1. Per garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo e, al tempo stesso, incentivare la riduzione dei tempi medi di celebrazione del giudizio di impugnazione (e in specie dell’appello) con la legge 134 del 2021, vigente dal 19 ottobre 2021, è stato introdotto l’istituto dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, la cui disciplina è collocata nell’articolo 344 bis del codice di procedura penale tra le condizioni di procedibilità.
Se la riforma attuata mediante la legge n. 3 del 2019 (cd. Bonafede) aveva disegnato una prescrizione sostanzialmente limitata negli effetti al primo grado di giudizio, invece con la legge n. 134 del 2021 (cd. Cartabia) il legislatore non ha voluto incidere formalmente sul tema della prescrizione, introducendo però al tempo stesso il nuovo istituto dell’improcedibilità per l’eccessiva durata della fase impugnatoria.
La regola fondamentale è la seguente: la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno - vale a dire entro i termini di ragionevole durata del processo previsti per tali gradi di giudizio dalla legge Pinto (articolo 2, comma 2 bis, della legge 79 del 2001) - “costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”.
La mancata definizione del giudizio di impugnazione penale entro tale termine produce, come conseguenza, l’estinzione del rapporto processuale che si chiude con un provvedimento che - accertata la violazione del termine di durata massima di giudizio di impugnazione - dichiara l’improcedibilità dell’azione penale.
Tale sistema riguarda i procedimenti per tutti i reati, con eccezione di quelli puniti con l’ergastolo, anche per effetto dell’applicazione di aggravanti; la declaratoria di improcedibilità non ha luogo, infine, quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo.
I termini decorrono dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale, eventualmente prorogato ex articolo 154 delle disposizioni di attuazione del CPP (una sola volta, per un massimo di 90 giorni); la norma incentiva il deposito puntuale delle motivazioni in quanto l’eventuale ritardo eroderebbe il margine di tempo (massimo 90 giorni) che il legislatore ha immaginato come parentesi utile agli adempimenti per la trasmissione del fascicolo da un ufficio giudiziario all’altro[1].
Nella Relazione n. 60/2021 dell’Ufficio del Massimario si legge che tale ultima scelta trova, forse, una motivazione nel fatto che il legislatore abbia voluto ricomprendere nel citato periodo di novanta giorni (maturato il quale comincia a decorrere il termine di durata del giudizio di impugnazione) sia il termine (di massimo quarantacinque giorni) per l’impugnazione, che il tempo necessario alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato per l’espletamento di tutti gli adempimenti previsti dagli artt. 164, 165 e 165-bis disp. att. c.p.p. e la trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione (art. 590 c.p.p.).
La norma non prevede la possibilità di proroghe di tale periodo di novanta giorni sicché deve ritenersi che, una volta maturato, inizi comunque a decorrere il termine di durata del giudizio di impugnazione nonostante, ad esempio, la cancelleria non abbia ancora provveduto a tutti gli adempimenti di legge.
Il citato termine di novanta giorni decorre dalla scadenza del termine previsto per la redazione della sentenza (comprese le proroghe disposte ai sensi dell’art. 154, comma 4-bis, disp. att. c.p.p.) che, come chiarito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, non è soggetto alla sospensione nel periodo feriale prevista dall'art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742 (cfr. Cas. Pen., Sez. U, n. 7478 del 19/06/1996, Giacomini, Rv. 205335) e ciò anche dopo le modifiche introdotte dal d.l. n. 132 del 2014 convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, che all'art. 16 ha ridotto il periodo annuale di ferie dei magistrati da 45 a 30 giorni.
Inoltre, con riferimento all’ipotesi in cui detto termine sia stabilito dal giudice, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto irrilevante, ai fini del decorso del termine per l’impugnazione, l’eventuale deposito anticipato della sentenza; si è infatti, affermato che il termine per la proposizione dell'impugnazione decorre, comunque, dalla scadenza del termine autodeterminato, ancorché il deposito della sentenza sia avvenuto in anticipo (Cass. Pen., Sez. 3, n. 35149 del 23/02/2017, Prosperi, Rv. 271188) e, in modo speculare, si è escluso che il ritardo nel deposito della sentenza possa avere conseguenze diverse da quelle rilevanti sul piano disciplinare quali la nullità del provvedimento, ovvero la sua inutilizzabilità o inammissibilità (Cass. Pen., Sez. 5, n. 15660 del 12/02/2020, Salamina, Rv. 2791559; Sez. 3, n. 33386 del 18/03/2015, Rv. 264507).
2. La disciplina transitoria: profili problematici. La disciplina transitoria è contenuta nell’articolo 2 della legge 134 del 2021 e si articola in tre regole:
Il maggior termine previsto dal comma 5 è frutto della ritenuta necessità di dare alle Corti di appello e alla Corte di cassazione un arco di tempo più ampio per predisporre le idonee misure organizzative volte a garantire il rispetto del termine di improcedibilità processuale (in questi termini, Cass. Pen., Sez. 7, ord. n. 43883 del 19/11/2021).
Tale disciplina appare finalizzata a consentire una graduale applicazione della riforma in modo da assicurare, contemporaneamente, l’adeguamento delle strutture degli uffici giudiziari; è importante osservare che il comma 4 individua come discrimine temporale non il deposito dell’atto di impugnazione, ma la data in cui gli atti pervengono al giudice dell’impugnazione.
L’art. 590 c.p.p. prevede, infatti, che siano trasmessi senza ritardo al giudice dell’impugnazione il provvedimento impugnato, l’atto di impugnazione e gli atti del procedimento; ne consegue che con riferimento agli atti di impugnazione che - alla data di entrata in vigore della legge - siano stati presentati ma non ancora trasmessi (unitamente agli altri atti indicati dall’art. 590 c.p.p. al giudice dell’impugnazione) il termine di durata del giudizio di impugnazione non dovrebbe decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, bensì dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza.
Si è osservato che, sebbene non sia espressamente previsto dal comma 4, in caso di pluralità di atti di impugnazione, dovrebbe comunque aversi riguardo a quello proposto per primo, ove la cancelleria del giudice a quo abbia già provveduto alla trasmissione degli atti; va, infatti, considerato che la giurisprudenza di legittimità ha escluso che la cancelleria del giudice a quo debba attendere l’intero decorso del termine per l’impugnazione e, dunque, il deposito di tutti gli atti di gravame, prima di trasmettere gli atti al giudice dell’impugnazione[2].
Invero, la trasmissione integrale alla Corte d'appello degli atti del processo di primo grado ex art. 590 c.p.p., e la conseguente emissione del decreto di citazione in appello ex art. 601 c.p.p., devono essere effettuate immediatamente a seguito della presentazione del gravame e non dopo l'intero decorso dei termini di impugnazione, al fine di assicurare la ragionevole durata del processo[3].
Ciò proprio perché l’art. 590 citato mira a evitare ritardi e ad eliminare tempi morti negli intervalli di tempo tra il termine di una fase di giudizio e l’avvio della successiva, nell’intento di dare concreta attuazione al precetto costituzionale volto ad assicurare la ragionevole durata del processo.
Pertanto, in presenza di più atti di impugnazione - per uno o alcuno dei quali alla data del 19 ottobre 2021 siano già stati trasmessi gli atti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione, mentre per altri tale adempimento sia stato svolto successivamente - ai fini dell’applicazione del regime transitorio dovrebbe aversi riguardo al primo atto di impugnazione, con conseguente decorrenza dei termini di cui all’art. 344-bis c.p.p. dalla data del 19 ottobre 2021.
Una questione rilevante che può porsi in relazione alla fase transitoria attiene all’applicabilità o meno dei più lunghi termini di durata del giudizio di impugnazione, previsti dal comma 5, anche ai procedimenti già pervenuti al giudice dell’impugnazione alla data di entrata in vigore della legge[4].
Da più parti si è, infatti, sottolineato il difetto di coordinamento tra i commi 4 e 5 dell’art. 2 della legge n. 134 cit., nel senso che ci si è chiesti se dette norme disciplinino situazioni separate oppure se debba essere proposta una loro lettura coordinata, in cui la disposizione più ampia (comma 5) comprenda l’altra (comma 4), differenziandosi solo per il termine iniziale di decorrenza.
