nell’Allegato B ai resoconti della seduta n. 50 della Camera dei deputati)»[12].

Le nuove pene sostitutive introdotte con la riforma Cartabia anche in chiave deflattiva stentano tuttavia a decollare: al 15 gennaio 2025 risultavano (dati forniti dal ministero della giustizia) 1100 detenzioni domiciliari, 17 semilibertà, 4272 Lpu, a fronte di 26.642 soggetti in map. Per il momento, dunque, le nuove pene sostitutive non possono essere considerate un efficace antidoto al fenomeno dei liberi sospesi.

Considerando ora la disciplina organica della giustizia riparativa, essa potenzialmente può essere strutturata quale importante via di uscita dal circuito penale e, dunque, come un fattore di deflazione degli allarmanti numeri delle esecuzioni sospese. In questa prospettiva, la Raccomandazione Rec (2018)8 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, riconosce, nel Preambolo i «potenziali benefici del ricorso alla giustizia riparativa» quale «metodo attraverso il quale i bisogni e gli interessi» di tutti gli stakeholders, inclusi la vittima e l’autore, «possono essere identificati e soddisfatti in maniera equilibrata, equa e concertata, a complemento dei processi penali tradizionali, o in taluni casi (reati a minore contenuto offensivo) in alternativa ad essi»[13].

Per quanto afferisce alla problematica dei “liberi sospesi”, la giustizia riparativa avrebbe avuto, tuttavia, un impatto significativo soltanto nell’ipotesi in cui avesse costituito una modalità autonoma dal processo penale, tale da condurre all’estinzione del medesimo (tramite estinzione del reato o almeno della pena).

Come sappiamo, la scelta del legislatore è stata di altro segno, e la riforma Cartabia ha optato per la complementarietà della giustizia riparativa con il processo penale, riservando ad ambiti ben circoscritti la possibile autonomia delle procedure di restorative justice e il correlato effetto estintivo[14]. La complementarietà “sostitutiva”[15] in luogo dell’alternatività della GR non fa dunque ritenere che quest’ultima possa effettivamente produrre ricadute significative sulla situazione dei “liberi sospesi”.

L’altro intervento riformatore recentemente varato dall’esecutivo è costituito dal D.L. 92/2024 che, pur non occupandosi specificamente dei “liberi sospesi” introduce alcune novità, tra le quali la nuova disciplina della liberazione anticipata con finalità deflattiva del carico di lavoro della magistratura di sorveglianza; modifiche alla procedura di cui all’art. 678, comma 1-ter, c.p.p., semplificandone le scansioni; interventi in tema di housing  e volti a favorire i servizi di volontariato e le attività di pubblica utilità per le persone condannate, anche quando questi non siano “in grado di offrire valide occasioni di reinserimento esterno tramite attività di lavoro, autonomo o dipendente” (art. 10-bis D.L. 92/2024).

Solo il secondo dei ricordati interventi influenza direttamente sulla materia dei “liberi sospesi”, monocratizzando il rito per l’applicazione delle misure alternative ai liberi sospesi con condanne entro i 18 mesi.

L’evocato decreto di urgenza non incide, invece, sulle criticità evidenziate dal già ricordato workshop presso l’Università di Milano del settembre 2024, che ha identificato la causa principale dell’attuale crisi nell’ormai intollerabile divario tra l’esponenziale aumento dei numeri e le risorse materiali e di personale disponibili per farvi fronte che, per contro, vanno progressivamente contraendosi, come attestano le periodiche rilevazioni statistiche sulle altissime percentuali di scopertura degli organici del personale di cancelleria presso gli uffici giudiziari e, in particolare, nei  tribunali e uffici di sorveglianza[16].  La situazione è aggravata dal fatto che non è mai decollato l’Ufficio del processo in sorveglianza.

Nell’attuale contingenza, si assiste in definitiva ad una crisi sistemica dell’esecuzione penale caratterizzata dal convergente effetto pregiudizievole generato, per un verso, dal patologico fenomeno del sovraffollamento carcerario, – impietosamente certificato dalla Corte di Strasburgo a partire dalla sentenza Torreggiani[17] – (mentre scriviamo, il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane ha ormai quasi raggiunto il numero di presenze registrato alla vigilia della evocata condanna europea) e del degrado delle condizioni materiali degli istituti penitenziari (problema autonomo e distinto da quello del sovraffollamento), cui si somma l’enorme numero di esecuzioni sospese ancora in attesa di decisione da parte dei tribunali di sorveglianza[18].

 

 

6. Una panoramica delle possibili soluzioni.

Il problema, quindi, deve essere in qualche modo affrontato.

Come? Non con la bacchetta magica, cioè con soluzioni drastiche, suscettibili di azzerare in tempi brevissimi l’enorme fardello delle esecuzioni sospese, per evitare l’effetto tsunami su carceri, uepe, forze dell’ordine e uffici di sorveglianza.

Bisogna, piuttosto, immaginare di introdurre correttivi che possano indurre a una curva progressivamente discendente del numero di liberi sospesi, per consentire al sistema di assorbire gradualmente questo “surplus” di numeri e, ancora prima, a UEPE e Uffici di Sorveglianza di gestire le complesse fasi istruttorie e decisionali che ne costituiscono il necessario antecedente sotto il profilo procedurale.

Vediamo alcune possibili soluzioni:

 

A. Interventi di efficientamento sull’esistente:

 

1) Le modifiche alla disciplina delle “nuove” pene sostitutive.

In una prospettiva di efficientamento del sistema senza sacrifici aggiuntivi in termini di garanzie dei soggetti interessati occorre, rendere più appetibili le pene sostitutive e porre risolutamente mano alla disciplina delle nuove pene sostitutive introdotta dalla riforma “Cartabia”, intervenendo nella direzione di introdurre, tra le stesse, la misura dell’affidamento in prova.

L’attuale sistema è graduato in rapporto alle limitazioni della libertà personale che si determinano quale effetto dell’esecuzione delle diverse pene sostitutive, così che anche il successo pratico della riforma è rimesso, essenzialmente, al calcolo di convenienza che l’imputato legittimamente adotterà circa la strategia processuale da seguire.

La nuova disciplina delle pene sostitutive - ispirata alla logica di contenere il fenomeno dei “liberi sospesi”, la ricorrenza, cioè, dell’ipotesi di cui al comma 5, articolo 656 c.p.p., per cui il condannato attende nella condizione di libertà la decisione del tribunale di sorveglianza – adotta la soluzione di “aggirare” il meccanismo della sospensione dell’ordine di esecuzione favorendo un’estesa applicazione delle nuove pene sostitutive da parte dello stesso giudice penale, così che sarà ora il giudice, con una valutazione discrezionale, sostituendosi al precedente meccanismo di sospensione automatica della condanna, a stabilire la soluzione esecutiva che il condannato dovrà immediatamente affrontare.

I dati che emergono dalle rilevazioni statistiche mostrano, tuttavia, che la riforma stenta a decollare, non offrendo, allo stato, quel contributo in termini di deflazione processuale che il legislatore si era prefigurato. Una tale non soddisfacente performance appare verosimilmente correlata anche alla scelta politica di escludere dal novero delle pene sostitutive immediatamente applicabili l’affidamento in prova (come, invece, aveva suggerito la Commissione Lattanzi[19]).

La L. n. 134 del 2021 e il conseguente D.lgs. n. 150 del 2022 non hanno ritenuto di prevedere quale sanzione sostituiva l’affidamento in prova al servizio sociale (Tale previsione era correttamente prevista proprio nel progetto “Flick” del 1997 e nel progetto “Lattanzi”).

È probabile che ciò sia dipeso dall’equilibrio interno alla variegata compagine politica che ha portato alla legge-delega e alla preoccupazione di mantenere, comunque, il connubio pena-limitazione della libertà[20].

Le ricadute sul piano di sistema e pratico sono contraddittorie.

Da un lato, l’imputato ha il vantaggio di potersi accordare con il p.m. già nella fase di cognizione non solo sulla quantificazione della pena detentiva, ma anche sulle relative modalità esecutive extracarcerarie, rompendo (come detto) il binomio cognizione-esecuzione.

Dall’altro lato, la scelta ex art. 444, comma 1, c.p.p. della detenzione domiciliare, ovvero della semilibertà, dai contenuti simili anche se non uguali agli omologhi istituti della fase esecutiva, impedisce al condannato di percorrere la possibilità della misura alternativa “più favorevole” ex art. 47 ord. penit.

Una volta che l’imputato abbia deciso di concordare la detenzione domiciliare o la semilibertà ed espresso in tal senso una volontà ben precisa in accordo con il pubblico ministero sul trattamento sanzionatorio complessivo, lo stesso imputato, divenuto condannato, non può cambiare le proprie scelte iniziali e chiedere in executivis l’affidamento in prova ai servizi sociali. L’art. 47 comma 3 ter ord. penit. prevede, in via espressa, che quest’ultima misura alternativa possa essere concessa al condannato a pena sostitutiva, solo «dopo l’espiazione di almeno metà della pena», seppure tenendo conto della riduzione che può derivare dalla liberazione anticipata.