Un’interpretazione sistematica dei commi 4 e 5 - in luogo di quella letterale che farebbe decorrere il biennio dal 19 ottobre 2021 – consentirebbe, invero, di ritenere che il termine fissato per la definizione di tutti i processi relativi a reati commessi dopo il 1° gennaio 2020 e pervenuti, entro il 31 dicembre 2024, in Corte di appello o in Corte di cassazione, andrebbe individuato in quello più ampio (triennale o di un anno e mezzo) previsto dal comma 5, con l’unica differenza nel termine iniziale di decorrenza che - per quelli già pervenuti - sarebbe il 19 ottobre 2021 (data di entrata in vigore della legge n. 134 cit.) e non nel termine diverso computato in via ordinaria allo scadere del novantesimo giorno successivo allo spirare del termine di deposito della sentenza.
Ciò non solo tenuto conto dell’illogicità di un termine diverso se la finalità del legislatore è quella di contemperare le misure di accelerazione del processo penale con le esigenze organizzative del sistema giudiziario, ma anche in ragione del dato letterale del comma 5 dell’art. 2 della legge n. 134 cit., che “descrive i procedimenti di impugnazione cui si applicano i più lunghi termini di durata con riferimento al solo termine finale, senza alcuna precisazione di quello iniziale. La norma, dunque, saldandosi logicamente con la precedente disposizione, dovrebbe disciplinare il diverso termine di durata per tutti i giudizi da trattare fino al 31 dicembre 2024, siano essi o meno pendenti alla data di entrata in vigore della legge (fermo restando, per quelli già pendenti, la diversa decorrenza di detto termine è stabilita dal comma 4”[5].
Come visto, tale soluzione interpretativa era stata inizialmente proposta dall’Ufficio del Massimario che, nella chiamata Relazione n. 60/2021, chiariva come “una lettura rispondente ai canoni della logica e della ragionevolezza della norma oltre che coerente con le finalità perseguite dalla disciplina transitoria, dovrebbe […] indurre a ritenere che il più lungo termine di durata dei giudizi di impugnazione riguardi anche i giudizi già pendenti in fase d’appello o di Cassazione alla data di entrata in vigore della legge”.
Questa ricostruzione che voleva “saldare” i contenuti del comma 4 con quelli del comma 5, è stata peraltro criticata dalla dottrina sotto il profilo sistematico e nel rilievo che le “due situazioni disciplinano situazioni diverse, decorrenze diverse, ma anche termini diversi, tempi diversi che sarebbe stato del tutto superfluo indicare nel comma 4 se regolati dal comma 5”[6].
Come si evidenzia nella più recente Relazione n. 12 del 6 marzo 2023 dell’Ufficio del Massimario, la richiamata dottrina ha sul punto osservato che il legislatore della novella “ha evitato riferimenti tali da consentire l’auspicata liason suggerita dalla relazione del Massimario. Vi osta in primo luogo l’art. 12 preleggi […] L’aspetto emblematico è costituito dal riferimento del comma 4 ai «termini di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 344-bis» senza alcun riferimento a quelli più ampi previsti dal successivo comma 5”.
In secondo luogo, si è obiettato che la diversa natura delle due disposizioni - il comma 4 afferente al diritto intertemporale ed il comma 5 a quello transitorio - non consentirebbe commistioni tra disposizioni che si prefiggono obiettivi diversi, vale a dire quelli propri delle due tipologie di disposizioni nelle quali ognuna è assiologicamente inquadrata[7].
Insomma, la risposta negativa al quesito deriverebbe dal privilegiare una soluzione ermeneutica basata sulla lettura separata dei due commi giungendo, così, a individuare due discipline transitorie: una per i giudizi di impugnazione pendenti alla data di entrata in vigore della legge in cui dovrebbe applicarsi il termine ordinario previsto dall’art. 344-bis commi 1 e 2 c.p.p., con decorrenza dal 19 ottobre 2021, e una seconda disciplina relativa invece alle impugnazioni proposte dal 20 ottobre 2021 al 31 dicembre 2024, per le quali si applicheranno i più lunghi termini di durata, ma con la decorrenza ordinaria prevista dall’art. 344-bis, comma 3, c.p.p.
La Suprema Corte[8] sembrerebbe avere finora privilegiato l’interpretazione, per così dire, unitaria delle due discipline innanzi ricostruite affermando che “il termine massimo di tre anni per lo svolgimento del giudizio di appello, previsto dalla disciplina transitoria di cui all'art. 2, comma 5, stessa legge, si applica, in presenza di reato commesso dal 1 gennaio 2020, anche nei procedimenti in cui l'atto di appello è pervenuto al giudice di secondo grado prima della data di entrata in vigore della nuova disciplina”.
In quel caso il ricorso aveva ad oggetto un reato commesso dopo il primo gennaio 2020 e l’atto di appello era stato presentato il 30 agosto 2021: la Corte ha testualmente affermato che la tesi dell'intervenuta improcedibilità sul presupposto che al giudizio di gravame in oggetto non potesse applicarsi la disciplina di cui al comma 5 dell'art. 2 della legge n. 134 del 2021, ma solo quella di cui al precedente comma 4, con la conseguenza che il termine massimo di durata del giudizio di appello sarebbe pari a due anni (termine decorso prima della pronuncia della sentenza di secondo grado) era “manifestamente infondata, atteso che la disciplina contenuta nel comma 5 dell'art. 2 l. n. 134 del 2021… si applica all'ipotesi in cui l'atto di appello sia già pervenuto alla Corte di appello prima dell'entrata in vigore della legge n. 134 cit.” e la tesi del ricorrente secondo la quale a questi appelli dovrebbe applicarsi l'ordinario termine di improcedibilità biennale (invece, stabilito per la fase a “regime”) non trovava riscontro nella lettera della disposizione essendo “evidente che tra i procedimenti “nei quali l'impugnazione è proposta entro la data del 31 dicembre 2024” rientrano anche quelli pervenuti al giudice di secondo grado prima della data di entrata in vigore della nuova disciplina”.
Del resto - conclude la Corte - il regime transitorio previsto è diretto a consentire, in attesa di un riassetto delle risorse, necessarie per consentire la celere definizione dei giudizi dinanzi alle Corti territoriali, tempi più ampi di quelli stabiliti “a regime” per la definizione delle impugnazioni che, alla data dell'entrata in vigore della nuova disciplina, siano già pendenti presso le Corti di appello ovvero vengano proposte entro il dicembre del 2024.
Peraltro, giova osservare che il tema ha perso gran parte della sua attualità per il futuro atteso che, al momento e stante l’incontroverso dies a quo previsto dalla disciplina transitoria al ricordato comma 4, risultano ormai spirati i termini di improcedibilità per i processi i cui atti di gravame fossero già stati trasmessi prima della data del 19 ottobre 2021 sia che si adotti la tesi del termine biennale (al 19 ottobre 2023), sia pure qualora si opti per l’orientamento che ritiene applicabile il più lungo termine triennale (al 19 ottobre 2024).
3. La possibile applicabilità retroattiva dell’istituto. Altro tema interessante riguarda lo “sbarramento temporale” dell’art. 2, comma 3, legge n. 134 del 2021, con le relative questioni concernenti la natura dell’istituto e le ricadute in tema di applicabilità della disposizione anche ai reati commessi prima del primo gennaio 2020.
Infatti, all’indomani dell’innesto nel sistema processuale dell’art. 344-bis c.p.p. si è invocata da taluno la retroattività del nuovo meccanismo estintivo, qualificabile come in concreto più vantaggioso, con la conseguente eccepita illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge n. 134 del 2021, nella parte in cui limita l’applicazione dell’art. 344-bis ai reati commessi a partire dal primo gennaio 2020 per ritenuta disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.
Il tema non può prescindere, come è evidente, dall’individuazione della esatta natura giuridica dell’istituto.
Infatti, se si ritiene che l’art. 344-bis c.p.p. presenti natura sostanziale al pari della prescrizione del reato, o comunque natura mista, processuale e sostanziale (come la querela[9]) alla nuova “prescrizione processuale” dovrebbero applicarsi le garanzie relative ad entrambi i piani e, con riferimento a quello sostanziale, il principio - costituzionale e convenzionale - della retroattività della disposizione più favorevole.
Ne discenderebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge n. 134 del 2021 per il suo attrito con l’art. 3 Cost. e della norma interposta dell’art. 117 Cost. in riferimento all’art. 7 CEDU.
L’Ufficio del Massimario, con la già richiamata relazione su novità normativa n. 60/21, si è espresso - al contrario - nel senso che “a sostegno della natura processuale dell’istituto depongono vari indici di carattere letterale e logico-sistematico. Innanzitutto vanno considerate sia la sua collocazione topografica nell’ambito delle condizioni di procedibilità dell’azione che le modalità operative del maccanismo estintivo previsto dalla disposizione in cui il superamento della forbice temporale predefinita dal legislatore, salvo eventuali proroghe, incide, non sull’esistenza del reato, ma sulla possibilità di proseguire l’azione penale in quanto estinta. Rileva, inoltre, anche la individuazione dei termini entro i quali deve concludersi ciascuna fase di impugnazione. Al diverso inquadramento dogmatico dell’istituto, come causa di estinzione dell’azione penale e non del reato, conseguirebbe, pertanto l’irretroattività della disciplina secondo il diverso principio tempus regit actum” (pag. 18).
Si prosegue osservando che il meccanismo estintivo introdotto nel codice di rito risponde ad una finalità compensativa e riequilibratrice correlata alla non operatività dell’istituto della prescrizione e che, dunque, proprio in virtù di ciò, la sua delimitazione temporale ai soli reati commessi dopo il primo gennaio 2020 risponda ad un criterio di ragionevolezza che la pone al riparo da possibili frizioni con i principi costituzionali e convenzionali.
In giurisprudenza è praticamente unanime il riconoscimento della natura processuale del ricordato istituto, con conseguenze reiezione delle questioni di legittimità costituzionale della citata norma intertemporale.
Ad esempio vale la pena di citare l’ordinanza con la quale la VII Sezione della Cassazione[10] ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge n. 134 del 2021, in relazione agli artt. 3, 25 e 111 Cost., nella parte in cui prevede che le disposizioni relative all’improcedibilità del giudizio di cassazione per superamento del termine di durata massima di un anno di cui all'art. 344-bis c.p.p., si applicano ai reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020.
Ciò osservando che in altri casi la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima la scelta di non sottoporre allo scrutinio di maggiore o minore favore la legge sopravvenuta nei casi di processi pendenti in cassazione, dal momento che “l’esclusione dell’applicazione retroattiva della prescrizione più breve non discende dall’eventuale verificarsi di un certo accadimento processuale, ma dal fatto oggettivo e inequivocabile che processi di quel tipo siano in corso ad una certa data’” (Corte cost. n. 72 del 2008), per cui ciò a maggior ragione dovrebbe giustificarsi nel caso di specie, trattandosi peraltro di una disciplina essenzialmente processuale e con effetti sostanziali solo indiretti.
Applicando questi principi all’improcedibilità, la S.C. ha concluso nel senso che “la modulazione del regime transitorio previsto dalla legge n. 134 del 2021 può ben correlarsi non solo all’esigenza di coordinamento con l’impianto delle precedenti riforme”, avuto riguardo alla legge 9 gennaio 2019, n. 3, in materia di sospensione del termine di prescrizione nei giudizi di impugnazione, anch’essa applicabile ai reati commessi dal 1° gennaio 2020, “ma anche alla necessità di introdurre gradualmente nel sistema processuale un istituto così radicalmente innovativo, sicché ha la sua ragionevolezza la previsione di un periodo finalizzato a consentire un’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari”.
Anche di recente è stata ribadita la tesi della natura processuale dell’art. 344-bis c.p.p.[11] e sono state giudicate manifestamente irrilevanti le questioni di costituzionalità dell’art. 344 bis c.p.p.
4. I reati commessi fra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019. Correlata al tema trattato nel paragrafo precedente è la questione della disciplina applicabile ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, con il relativo problema dell’individuazione della disciplina più favorevole sotto il profilo del calcolo del termine di prescrizione.
La questione risulta affrontata approfonditamente in due recenti pronunce della Suprema Corte[12].
La legge 23 giugno 2017, n. 103 (cd. legge Orlando), applicabile ai fatti commessi a decorrere dal 3 agosto 2017, aveva – com’ è noto - modificato la previgente struttura dell'art. 159, comma 2, c.p.p., nonché introdotto la sospensione del corso della prescrizione: a) dal termine previsto dall'art. 544 c.p.p. per il deposito della sentenza di condanna di primo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo per un tempo, comunque, non superiore a un anno e sei mesi; b) dal termine previsto dall'art. 544 c.p.p. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi.
La norma era stata poi riformulata dall'art. 1, comma 1, lett. e) n. 1 della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. legge Bonafede) che aveva introdotto - a decorrere dal primo gennaio 2020 - la disposizione per cui il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado, o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna.
Tale disposizione è stata, infine, definitivamente abrogata dall'art. 2, comma 1, lett. a) della legge 27 settembre 2021, n. 134, che ha contestualmente introdotto l'art. 161-bis c.p. a norma del quale il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado.
La stessa legge ha introdotto, come detto, per i soli reati commessi a far data dal primo gennaio 2020 l'improcedibilità dell'azione penale.
Così ricostruito il quadro normativo, la S.C. ha osservato che, con riferimento alla diversa disciplina della prescrizione dettata dalla cd. legge Orlando e dalla c.d. legge Bonafede, il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo non può essere regolamentato dall'art. 2 c.p., posto che le leggi succedutesi contengono la previsione della loro applicabilità ai reati commessi a decorrere da una certa data; inoltre, in merito all’applicabilità dell'istituto della improcedibilità si è ritenuta - come detto innanzi - costituzionalmente legittima la scelta di limitare ai soli procedimenti relativi a reati commessi a far data dal primo gennaio 2020 l'improcedibilità delle impugnazioni per superamento del termine di durata massima del giudizio di legittimità.
La successione di leggi penali nel tempo, verificatasi con l'abrogazione da parte della Riforma Cartabia dell'art. 159, comma 2, c.p. così come introdotto dalla legge Orlando, e la speculare introduzione dell'art. 161-bis c. p. (che fa cessare il corso della prescrizione definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado) è, invece, disciplinato dall'art. 2 c.p., in carenza di previsione di un’espressa normazione speciale.
Pertanto - conclude la Corte - deve essere ritenuta disciplina più favorevole quella dettata dalla cd. legge Orlando per la quale, anche dopo la pronuncia della sentenza di primo e di secondo grado, decorre il termine di prescrizione, sia pure con periodi di sospensione.
Ne deriva, quindi, l'operatività di diversi regimi di prescrizione, da ritenersi applicabili in ragione della data del commesso reato e in particolare:
Il ricordato orientamento era già stato espresso da Cass. Pen., n. 2629/2024 ric. Falco, ove prendendo le mosse dalla natura sostanziale della prescrizione[13] si era precisato che il dies a quo di applicabilità dell'istituto della cessazione del corso della prescrizione, introdotto all'art. 161-bis, primo periodo, c.p., va individuato nel primo gennaio 2020 considerandone il rapporto di continuità normativa con l'omologa causa di sospensione legata alla sola pronuncia della sentenza di primo grado, prevista dall'art. 159, comma secondo, c.p. (disposizione introdotta dalla legge n. 3 del 2019 a far data appunto dal primo gennaio 2020).
A fronte, infatti, dell'impropria dizione normativa quale “causa di sospensione del corso della prescrizione” - in realtà destinato a non riprendere più nell'ulteriore prosieguo del procedimento - entrambi gli istituti contemplano una causa di blocco tendenzialmente definitivo (salva l'ipotesi dell'annullamento con rinvio) del decorso del tempo rilevante ai fini della prescrizione del reato.
Partendo, dunque, da tale premessa ermeneutica e dall’identità strutturale dei due istituti, si è ritenuto coerente affermare che l'istituto della cessazione del corso della prescrizione, previsto dall'art. 161-bis c.p., debba trovare applicazione non dalla data di entrata in vigore della legge in commento, bensì - al pari della omologa causa di sospensione - in relazione ai reati commessi dal primo gennaio 2020.