L’opzione, imposta da valutazioni di natura politica, di trascurare la proposta della Commissione Lattanzi, scegliendo, invece, di privilegiare il ricorso alle due tipologie di pena – semilibertà e detenzione domiciliare – con il più basso tasso di efficacia sotto il profilo del recupero sociale, ha orientato inevitabilmente le scelte difensive nel senso di non prestare il consenso alla sostituzione della pena, ben potendo mirare – con una ragionevole probabilità di successo – a ottenere dal tribunale di sorveglianza la ben più appetibile misura (alternativa) dell’affidamento in prova – ordinario e “terapeutico” - in seguito alla sospensione della pena ai sensi dell’evocato articolo 656, comma 5, c.p.p.

Appare dunque possibile intervenire equiparando, sotto il profilo dell’offerta, il sistema delle pene sostitutive a quello delle misure alternative, rendendo in tal modo maggiormente appetibile la fuoriuscita anticipata dal circuito processuale per tutte le posizioni suscettibili di essere definite mediante l’applicazione ab initio di una pena sostitutiva analoga per contenuto alla misura di cui all’art. 47 ord.penit.

 

2) Le modifiche alla disciplina delle pene sostitutive e delle misure alternative alla detenzione.

Nello stesso senso, dovrebbe essere predisposta una pena sostitutiva fruibile nei casi, sempre più numerosi, di condannati affetti da disagio della sfera psichica. Come è noto, tali soggetti, se sottoposti a restrizione carceraria possono vedere aggravarsi la sintomatologia del proprio disturbo – spesso neppure correttamente segnalato e diagnosticato – creando problematiche di gestione da parte del personale penitenziario e innescando un aumento del rischio suicidario, come purtroppo testimoniano i drammatici numeri dei gesti anticonservativi compiuti da persone ristrette in carcere.

Per affrontare tale complessa casistica il sistema non dispone, attualmente, di strumenti normativi analoghi a quelli apprestati con riferimento ai condannati tossicodipendenti o alcoldipendenti quali, in primo luogo, la possibilità di applicazione della misura cautelare domiciliare (art. 89, D.P.R. 309/1990) e dell’affidamento terapeutico di tipo ambulatoriale ovvero residenziale presso le strutture comunitarie (art. 94, D.P.R. 309/1990). 

I condannati ristretti sofferenti di forme di disagio psichico, pur potendo potenzialmente accedere alla detenzione domiciliare (nelle forme di cui all’art. 47 ter, lett. c), ord. penit., ovvero in quelle indicate nella sentenza costituzionale n.99/2019), in molti casi non possono neppure fruire concretamente di tali opportunità per mancanza di adeguati supporti socio-familiari sul territorio e per l’inadeguatezza del numero di posti disponibili nelle strutture residenziali esterne.

La evidenziata criticità è stata, in parte, affrontata sul piano pratico con l’art. 8 del D.L. 92/2024, che ha istituito presso il Ministero della giustizia un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale di coloro che sono in possesso dei requisiti per accedere alle misure extramurarie, ma privi della disponibilità di un domicilio idoneo e versano in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento all’esterno del carcere.

L’aspetto cruciale che, tuttavia, l’evocato decreto di urgenza non ha adeguatamente chiarito attiene al profilo del finanziamento degli interventi. Le strutture terapeutiche lavorano in stretta connessione con i Ser.D. ed i DSM, a loro volta incardinati presso le ULSS e dipendenti, in definitiva, dai bilanci regionali.  A fronte di ciò, il D.L. 92/24 non prevede alcun aumento dei fondi sanitari statali alle regioni, lasciando in ombra un profilo che dovrebbe, al contrario, essere bene precisato a livello normativo.

Per affrontare tale problematica dal punto di vista degli strumenti a disposizione della magistratura di sorveglianza, dovrebbe essere sviluppata una proposta di riforma elaborata dalla “Commissione Giostra” nel 2018, che mirava a introdurre nella legge di ordinamento penitenziario una misura di nuovo conio, l’affidamento terapeutico per condannati afflitti da disagio psichico, modellato a somiglianza della già ricordata misura prevista per i condannati tossicodipendenti o alcoldipendenti[21].

In sintesi, la nuova misura terapeutica troverebbe applicazione negli stessi termini di quella disciplinata dall’art. 94 D.P.R. 309/90 (avuto riguardo, cioè, ad una pena da eseguire, anche residua, di sei anni ovvero di quattro anni se concernente un delitto ostativo indicato nell’art. 4 bis ord.penit.), ma verrebbe seguita dal DSM territorialmente competente che provvederebbe a certificare lo stato di malattia psichica e l’idoneità del programma terapeutico predisposto.

Per poter essere concretamente utile a deflazionare il numero dei liberi sospesi, questa possibilità dovrebbe essere inserita tra le pene sostitutive, unitamente all’affidamento in prova ordinario (v. punto seguente). 

 

3) Il problema dell’applicabilità dell’affidamento terapeutico.

Rimane dubbia l’applicabilità ai condannati assoggettati a pena sostitutiva della misura dell’affidamento in casi particolari. Argomento in senso negativo è il dato letterale (già in sede di applicazione della pena sostitutiva il giudice può tenere conto dei programmi terapeutici, secondo il disposto dell’art. 545-bis c.p.p.) anche se la misura terapeutica non è espressamente vietata dall’art. 67 L. 689/81 e comunque la disciplina dell’art. 94 DPR 309/90 si completa con quella dell’art. 47 ord. penit., in quanto applicabile.      

 

4) La riforma del procedimento di sorveglianza.

Sul versante delle modifiche procedimentali potrebbe essere, altresì, valutato l’ulteriore ampliamento della monocratizzazione della procedura di applicazione delle misure alternative, disciplinata dall’art. 678, comma 1 ter, c.p.p.

L’istituto in esame costituisce un subprocedimento che, nell’ambito del modello camerale disciplinato dall’art. 678 c.p.p., prevede – per i condannati in stato di libertà ai sensi del comma 5 dell’art. 656 c.p.p. che devono eseguire condanne a pene fino a diciotto mesi – la possibilità di un intervento che anticipa gli effetti della decisione che verrà assunta dal tribunale di sorveglianza da parte del magistrato relatore del procedimento.

Si tratta, in definitiva, di un istituto di carattere anticipatorio, affine a quello già è previsto, in relazione ai con­dannati in stato di detenzione, dal meccanismo contenuto nell’art. 47, comma 4, ord. penit. Per questi ultimi, infatti, la riforma portata dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. “legge Simeone”) consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria il beneficio richiesto dal condannato detenuto qualora sussistano i presupposti per la concessione della misura e sussista, altresì, nel caso concreto, il grave pregiudizio derivante dal protrarsi della detenzione nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza.

Il tribunale di sorveglianza – secondo la disciplina vigente anteriormente al D.L. 92/24 - confermava successivamente, senza formalità di procedura, la decisione monocratica, salvo che non condividesse la medesima, nel qual caso la trattazione doveva essere rinviata all’udienza camerale partecipata per assicurare il necessario sviluppo del contraddittorio che, nella fase “anticipatoria” era mancato.

L’art.10 comma 2, dell’evocato decreto di urgenza, espungendo dalla disposizione del comma 1-ter, art. 678 c.p.p., ogni riferimento alla provvisorietà della decisione assunta dal giudice relatore, determina che le ordinanze del magistrato relatore di applicazione delle misure alternative per tutte le condanne fino a diciotto mesi di pena relative a condannati “liberi sospesi” diventino definitive, se non opposte, senza necessità di successiva ratifica da parte del tribunale di sorveglianza.

Quello appena sommariamente descritto rappresenta un modello che vuole contemperare diverse sensibilità ed esigenze, connesse sia alla salvaguardia del diritto al contraddittorio, sia al rispetto dell’attuale suddivisione delle competenze tra magistrato monocratico e collegio, il cui bilanciamento aveva suggerito di non imboccare la via della devoluzione secca di una parte della materia alla cognizione del magistrato monocratico e di mantenere, dunque, saldo il principio della natura collegiale delle decisioni in tema di concessione delle misure alternative alla detenzione.

Al netto di tale, pur non trascurabile, profilo sistematico, deve rilevarsi che la moltiplicazione dei centri decisionali indotta dalla recente riforma del 2024 sconta alcune non trascurabili criticità, evidenziatesi anche nell’esperienza applicativa maturata medio tempore.

Anzitutto, il meccanismo può svolgere un’effettiva azione deflativa soltanto nel caso di concessione della misura più ampia tra quelle richieste (ovvero dell’unico beneficio oggetto della domanda). Qualora, infatti, il giudice relatore non applichi alcun beneficio ovvero si orienti per una misura più restrittiva di quella richiesta in principalità, il lavoro dell’organo collegiale non sarà in alcun modo diminuito, poiché nel primo caso il fascicolo verrà fissato all’udienza di trattazione collegiale e nel secondo il tribunale di sorveglianza sarà investito della quasi certa opposizione del difensore alla decisione monocratica.

In linea teorica, inoltre, la monocratizzazione, per incidere davvero sui numeri dei liberi sospesi, dovrebbe estendersi ben oltre l’attuale limite di pena, che si arresta sulla soglia dei diciotto mesi ma, così, si determinerebbe uno svuotamento delle competenze del tribunale collegiale con l’effetto che l’applicazione delle misure alternative verrebbe, di fatto, valutata in sede monocratica senza l’apporto dei saperi extragiuridici di cui sono portatori i componenti esperti del tribunale di sorveglianza e verrebbero, per tale ragione, sarebbero fondate sulla base della prevalenza dei dati giudiziari e delle informazioni delle forze dell’ordine, con obiettivo abbassamento della qualità delle decisioni.