Pertanto: la disciplina della sospensione prevista dalla cd. legge Orlando è entrata in vigore in data 3 agosto 2017 ed è stata, successivamente, abrogata dalla legge n. 3/2019, in vigore dal primo gennaio 2020, a sua volta abrogata dalla I. n. 134/2021, il cui dies a quo è stato individuato, come detto, sempre nella data del primo gennaio 2020; il secondo comma dell'art. 159 c. p., nella versione della legge Orlando ha avuto, perciò, vigenza dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019; la disposizione in commento è certamente più favorevole di quelle successive che l'hanno abrogata, perché prevede un allungamento dei termini di prescrizione a fronte di una sua definitiva cessazione alla data della sentenza di primo grado.
Nello stesso senso si segnalano anche Cas. Pen., nn. 24579/2024 e 24231/2024.
Di contrario avviso un altro orientamento interpretativo, espresso tra le altre da Cass. Pen., n. 18873/2024 Rv. 286436-1 in base al quale “ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019 si applica, per il principio di retroattività della norma penale più favorevole, la disciplina prevista dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, che non prevedeva la causa di sospensione del corso della prescrizione durante il tempo di celebrazione del giudizio di appello e di cassazione, introdotta all'art. 159, comma secondo, c.p. dal disposto di cui all'art. 1, comma 11, lett. b), legge 23 giugno 2017, n. 103 e, poi, esplicitamente abrogata dall'art. 2, comma 1, lett. a), della legge 27 settembre 2021, n. 134, con conseguente "reviviscenza" del regime prescrizionale antecedente”.
Al riguardo osserva il Collegio che non è applicabile in tali casi la disposizione di cui all'art. 159 comma 2 c.p., come modificata dalla c.d. Legge Orlando, e non risultano pertanto applicabili le cause di sospensione del corso della prescrizione durante il tempo di celebrazione del giudizio di appello e quello di cassazione, per un massimo di anni uno e mesi sei per fase, per i reati commessi dopo il 3 agosto 2017.
Ciò perché l'art. 2 comma 1, lett. a) del citato decreto ha espressamente abrogato i commi 2 e 4 dell'art. 159 c.p. che prevedevano la ricordata causa di sospensione del corso della prescrizione, con la conseguenza che si è verificato un fenomeno di successione delle leggi nel tempo, regolato dall'art. 2 comma 4 c.p.: tale meccanismo comporta l'individuazione del regime di maggior favore per il reo ai sensi dell'art. 2 c. p. che, per principio consolidato, deve essere operata in concreto, comparando le diverse discipline sostanziali succedutesi nel tempo e dovendosi individuare la disciplina più favorevole previa comparazione dei due sistemi in astratto perché non è consentita l'applicazione simultanea di disposizioni diverse secondo il criterio della maggior convenienza per l'imputato, ma occorrendo invece applicare integralmente l'una o l'altra disciplina[14]
Tanto premesso, la Suprema Corte osserva che il richiamato articolo 2 comma 1 lett. a) è una norma posteriore più favorevole, proprio perché ha eliminato le cause di sospensione del corso della prescrizione introdotte dalla cd. Riforma Orlando, e si applica a tutti i processi in corso per reati commessi dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019.
Questa interpretazione non è contraddetta - conclude la Corte - dall’introduzione della causa di improcedibilità per superamento dei termini massimi di durata del processo, che opera esclusivamente per i reati commessi a far data dal primo gennaio 2020 e si correla logicamente proprio alla cessazione del corso della prescrizione per i giudizi di impugnazione relativi a tali fattispecie.
Ne consegue che si configura una “reviviscenza” del regime prescrizionale antecedente con applicazione, ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, per il principio di retroattività della norma penale più favorevole, la disciplina prevista dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251.
Il contrasto sinteticamente richiamato è stato rilevato e commentato nella relazione n. 23 del 9 luglio 2024 dell’Ufficio del Massimario, dove sono stati analizzati i ricordati orientamenti saggiando le implicazioni che ciascuna delle proposte ermeneutiche in esame può generare e osservando, fra l’altro, che le difficoltà nascono dal fatto che l’istituto dell’improcedibilità, connesso col nuovo assetto della prescrizione, appare assolutamente inedito: tale novità è, infatti, considerata da alcune pronunce come l’elemento di cesura, sintomatico della radicale abrogazione dell’istituto della sospensione della prescrizione e che viene, al contrario, in altre sentenze inserito nel percorso argomentativo che esclude letture atomistiche o parcellizzate del sistema giacché le leggi 3 del 2019 e 134 del 2021 disciplinano la medesima fattispecie.
In tale prospettiva emerge, infatti, il convincimento che l’interpretazione di natura sistematica imponga di considerare in maniera congiunta le innovazioni normative susseguitesi nel corso degli ultimi anni: l’introduzione della norma disciplinante la sospensione della prescrizione nella fase impugnatoria ha, infatti, costituito l’esito della corrispondente novella contenente la disciplina di carattere unitario della improcedibilità, decorrente dal primo gennaio 2020, come disposto dalla norma di diritto intertemporale prevista dalla legge del 2019.
Dunque, se è vero che si tratta di una disposizione finalizzata a stabilire la data di entrata in vigore delle norme in questione, lo è altrettanto che - inerendo le stesse alla disciplina della prescrizione ed essendo la prescrizione istituto di diritto sostanziale -non sembra improprio concludere che la modifica sostitutiva abbia interessato i soli reati commessi dalla data di entrata in vigore della legge, ossia dal primo gennaio 2020 in poi.
Di conseguenza, la disciplina della sospensione sine die della prescrizione, in quanto peggiorativa rispetto allo statuto normativo della prescrizione riferita a reati commessi in epoca precedente (anche nel periodo dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019) non si applicava ai reati commessi in epoca antecedente al primo gennaio 2020, con la correlativa applicazione a quest’ultimi del più favorevole regime anteriore.
A sua volta, tuttavia, la legge n. 134 ha disegnato un regime complessivamente qualificabile come mero favorevole rispetto a quello sortito dalle modifiche della cosiddetta legge Orlando, caratterizzato dalla cessazione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e dall’innesto dell’improcedibilità per le fasi impugnatorie.
Proprio considerata la portata interpretativa e tenuto conto delle rilevanti ricadute derivanti dall’adozione dell’una o dell’altra soluzione, con ordinanza del 15 luglio 2024 è stata rimessa alle Sezioni Unite la questione relativa all’applicabilità delle cause di sospensione della cd. legge Orlando ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, ovvero della radicale (e immediata) abrogazione di tale assetto in virtù della legge n. 134/2021.
L’udienza è stata fissata per il 12 dicembre 2024.
L’informazione provvisoria n. 19/2024 ha comunicato che le Sezioni Unite hanno risposto affermativamente al quesito se la disciplina della sospensione del corso della prescrizione di cui all’art. 159, commi secondo, terzo e quarto c.p., nel testo introdotto dalla legge n. 103/2017 continui ad essere applicabile - dopo l’introduzione dell’art. 2 comma 1 a) della legge n. 134/2021 - in relazione ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019.
Pertanto, nel calcolo dei termini di prescrizione rispetto a tali fattispecie dovrà tenersi conto dei periodi di sospensione decorrenti dal termine previsto dall’art. 544 c.p.p. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado e sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo, per un tempo non superiore ad un anno e sei mesi, nonché dell’ulteriore termine per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, fino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, anche in questo caso in misura non superiore ad un anno e sei mesi.
Al contrario, per i reati commessi dal primo gennaio 2020 trova applicazione la disciplina di cui alla legge n. 134/2021.
5. Proroga e sospensione. I termini di improcedibilità dell’azione possono essere, come anticipato, prorogati con ordinanza motivata dal giudice che procede, secondo la seguente articolazione:
Contro l’ordinanza che dispone la proroga l’imputato il suo difensore possono fare ricorso per cassazione entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notifica, alla pena di inammissibilità; il ricorso non ha effetto sospensivo.
La Cassazione decide con procedimento in camera di consiglio entro 30 giorni dalla ricezione degli atti e, in caso di rigetto o inammissibilità del ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza.
Si discute circa l’applicabilità del regime delle proroghe anche alle fattispecie disciplinate dalle disposizioni transitorie di cui ai commi 4 e 5 dell’articolo 2 della legge 134 del 2021, atteso che nella normativa transitoria non vi è un espresso richiamo alla proroga e alla sospensione: se parte della dottrina[15] propende per la tesi negativa stante il silenzio della legge, appare tuttavia preferibile aderire alla soluzione opposta ritenendo che il legislatore, nella disciplina transitoria, non ha inteso dettare una disciplina speciale ed esaustiva per i giudizi di impugnazione ivi indicati, ma soltanto regolamentare il modo secondo il quale calcolare il dies a quo e la durata dei termini nel regime transitorio, lasciando per il resto invariata la regolamentazione generale[16].