La eccessiva dilatazione della competenza  monocratica comporterebbe, infine, alcuni non secondari rischi sul versante della possibile variabilità delle decisioni all’interno dello stesso distretto, venendo a mancare l’unicità del centro decisionale rappresentato dal tribunale collegiale, ma anche su quello della qualità delle decisioni stesse, perdendo, il giudice monocratico, il già evocato apporto delle peculiari competenze scientifiche che possono essere condivise in un collegio composto anche da giudici non professionali (esperti medici, psicologi, etc.) e che costituiscono il valore aggiunto  della giurisdizione rieducativa concentrata sulla persona del reo piuttosto che sul fatto-reato da lui commesso.

A fronte degli elementi sopra indicati, è dunque prospettabile un (limitato) intervento che porti ad elevare il limite di applicazione della procedura monocratizzata di cui all’art. 678, comma 1 ter c.p.p. fino alla soglia dei due anni di pena detentiva, anche residua di una maggiore pena.

Ad una tale previsione dovrebbe, tuttavia, accompagnarsi una modifica normativa che introduca, per le decisioni del giudice di sorveglianza entro la soglia di pena indicata, la regola della motivazione semplificata nel caso di applicazione di una misura alternativa, ciò che consentirebbe un notevole risparmio di energie processuali e una maggiore capacità di definizione dei procedimenti che potrebbe contribuire a efficacemente aggredire l’arretrato, in particolare quello formatosi sulle esecuzioni sospese ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p..

 

5) La modifica dei poteri “cautelari” del magistrato di sorveglianza.

Un più ambizioso intervento potrebbe, inoltre, estendere tale procedura ai condannati ristretti in carcere. Nei confronti di tali ristretti sono, effettivamente, già applicabili gli istituti di cui all’art. 47, comma 4, 47 ter, comma 1 quater e 50, comma 5, ord.penit., i quali consentono al magistrato di sorveglianza di disporre in via provvisoria la fuoriuscita dal carcere di un soggetto detenuto, qualora ricorrano i presupposti per la concessione delle misure dell’affidamento in prova, detenzione domiciliare o semilibertà e sussista, altresì, il pericolo di un grave pregiudizio nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza.

Attualmente, tuttavia, l’effetto pratico di tali istituti “cautelari” è assai limitato, poiché in molti casi gli elementi valutativi a disposizione del magistrato di sorveglianza non sono sufficienti a far ritenere sussistente il fumus o il periculum e dunque a sostenere una decisione favorevole all’interessato.

A fronte di tale evidenza, sembra dunque sussistere uno spazio applicativo per l’istituto di cui all’art. 678, comma 1 ter, c.p.p. il quale, non avendo natura cautelare, bensì meramente anticipatorio, consente, per un verso, al decidente di disporre di un quadro istruttorio tendenzialmente più completo e, per l’altro, di procedere ad applicare l’eventuale beneficio extramurario a prescindere dalla sussistenza, nel caso concreto, del periculum.

Il sistema potrebbe essere, quindi, ricalibrato prevedendo un intervento del giudice monocratico per tutte le posizioni esecutive caratterizzate da pene medio-basse (comprese nella fascia fino ai due anni di pena detentiva), con applicazione diretta di una misura alternativa da parte del magistrato di sorveglianza, salvaguardando le esigenze difensive attraverso la possibilità di opposizione delle parti davanti al tribunale di sorveglianza. Quest’ultimo continuerebbe a conoscere in via principale delle istanze di benefici alternativi relativi a condanne superiori alla soglia di pena indicata, con possibilità – per i condannati in vinculis - di intervento “cautelare” del magistrato di sorveglianza secondo la disciplina già vigente contenuta nelle già richiamate disposizioni di matrice penitenziaria.

Si tratta, per vero, di una prospettiva già valutata in sede di riforma dell’Ordinamento penitenziario all’esito degli Stati Generali dove, accanto alla riforma dell’art. 678 c.p.p. (poi effettivamente attuata), si era ritenuto invece di lasciare «immutato il differente meccanismo vigente con riguardo ai condannati detenuti, articolato sul vaglio “cautelare” del magistrato monocratico e sulla decisione definitiva assunta dal tribunale di sorveglianza: iter certamente più “faticoso” sotto il profilo procedurale ma giustificato dalla necessità di un vaglio collegiale in relazione a casi di indubbia maggiore complessità e delicatezza (attesa l’entità della pena e/o il titolo di reato che non hanno consentito la sospensione dell’ordine di esecuzione, alla necessità di approfondire l’esame della personalità del soggetto ovvero alla luce delle esigenze preventive che hanno imposto la protrazione della custodia cautelare senza soluzioni di continuità con l’espiazione della pena definitiva).»