La norma in tema di proroga è stata criticata per la responsabilità cui si troverà esposto il giudice nel disporla e definirne la durata, nonché per il prevedibile aggravio di lavoro che deriverà alla cassazione davanti alla quale sono impugnabili le proroghe: chi ritiene queste critiche fondate[17] afferma che affidare ai giudici il potere-dovere di disporre le proroghe, data la vaghezza dei criteri cui è ancorato il suo esercizio, equivale a renderli arbitri della decisione se consentire o impedire la prosecuzione dell’azione penale, consegnando così alla giurisdizione scelte di politica criminale che non le competono.
Si evidenzia poi la seguente contraddizione: la fissazione di termini rigidi risulta inadeguata rispetto alle peculiarità del singolo processo ma, a sua volta, il potere di proroga affidato al giudice esorbita dalle sue tipiche funzioni per le ragioni innanzi citate.
Potrebbe poi verificarsi nella prassi che le proroghe siano governate da automatismi, ogni qual volta si palesi il rischio della declaratoria di improcedibilità, con possibili riflessi sulla responsabilità del giudice per la mancata definizione del processo con una sentenza di merito.
Altro tema interessante anche per i suoi riflessi sull’organizzazione degli uffici è quello se si possano tenere in considerazione, ai fini della proroga, anche le esigenze organizzative degli uffici giudiziari: la tesi maggioritaria è quella negativa giacché nella motivazione del provvedimento di proroga non possono assumere rilievo eventuali profili organizzativi relativi all’ufficio giudiziario, dal momento che la norma fa solo riferimento alla complessità del procedimento in sé e non già alle difficoltà incontrate dal giudice dell’impugnazione che non ritenga di riuscire a definire il giudizio nei termini ordinari[18].
Sul punto si è richiamata anche la pronuncia della Corte Costituzionale n. 140 del 2021, concernente la disciplina emergenziale della pandemia da COVID-19, con cui si è affermato che la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio (per prescrizione) deve essere sufficientemente preventivabile sulla base di elementi oggettivi, con la conseguente declaratoria di incostituzionalità dell’articolo 8 comma 9 del decreto-legge 12 del 2020 nella parte in cui demandava al capo dell’ufficio giudiziario di stabilire la sospensione o meno dei procedimenti e, conseguentemente, della prescrizione.
In senso contrario si è osservato[19] che - avuto riguardo alla natura processuale e alla ratio della disciplina dell’improcedibilità, funzionale a censurare solo colpevoli ritardi nella definizione del giudizio di impugnazione - non appare in via generale e in modo aprioristico da escludere la possibilità di ricorrere all’istituto della proroga valorizzando peculiari e straordinarie esigenze organizzative di alcuni uffici giudiziari, dovute alla necessità di gestire i ruoli in situazioni emergenziali o contingenti quali, ad esempio, quelle determinate dalla sopravvenienza di un elevato numero di impugnazioni aventi carattere di complessità.
In tal senso depone l’oggettivo stato di difficoltà in cui operano molte Corti di appello né può trascurarsi che l’istituto dell’improcedibilità deve confrontarsi, come si vedrà, anche con i criteri di priorità nella trattazione dei processi penali, sicché pare in linea con la ratio della riforma una lettura che non escluda aprioristicamente il ricorso all’istituto della proroga laddove si renda necessario tenere in considerazione anche parametri riferiti, ad esempio, a straordinari dati qualitativi e quantitativi delle sopravvenienze, ai fenomeni criminali che caratterizzano alcuni territori nonché alla contingente indisponibilità di risorse umane, materiali e tecnologiche degli uffici.
Peraltro, chiaramente tale lettura interpretativa non può avallare prassi lassiste e di disorganizzazione, non potendosi far gravare sull’imputato criticità organizzative dell’ufficio “patologiche” o non strettamente correlate sempre alla complessità nella definizione di quello specifico giudizio di impugnazione; né si può trascurare che il regime transitorio è stato costruito proprio per consentire un graduale riassetto del sistema e contemperare le misure di accelerazione del processo penale con le esigenze organizzative degli uffici giudiziari.
Il tema della proroga si incrocia con i profili organizzativi in riferimento al momento nel quale disporre tale atto (la legge non specifica se di ufficio o su richiesta della Procura Generale), vale a dire se immediatamente, in fase di fissazione del processo, ovvero anche nel corso dello stesso, qualora si concretizzi il rischio di scadenza del termine di improcedibilità: in generale sul punto si è osservato, da parte di taluni, che gli indici di complessità possono dipendere dalla valutazione, ad esempio, della proposizione dei motivi di impugnazione su questioni processuali la cui fondatezza (e il cui presumibile accoglimento) potrebbe determinare l’inutilità di affrontare gli altri motivi[20].
Di contro vi è chi sostiene che, per non sovrapporre indebitamente la prognosi sull’esito del giudizio alla valutazione in ordine alla sua complessità sembra opportuno che tale ultimo aspetto vada considerato solo in relazione alle questioni devolute all’esame del giudice dell’impugnazione, prescindendo dalla loro potenziale fondatezza come pure dai profili di inammissibilità che, in astratto, potrebbero rendere non necessario l’esame del merito di motivi di impugnazione[21].
Tuttavia, a giudizio di chi scrive, pare irragionevole una valutazione di complessità parametrata solo agli indici elencati (in modo non tassativo, ma verosimilmente esemplificativo) nella norma senza considerare ad esempio che, sebbene nell’ impugnazione siano proposte questioni di particolare complessità, il possibile accoglimento di un motivo relativo a una nullità assoluta e insanabile renderebbe superfluo l’esame di quei motivi di gravame, caratterizzati da complessità, e conseguentemente renderebbe superflua ogni proroga.
Sotto altro profilo, è evidente che la discrezionalità attribuita al giudice non può che trovare un adeguato sistema di controllo nell’obbligo di motivazione del provvedimento di proroga; i criteri di complessità indicati nella norma vanno, infatti, riempiti concreto significato in relazione al singolo giudizio di impugnazione mediante una motivazione che dia conto, in modo puntuale e articolato, dei fattori che hanno legittimato l’esercizio del potere da parte del giudice che procede.
Per questi motivi, è essenziale l’introduzione dei moduli organizzativi che scongiurino proroghe “automatiche”, prive di motivazioni idonee a mettere in rilievo la sussistenza – nel singolo caso - dei presupposti in base alle peculiarità del giudizio di impugnazione.
La norma conferisce tale potere al “giudice che procede”, da identificarsi nel giudice che è investito del giudizio di impugnazione: in concreto, il Presidente di Sezione è il soggetto competente per la formazione e la gestione dei ruoli e colui che può apprezzare se un determinato giudizio, in considerazione della sua complessità, possa o meno essere definito nel termine ordinario ovvero richieda il ricorso all’istituto della proroga; in questo senso utile appare il coordinamento con i funzionari uffici del processo che procedono alla compilazione delle schede che monitorarono i termini di prescrizione e improcedibilità.
Sotto altro profilo, si è osservato[22]che all’introduzione di un articolata disciplina in tema di proroga del termine di durata dei giudizi di impugnazione non ha fatto seguito alcuna modifica del corrispondente piano della durata di fase delle misure cautelari, in particolare con riguardo a quelli dettati dall’art. 303, lett. c) e lett. d), c.p.p.
Si tratta di una scelta che non pare esser frutto di un mancato coordinamento normativo, bensì connaturata al fatto che i termini di fase sono parametrati sull’individuazione di un termine variabile, che prende come riferimento la data pronuncia della sentenza in grado di appello (lett.c) o in cassazione e l’entità della sanzione inflitta nel singolo caso.
In teoria, si sarebbe potuta ipotizzare l’introduzione di motivi di proroga dei termini della custodia cautelare parametrati alla complessità del procedimento comportante la proroga dei termini per la definizione; il fatto che non si sia ritenuto di instaurare una diretta connessione tra tali aspetti, tuttavia, non determina problematiche applicative sul piano astratto proprio perché la durata della misura cautelare ed il decorso del termine per l’improcedibilità operano su piani distinti.
Peraltro, come già visto, l’interferenza tra i due piani si dispiegherà sotto il profilo della fissazione e trattazione prioritaria dei procedimenti con imputati detenuti rispetto a quelli soggetti al regime dell’improcedibilità, anche perché solo per questi ultimi, come visto, è possibile un articolato regime di proroghe e sospensioni in grado di dilatare i tempi del giudizio molto più a lungo rispetto ai termini massimi di custodia cautelare.
Infine, va evidenziato che comunque la riforma del 2021 ha stabilito che, nei casi in cui sia imminente la scadenza del termine di prescrizione del reato o il decorso del termine di improcedibilità di cui all’articolo 344-bis oppure sia in corso di applicazione una misura cautelare, oppure in presenza di altre gravi situazioni l’autorità giudiziaria possa disporre che la notificazione all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione a giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601 c.p.p., nonché del decreto penale di condanna sia eseguita dalla polizia giudiziaria.
La legge prevede poi la sospensione dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo:
La sospensione opera per tutti gli imputati nei confronti si sta procedendo, tra la data in cui l’autorità giudiziaria dispone nuove ricerche e la data in cui la notifica viene effettuata.
In caso di annullamento da parte della Corte di cassazione con rinvio alla Corte d’appello, i termini di durata massima decorrono nuovamente dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della motivazione della sentenza di annullamento; anche nel giudizio di rinvio in termini sono prorogabili e soggetti a sospensione ed è espressamente fatta salva la disciplina relativa alla formazione parziale del giudicato di cui all’articolo 624 del codice di rito.
Sotto il profilo organizzativo, viene in rilievo la particolare ipotesi di sospensione specificamente prevista per il giudizio di appello “per il tempo occorrente alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale”, nella parte in cui si stabilisce che il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere i 60 giorni.
In proposito si osserva che la norma non chiarisce se la rinnovazione debba esaurirsi necessariamente in un’unica udienza, da celebrare entro 60 giorni, ovvero se possa prevedersi una pluralità di udienze in presenza di complesse attività istruttorie.
Taluni autori[23] sostengono che sarebbe vietato il differimento da un’udienza all’altra per un tempo superiore a quello di 60 giorni complessivamente considerato e che, nel caso in cui la rinnovazione richieda più udienze, la somma dei diversi periodi di rinvio tra un’udienza e l’altra non potrebbe superare i 60 giorni, con la precisazione che qualora tale limite venisse superato l’intero periodo in sovrappiù andrebbe computato nel termine di durata del termine massimo, non potendosi più ritenere operante la sospensione di cui al ricordato comma 6.
Altri [24] più condivisibilmente ritengono che tale interpretazione non sia in linea con il dato testuale della norma: muovendo dal presupposto che il termine di 60 giorni è riferito non ai tempi della rinnovazione istruttoria in quanto tale, bensì all’intervallo tra le udienze a ciò dedicate, nulla impedisce di ritenere che la sospensione debba ritenersi operante per tutto il periodo necessario a terminare gli adempimenti istruttori, sempre che gli intervalli tra le singole udienze siano contenuti nel predetto limite di 60 giorni (in tal senso anche la relazione dell’Ufficio del massimario, cit., pag. 32).
È peraltro indiscutibile che quest’ultima interpretazione possa incidere in modo rilevante sui tempi di definizione del giudizio di impugnazione - dilatati senza un limite massimo a differenza di ciò che avviene per la proroga - ove la Corte d’appello ritenga necessario disporre complessi accertamenti istruttori.
6. Forma e natura del provvedimento. La legge non indica espressamente quale sia la forma dell'atto con cui la declaratoria di improcedibilità è adottata, se cioè si tratti di un'ordinanza oppure di una sentenza: la distinzione, tuttavia, non è semplicemente accademica e la questione, lungi dal rimanere confinata al piano puramente terminologico, può avere delle ricadute significative in concreto giacchè, ad esempio, ai sensi dell’art. 125 c.p.p. “la sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano” e presenta una serie di requisiti formali e contenutistici idonei a condizionarne - in taluni casi - persino la stessa validità.
Ciò premesso, se è vero che il comma 1 del citato art. 125 assegna alla legge il compito di definire la forma dei provvedimenti del giudice (“la legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto”) lo è altrettanto che, qualora essa non lo faccia in modo esplicito, tocca al giudice stabilirla, qualora ciò sia necessario ai fini della decisione che è chiamato ad adottare.
Nel caso di specie, giova evidenziare che l’ordinanza si presenta come una tipologia di provvedimento idonea, per sua natura, a risolvere questioni incidentali nell’ambito del procedimento e tendenzialmente priva di decisioni di merito (si veda, ad esempio, l’ordinanza che ex art. 491 c.p.p. decide sulle questioni preliminari); essa è, poi, di regola revocabile da parte del giudice che l’ha emessa configurandosi come uno “strumento” interlocutorio che non esaurisce il rapporto processuale.
Infine, ai sensi dell’art. 586 c.p.p., le ordinanze rese nel corso del dibattimento o degli atti ad esso preliminari devono essere, a pena di inammissibilità, impugnate unitamente alla sentenza di primo grado e tale impugnazione “è giudicata congiuntamente a quella contro la sentenza, salvo che la legge disponga diversamente”.
Al contrario, la sentenza è il provvedimento con cui il giudice definisce il grado del giudizio (salve le eccezioni specificamente previste dalla legge, come ad esempio i decreti penali di condanna, ovvero le ordinanze emesse nei procedimenti incidentali di riesame ed appello cautelare) ed essa si appalesa, quindi, come l’atto idoneo a “chiudere” il grado in via definitiva, salvo ovviamente lo spazio previsto per i rimedi impugnatori.
Va anche detto che la legge in commento laddove ha ritenuto che il giudice dovesse provvedere con ordinanza l’ha indicato esplicitamente, come ad esempio nell’art. 578 ter c.p.p.[25], considerando evidentemente in qualche modo sottinteso che l’improcedibilità, per la sua particolare natura impeditiva della prosecuzione ulteriore del giudizio, dovesse essere pronunciata con sentenza.
D’altro canto, nella Relazione illustrativa della riforma, pur senza chiarire in modo espresso la natura del provvedimento con il quale si dichiara l’improcedibilità, si afferma che richiamata pronunzia ha carattere processuale e, come tale, “impedisce di proseguire nell’esame del merito e di giungere a una condanna definitiva, caducando la precedente pronuncia”; essa quindi, ad esempio, preclude l’applicazione della confisca che - com’è noto - presuppone invece una “condanna”.
Né potrebbe ricorrersi - si precisa - ad un’estensione della differente disciplina prevista dall’art. 578 bis c.p.p. nel caso di estinzione del reato per prescrizione “poiché il superamento dei termini massimi previsti per il giudizio di impugnazione è uno sbarramento processuale che impedisce qualsivoglia prosecuzione del giudizio, anche solo finalizzata all’accertamento della responsabilità da un punto di vista sostanziale e svincolato dalla forma assunta dal provvedimento”[26].
Per tale ragione e considerata la natura della fattispecie in esame, sistematicamente collocata tra le condizioni di procedibilità e costruita quale strumento di estinzione o cessazione dell’azione penale, sembra non possa dubitarsi del fatto che essa vada dichiarata con sentenza, trattandosi di un evento (il vano decorso dei termini in mancanza di definizione del giudizio di gravame) tale da “chiudere” il relativo grado in modo tendenzialmente definitivo, fatta salva la possibilità di esperire i rimedi previsti dall’ordinamento.
Del resto, anche in ordine alle altre ipotesi di difetto di una condizione di procedibilità (qui si sarebbe in presenza, in sostanza, di un sopravvenuto difetto determinato dall’inutile decorso dei termini) il codice di rito stabilisce che esso venga accertato e dichiarato mediante un provvedimento in forma di sentenza di proscioglimento o non luogo a procedere, come testualmente previsto dall’art. 345 in riferimento, ad esempio, alla mancanza di querela ovvero di autorizzazione a procedere.