Fino a qui le soluzioni di modifica dell’esistente.

 

 

B. Le soluzioni innovative di fronte alla accertata crisi sistemica

 

1) Strumenti alternativi alla pena carcerocentrica meramente afflittiva.

La dottrina si è interrogata sulla possibilità di introdurre strumenti alternativi alla pena carceraria e a quella alternativa classica (che ha comunque dei costi in termini di organizzazione e di gestione, con il coinvolgimento dei diversi attori istituzionali: UEPE, Forze dell’ordine, Ser.D. e DSM, Magistratura di sorveglianza). Per un’autorevole opinione, «occorre iniziare a pensare ad un’afflittività in libertà sempre meno pesante perché basata su progetti rieducativi molto impegnativi anche per la società e sul piano organizzativo (si pensi al lavoro di pubblica utilità) e sempre più leggera, caratterizzata soprattutto da prescrizioni negative sul modello della libertà vigilata»[22].

Secondo la richiamata dottrina, i dati dei liberi sospesi ci suggeriscono qualcosa di più: che il sistema attuale non è più in grado di reggere nemmeno le alternative al carcere così come sono state configurate fino ad ora. In particolare, la realizzazione di alternative pesanti fortemente orientate alla rieducazione con molti impegni per la società sono davvero molte: si pensi al lavoro di pubblica utilità che si trova applicato nella messa alla prova come obbligatorio, per le condanne a reati stradali e relativi agli stupefacenti, come pena sostitutiva, come pena nel sistema penale del giudice di pace.

È venuto quindi il momento di concentrare l’attenzione su come configurare le pene in libertà. Qui si apre l’alternativa tra alternative pesanti e alternative leggere, tra alternative basate sulla prevenzione speciale positiva e quelle basate invece sulla prevenzione speciale negativa.

All’esito di questa articolata riflessione si propongono due istituti di nuovo conio:

- una sospensione condizionale della pena con contenuti prescrittivi;

- pene alternative a prevenzione speciale negativa come pene principali già in astratto, una sorta di libertà vigilata consistente in molte prescrizioni che il giudice sceglie discrezionalmente a seconda delle diverse esigenze afflittive. Si tratterebbe di pene applicare direttamente con la sentenza di condanna e dunque idonee a incidere sul fenomeno dei liberi sospesi.

 

Il problema più rilevante sotto il profilo sistematico sul quale occorre interrogarsi di fronte a tale proposta riguarda la possibilità di armonizzare una pena meramente improntata a esigenze di prevenzione speciale negativa con il finalismo rieducativo della pena.

L’obiezione potrebbe essere superata inquadrando anche tali speciali pene prescrittive tra le misure per le quali è concedibile il beneficio della liberazione anticipata, strettamente connesso al positivo apprezzamento della evoluzione comportamentale e stimolo rieducativo per il condannato.

           

2) L’indennizzo per l’eccessivo ritardo dell’applicazione della pena e la (rimedi compensativi).

Si è detto che l’attuale situazione dei “liberi sospesi”, per il suo carattere di patologia sistemica, espone il nostro Paese a possibili violazioni sul piano costituzionale e di fronte alle Corti europee, poiché l’esecuzione di pena che arrivi oltre un tempo ragionevole è suscettibile di integrare i caratteri di un’illecita interferenza dello Stato nella vita privata e familiare, il cui rispetto è tutelato dall’art. 8 della Convenzione edu e, in questa prospettiva, non è affatto scontato che non possa configurarsi il diritto ad un equo indennizzo per la irragionevole durata dell’esecuzione del titolo di condanna, quale corollario del presìdio già posto dall’ordinamento per il pregiudizio da irragionevole durata del processo.

L’eccessivo lasso di tempo che intercorre tra la definitività del titolo esecutivo e la decisione del giudice di sorveglianza incide sulla posizione del condannato, allontanando il momento in cui la pena verrà eseguita e rischiando, per tale motivo, non solo di avere un effetto deleterio sulla vita del soggetto (il quale, nel corso degli anni, può avere avviato un’attività di lavoro ed essersi formato una famiglia), ma altresì di perdere qualunque effetto risocializzante, andando a colpire – in ipotesi – una persona che, successivamente al reato, ha del tutto mutato stile di vita inserendosi armonicamente nella società civile.