Non osta a tale conclusione il riferimento in detto articolo al decreto di archiviazione, strumento a tutta evidenza non attinente al tipo di giudizio in esame in quanto tipicamente emesso allo stato degli atti, di natura endoprocedimentale, non irrevocabile e al quale può sempre seguire l’eventuale riapertura delle indagini[27], ipotesi questa impossibile nel caso di specie stante il venir meno dell’azione penale stessa.
Quanto alla formula da utilizzare, potrebbe soccorre la lettera dell’art. 578 ter c.p.p. nella parte in cui stabilisce che “il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344-bis, dispongono la confisca nei casi in cui la legge la prevede obbligatoriamente anche quando non è stata pronunciata condanna”: pertanto, il giudice dell’impugnazione, accertato il vano decorso del termine di legge, dovrà dichiarare “l’azione penale improcedibile”.
Proprio in questi termini è, infatti, il dispositivo di una delle prime sentenze di legittimità in tema di improcedibilità in cui, dopo aver fissato udienza e quindi avendo integrato il contraddittorio e raccolto le conclusioni delle parti, la Suprema Corte ha “dichiarato improcedibile l’azione penale” a fronte di un ricorso del Procuratore Generale che aveva sostenuto l’erroneità della decisione della Corte di appello nella parte in cui aveva dichiarato estinta per intervenuta oblazione una contravvenzione senza motivare in ordine alla gravità del fatto[28].
Aderendo alla soluzione secondo la quale l’improcedibilità debba essere dichiarata con sentenza, non può non porsi l’ulteriore quesito se debba trattarsi di un provvedimento emesso all’esito dello svolgimento dell’udienza e nel pieno dispiegarsi del contraddittorio, ovvero se sia possibile operare anche mediante le sentenze cd. predibattimentali, pronunciate cioè in camera di consiglio e senza la previa fissazione di un’udienza.
In tema di prescrizione, è noto che le Sezioni Unite della Suprema Corte[29] hanno affermato il principio in base al quale al giudice di appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell’articolo 469 del codice di rito “in quanto il combinato disposto degli articoli 598,599 e 601 CPP non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, a tale disciplina né la pronuncia predibattimentale può essere ammessa ai sensi dell’articolo 129 comma 1 poiché l’obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone l’esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio”; resta ferma peraltro la possibilità, per la cassazione, “di prosciogliere nel merito l’imputato ex articolo 129 comma 2 del codice di rito sempre che risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato”.
Tuttavia, non poteva comunque riconoscersi all’imputato l’interesse al ricorso in cassazione ove con detta sentenza, emessa appunto de plano, fosse stata dichiarata - in riforma della condanna di primo grado - l’estinzione del reato per prescrizione; ciò per la prevalenza della causa estintiva del reato sulla nullità assoluta e insanabile della sentenza pronunciata in violazione del contraddittorio e dato che il giudice di appello, cui avrebbero dovuto essere restituiti gli atti, non avrebbe potuto fare altro che dichiarare nuovamente la prescrizione.
Sul delineato tessuto ermeneutico si è innestata, più recentemente, la Consulta con la sentenza n. 111/2022, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 568 comma 4 c.p.p. in quanto interpretato nel senso che è inammissibile, per carenza di interesse a impugnare, il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di appello che, in fase predibattimentale e senza alcuna forma di contraddittorio, abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.
A seguito di tale pronuncia la giurisprudenza di legittimità, preso atto del mutato quadro normativo derivante dall’intervento della Corte costituzionale, ha ritenuto caratterizzate da violazione di legge le sentenze di appello che avessero - preliminarmente e senza il contraddittorio delle parti sul punto - dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione disponendone, quindi, l’annullamento finalizzato all’instaurazione del contraddittorio; peraltro, si è trattato di casi in cui il ricorso era stato proposto dall’imputato che invocava l’assoluzione nel merito[30].
Non vi è dubbio, pertanto, che una sentenza predibattimentale che dichiari, fuori dal contraddittorio, l’estinzione del reato per prescrizione possa essere oggetto di ricorso da parte dell’imputato il quale abbia interesse ad ottenere una pronuncia liberatoria nel merito.
Più controversa è, invece, la praticabilità del rimedio di legittimità per la parte pubblica.
In talune sentenze[31] si è, infatti, sostenuto che anche il Procuratore Generale oltre all’imputato è, a seguito dell’intervento del Giudice delle leggi, in astratto legittimato a ricorrere avverso la sentenza di appello che abbia, in sede predibattimentale e in assenza di contraddittorio, dichiarato la prescrizione.
Tuttavia, in quel caso specifico il ricorso della parte pubblica è stato dichiarato inammissibile per difetto di un concreto interesse a ricorrere, comunque indispensabile ai sensi dell’articolo 578 CPP, non essendo sufficiente “la mera pretesa preordinata all’astratta osservanza della legge e alla correttezza giuridica della decisione essendo invece necessario che sia comunque dedotto un pregiudizio concreto e suscettibile di essere eliminato dalla riforma dall’annullamento della decisione impugnata” mentre nella fattispecie il ricorrente non aveva contestato il decorso della prescrizione né evidenziato elementi dai quali potesse prospettarsi l’assoluzione nel merito dell’imputato (non ricorrente).
È stata tratta, quindi, applicazione del principio in base al quale si è ritenuto sussistente “l’interesse pubblico ministero a ricorrere per cassazione avverso la sentenza dichiarativa di un causa di estinzione del reato pronunciata sulla base di un’errata applicazione della legge sostanziale, seppure all’accoglimento debba ugualmente seguire la dichiarazione della medesima causa di estinzione del reato, maturata dopo la sentenza di primo grado, poiché l’affermazione del corretto principio di diritto e la corretta applicazione della legge sostanziale costituiscono per l’organo della pubblica accusa un interesse concreto e attuale”[32], mentre nel caso di specie la parte ricorrente non aveva dedotto alcun concreto pregiudizio derivante dalla pur sussistente violazione della sanzione procedimentale nel giudizio di appello.
Di contrario avviso altro un orientamento interpretativo[33] in base al quale il Procuratore Generale presso la Corte di appello non ha interesse ad impugnare la sentenza predibattimentale, emessa dal giudice di appello inaudita altera parte, con cui sia stato dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato per intervenuta prescrizione del reato atteso che la Corte costituzionale, con la richiamata sentenza n. 111 del 2022, ha affermato che - in tal caso - l'interesse ad impugnare sussiste solo per quest'ultimo, limitando la soppressione di un grado di giudizio l'emersione di eventuali ragioni di proscioglimento nel merito.
Si è lì affermato che pronuncia del Giudice delle leggi, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 568, comma 4 c.p.p., ha affermato che “la soppressione di un grado di giudizio...limita l'emersione di eventuali ragioni di proscioglimento nel merito e, di fatto, comprime la stessa facoltà dell'imputato di rinunciare alla prescrizione, in maniera non più recuperabile nel giudizio di legittimità, la cui cognizione è fisiologicamente più limitata rispetto a quella del giudice di merito”.
È dunque evidente - si conclude - che soltanto l'imputato ha interesse ad impugnare una sentenza a seguito di udienza predibattimentale che, senza alcun contraddittorio abbia dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ma non il Pubblico Ministero; del resto, con l'ordinanza di rimessione si chiedeva alla Corte Costituzionale di valutare la costituzionalità dell'art. 568 comma 4 c.p.p. nella parte in cui consentiva alla Corte di Cassazione investita da rituale ricorso dell'imputato (e non del Pubblico Ministero), di dichiarare l'inammissibilità dello stesso per carenza d'interesse e non prevedeva, invece, la declaratoria di annullamento della sentenza impugnata, con trasmissione degli atti alla Corte di appello per il giudizio nel contraddittorio delle parti.
A questo punto occorre domandarsi se tali regole e tali principi possano estendersi automaticamente anche ad eventuali sentenze dichiarative dell’improcedibilità in forma predibattimentale, ovvero senza udienza e senza contraddittorio; il problema è ancor più rilevante dato che è del tutto ragionevole ipotizzare che tale tipologia di provvedimenti (come del resto le sentenze predibattimentali di prescrizione) sarà largamente utilizzata soprattutto dalle Corti di appello anche al fine di evitare adempimenti per le cancellerie sostanzialmente poco utili nonché lo svolgimento di udienze che, di fatto e verosimilmente, si tradurranno nella semplice presa d’atto del decorso del termine.