A ristoro di tale pregiudizio potrebbe, in via generale, introdursi una ipotesi di indennizzo per “eccessivo ritardo nell’esecuzione della pena”, che potrebbe essere applicato - nella forma di una riduzione automatica della pena da eseguire proporzionata alla durata del ritardo - a tutti i condannati “liberi sospesi” a decorrere dal giorno successivo a quello stabilito dalla legge come termine entro il quale il tribunale di sorveglianza dovrebbe assumere la propria decisione (art. 656, comma 6, c.p.p.).

In forza di tale automatismo indennitario per il ritardo con il quale il tribunale di sorveglianza dovesse decidere sul percorso esecutivo dell’interessato, quest’ultimo si vedrebbe, dunque, “compensare” la eventuale “irragionevole durata” della procedura con una corrispondente riduzione della pena da eseguire, potendo in tal modo più agevolmente accedere a un percorso di esecuzione penale esterna.

L’auspicio è che, sulla scia della sentenza Torreggiani sulle carceri sovraffollate, per i “liberi sospesi” si riduca la pena proporzionalmente al tempo che si è atteso per la sua esecuzione.

In questo caso, la riduzione dovrebbe operare automaticamente a decorrere da un certo tempo giudicato “ragionevole” (poniamo: un anno dall’emissione dell’ordine di esecuzione sospeso) e la detrazione (che potrebbe essere parametrata a quella riconosciuta con il 35-ter ord.penit. ovvero a quella ottenibile con la liberazione anticipata) dovrebbe essere applicata direttamente dal PM incaricato dell’esecuzione, che dovrebbe aggiornare l’o.e.p. nel momento in cui riceve l’ordinanza di concessione della misura alternativa da parte del giudice di sorveglianza.

 

3) La tutela delle esigenze preventive e di difesa sociale.

Un problema generale che attiene alla situazione dei “liberi sospesi” attiene alla tutela della collettività: si tratta di condannati per pene anche elevate (che possono arrivare fino a sei anni) che attendono da liberi e senza alcun vincolo o controllo la decisione del tribunale di sorveglianza. Come insegnano le Corti di vertice, la pena ha anche una funzione di difesa sociale e ritardarne l’esecuzione incide (anche) sul bene giuridico costituito dalla tutela della collettività.

Sul piano operativo, si può affrontare tale rischio introducendo dei protocolli operativi che contengano criteri di trattazione prioritaria dei procedimenti non tanto procedendo per ordine di anzianità di iscrizione – criterio tradizionalmente seguito per evitare ruoli troppo datati – quanto selezionando qualitativamente le posizioni sulla base del titolo di reato, privilegiando, a es., la trattazione sollecita delle procedure che riguardano condanne afferenti ai delitti di “codice rosso” non a carcerazione obbligatoria, per i quali la trattazione prioritaria si impone per contenere il rischio di recidiva.

 

 

 

 

[1] Workshop "Liberi sospesi. Tra crisi del sistema dell’esecuzione penale e rispetto dei principi costituzionali" tenutosi il 24 settembre 2024 presso il Dipartimento 'C. Beccaria' dell'Università Statale di Milano. 

[2] R. BARTOLI, La gloriosa dissoluzione del mito populista “certezza della pena come certezza del carcere”, in Sist. Pen., online, 22 aprile 2024, 3.

[3] Risposta scritta del Ministro della giustizia all’interrogazione 4-00072, pubblicata lunedì 13 febbraio 2023 nell’Allegato B ai resoconti della seduta n. 50 della Camera dei deputati, XVIII LEGISLATURA, Seduta di lunedì 11 aprile 2022, on.le GIACHETTI al Ministro della giustizia.

[4] Per raffronto, al 31 dicembre 2024 erano 93.880 le persone in misura alternativa alla detenzione, in messa alla prova o condannate a pena sostitutiva e 61.861 i detenuti. Complessivamente risultano in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna (UEPE) oltre 100.000 persone.

[5] Così R. BARTOLI, op. cit.,4. Il rilievo è, peraltro, confermato dalle ormai numerose evidenze di pene a cui esecuzione si prescrive nel corso del procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza (tipicamente, è il caso delle contravvenzioni al C.d.s., punite con la pena dell’arresto).

[6] R. BARTOLI, cit., loc. cit.

[7] Corte cost. sent. 7 novembre 2024, n. 176, reperibile su www.cortecostituzionale.it.

[8] V. l’intervento di P. MAGGIO al Convegno La difesa avanti la corte europea dei diritti umani: la testimonianza dell’avv. Marina Silvia Mori tra strategic litigation e l’implementazione dei diritti fondamentali, Milano, 7 marzo 2025.

[9] Deve, al proposito rilevarsi il sottodimensionamento degli organici sia magistratuali che amministrativi degli uffici di sorveglianza – oberati da un’enorme mole di lavoro, non supportati dalle misure di rafforzamento previste dal PNRR e non adeguatamente informatizzati.

[10] L’espressione è di G. VARRASO, Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione, in Quest.Giust. online, 7 febbraio 2023.

[11] Cfr. la Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150.

[12] Corte cost., sent. 10 maggio 2024, n.84, reperibile su www.cortecostituzionale.it.

[13] Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec (2018)8 adottata dal Comitato dei Ministri il 3 ottobre 2018 (che sviluppa ulteriormente la precedente Raccomandazione no. R (99)19 in materia di mediazione penale). Su tale profilo si rinvia, volendo a M. BOUCHARD- F. FIORENTIN, La giustizia riparativa, GFL, Milano, 2024, 30 e ss.

[14] Critici nei confronti di una tale opzione del decisore politico sono, tra gli altri, M. GIALUZ- J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno. L’inefficienza del sistema penale italiano tra crisi economica e riforma Cartabia, Torino, 2022, p.335, i quali ricordano come vi fossero nella legge delega spazi sufficienti per modellare un più ampio effetto deflativo dei carichi processuali all’esito del positivo completamento dei percorsi riparativi, attraverso l’istituto – ipotizzato dalla Commissione Lattanzi ma non recepito dalla riforma – della c.d. “archiviazione meritata”.  Un accenno alla scelta della complementarietà si coglie nella Relazione illustrativa al D.lgs n. 150/2022 ove, a p. 422, in riferimento alla GR agìta nella fase esecutiva della pena, si puntualizza come «recuperare il nesso tra la giustizia riparativa ed il finalismo inclusivo della pena (cfr. sent. nn.179/2017, 40/2019 Corte cost.), del resto previsto negli articoli 27 e 118 del DPR n. 230/2000 per ciò che riguarda rispettivamente l'osservazione intramuraria e l'attività dell'UEPE, non deve significare trasformare questa forma di giustizia complementare al diritto penale in un succedaneo della pena».

[15] Il termine è preso a prestito da R. BARTOLI, cit.

[16]  Su tali dati si veda, volendo, F. FIORENTIN, I “liberi sospesi” tra criticità presenti e prospettive di riforma, in Sist.Pen. online, 4 novembre 2024. Come si accennava, la problematica ha ormai assunto i caratteri di una disfunzione sistemica; già oltre dieci anni or sono, si rilevava che «l’analisi dell’esperienza applicativa della legge sull’ordinamento penitenziario fornisce dati nel complesso deludenti. La presenza di istituti penitenziari inadeguati e fatiscenti, le condizioni di sovraffollamento carcerario, insieme alla carenza di risorse economiche e umane hanno sancito sconfitta dei principi costituzionali volti a razionalizzare e a umanizzare il trattamento sanzionatorio». (I. NICOTRA, Pena e reinserimento sociale. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani, in www.dirittopenitenziarioecostituzione.it, 30 maggio 2014).

[17] Corte EDU 8 gennaio 2013, Torreggiani ed altri c/ Italia.  Per un commento alla sentenza v., tra i tanti, F. VIGANÒ, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in Dir. pen. cont. online, 9 gennaio 2013.

[18] Sul problema del sovraffollamento carcerario si veda, tra gli altri, A. ALBANO, A. LORENZETTI e F. PICOZZI, Sovraffollamento e crisi del sistema carcerario, Torino, 2021.

[19] Cfr. “Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello” (D.M. 16 marzo 2021 – Pres. Dott. Giorgio Lattanzi, Vice Pres. Dott. Ernesto Lupo e Prof. Gian Luigi Gatta), Relazione Finale e proposte di emendamenti al d.d.l. a.c. 2435 (24 maggio 2021), sub art. 9 bis, 63 e ss.

[20] Così G. VARRASO, Gli approfondimenti della riforma Cartabia, cit., 8, che ritiene la scelta influenzata “dall’equilibrio interno alla variegata compagine politica che ha portato alla legge-delega e alla preoccupazione di mantenere, comunque, il connubio pena-limitazione della libertà, nonché di evitare il rischio che l’applicazione dell’affidamento in prova ai servizi sociali si trasformi in una sospensione condizionale mascherata, ovvero che disincentivi la sospensione del procedimento con messa alla prova, allungando i tempi del processo”. E. DOLCINI, Sanzioni sostitutive: la svolta impressa dalla riforma Cartabia,, in Sist. pen., online, 2 settembre 2021, 5, ricorda che “il legislatore si sarebbe sentito vincolato all’idea ‘insuperata’ che la pena debba consistere in una privazione della libertà: preferibilmente in una privazione della libertà che abbia a che fare con il carcere”).

[21] Cfr. Commissione Giostra, Il Progetto di riforma penitenziaria, Roma 2019. 

[22] BARTOLI, cit., 5.