Invero, l’ipotesi di ricorso dell’imputato (che evidentemente miri ad una pronuncia ampiamente liberatoria) a fronte di una sentenza di improcedibilità appare piuttosto remota in primo luogo perché potrebbe, in quel caso, porsi il problema della mancata richiesta da parte di costui - pur espressamente consentita dal sistema - di prosecuzione del giudizio nonostante il maturare dell’improcedibilità essendo evidente che, nel caso in cui l’imputato chieda che il processo continui, il dibattimento si dispiegherà nella sua pienezza e secondo le regole ordinarie di valutazione della responsabilità penale.
D’altro canto, non può non evidenziarsi come il tema involga i complessi rapporti, che saranno di seguito esaminati, tra improcedibilità e cause di proscioglimento nel merito, dovendosi comprendere quali margini siano riconosciuti al giudice di legittimità nel valutare i profili di cui all’art. 129 c.p.p. a fronte di un’azione penale improcedibile per superamento dei termini.
Tornando al tema principale, se per un verso è sicuramente condivisibile ritenere i principi testé enucleati dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale come generali e connaturati al nostro sistema penale sotto il profilo del rigoroso rispetto del contraddittorio e della valenza dell’interesse alla corretta applicazione della legge, lo è altrettanto che appare improprio equiparare tout court la disciplina ricostruita per l’istituto della prescrizione a quella, del tutto inedita, dell’improcedibilità: come ricordato nella Relazione introduttiva, infatti, nell’un caso si è in presenza di una causa estintiva del reato, fenomeno attinente al merito del processo, mentre nell’altro trattasi di un istituto di natura chiaramente processuale che si configura come causa impediente della prosecuzione del giudizio.
7. I rapporti tra improcedibilità e prescrizione. Connesso al tema che precede è quello che riguarda i rapporti tra prescrizione e improcedibilità.
Prescrizione e improcedibilità appaiono, invero, entrambi presidi di rilevanza costituzionale del diritto ad un giusto processo di durata ragionevole, inteso quale strumento per garantire l’effettività di tutti diritti processuale dell’imputato e del finalismo rieducativo della pena[34]; peraltro, mentre l’improcedibilità sanziona i ritardi addebitabili al singolo giudice dell’impugnazione, invece la prescrizione del reato deriva dall’effetto del cumulo dei ritardi maturati nei diversi stati grandi del procedimento.
Inoltre, la prescrizione comporta l’estinzione del reato sul piano più specificamente sostanziale, mentre l’improcedibilità estingue non il reato ma l’azione penale in modo che la natura processuale della norma comporta l’operatività del principio tempus regit actum e la conseguente inapplicabilità retroattiva della disposizione richiamata, fatta salva la diversa disposizione normativa parzialmente derogatoria di cui all’articolo 2 commi 3 e seguenti della legge 134 del 2021[35].
Ne consegue che la possibilità di incroci o sovrapposizioni tra i due istituti è più teorica che pratica in quanto se un reato commesso prima del 1 gennaio 2020 arriva a prescriversi nelle more dell’appello, o si è prescritto già nel primo grado di giudizio, non sarà possibile dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale; nel caso in cui nel giudizio di impugnazione maturi termine di prescrizione del reato (sempre per reati anteriori al 1 gennaio 2020) sarà tale causa di estinzione ad operare e ad essere applicata essendo evidente che l’irragionevolezza della durata del processo riguarda in questi casi la fase di primo grado di giudizio e non quella del giudizio di impugnazione, rispetto alla quale il termine di durata massima potrebbe anche essere stato rispettato.
In caso di concorso delle due case di proscioglimento si è sostenuto[36] che verrà in rilievo comunque prima l’estinzione del reato per prescrizione dell’improcedibilità in quanto la declaratoria di improcedibilità, perché relativa al successivo grado di gravame, potrebbe essere dichiarata soltanto nel caso in cui manchi la richiesta di proseguire il giudizio da parte dell’imputato; la rinuncia alla prescrizione ne impedirebbe, insomma, l’applicazione contenendo l’espressione della volontà dell’imputato di proseguire nel processo, nonostante l’eventuale decorso del termine massimo di gravame, al fine di ottenere una pronuncia di merito sull’impugnazione, senza che abbia rilievo a quel punto la violazione del termine di durata massima del processo in appello o in cassazione.
Se invece vi fossero, nel giudizio di gravame, la richiesta di proseguire nel processo e la rinuncia alla prescrizione, il giudice dell’appello dovrebbe decidere nel merito l’impugnazione, non potendo emettere una pronuncia di improcedibilità.
Tale autore conclude osservando che non appare corretto sostenere che vi sia sovrapponibilità o coincidenza tra l’operatività della prescrizione e della improcedibilità: infatti, l’improcedibilità potrà applicarsi solo quando il termine massimo di prescrizione del reato (specialmente quelli commessi prima del 1 gennaio 2020) non è ancora spirato e l’improcedibilità dell’azione penale per superamento del termine di durata massima dell’impugnazione potrà venire in rilievo solo se il reato non sia stato, precedentemente, dichiarato prescritto ai sensi degli articoli 157 e 161 del codice penale; senza contare che l’improcedibilità dell’azione penale riguarda solo il giudizio di impugnazione e dunque è destinata ad applicarsi esclusivamente in tale ambito, con esclusione del primo grado di giudizio.
In concreto e sul piano organizzativo, si tratterà di bilanciare le esigenze imposte dal PNRR e dalla legislazione vigente e, quindi, da una parte impiegare gli addetti all’UPP alla redazione delle (più semplici e seriali) sentenze predibattimentali - che nella stragrande maggioranza dei casi non sono state e non saranno oggetto di ricorso per cassazione - e dall’altra impiegarli anche per la stesura di motivazioni semplificate, oggetto di modellizzazione nei termini innanzi indicati, in riferimento a processi suscettibili a rischio di improcedibilità.
In entrambi i casi e su entrambi i versanti, la loro collaborazione per lo smaltimento dell’arretrato e l’abbattimento del disposition time appare, comunque, assolutamente importante.
8. I rapporti tra improcedibilità e inammissibilità dell’impugnazione. Un altro profilo rilevante sia per quanto attiene al tema della improcedibilità e del rispetto dei relativi termini che sotto il profilo strettamente organizzativo, trattandosi di tematiche che riguardano il vaglio preliminare sui fascicoli pervenuti al giudice dell’impugnazione e la loro successiva trattazione (o meno) in udienza, è quello relativo ai rapporti tra improcedibilità e inammissibilità dell’impugnazione, da analizzare sia in generale che con particolare riferimento ai molteplici casi di inammissibilità disciplinati oggi dalla legge 150 del 2022.
Invero, la novella ha introdotto significative innovazioni all’articolo 581 codice di procedura penale in tema di forma dell’impugnazione, al fine di semplificare e modernizzare le procedure di fissazione di udienza e di instaurazione del contraddittorio, nonché di creare una sorta di filtro rispetto ad appelli generici o dettati da intenti meramente dilatori.
Ciò tenendo conto che comunque, secondo le disposizioni transitorie dettate dall’articolo 89 del decreto legislativo citato, le norme di cui ai commi 1 ter e 1 quater dell’articolo 581 potranno trovare applicazione solo per impugnazioni proposte avverso sentenze pronunciate in data successiva a quella dell’entrata in vigore del decreto legislativo 150 del 2022.
In quest’ottica vanno letti la necessaria indicazione del domicilio ai fini delle notifiche, l’obbligo per il difensore dell’imputato giudicato in absentia in primo grado di munirsi di uno specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o elezione di domicilio per il giudizio, ai fini della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione (anche questo adempimento è previsto a pena di inammissibilità), il necessario deposito telematico dell’atto di impugnazione che costituisce modalità di presentazione esclusiva per la difesa tecnica, anch’essa prevista la pena di inammissibilità dall’articolo 582 comma 1 bis del codice di rito, l’individuazione della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato come unico luogo deputato alla ricezione dell’impugnazione, presso il quale devono essere depositate a pena di inammissibilità sia le impugnazioni inviate modalità telematica quanto quelle presentate personalmente, ove possibile, dall’imputato e dalle parti private.
Con l’abrogazione del previgente comma 2 dell’articolo 582 e dell’intero articolo 583 del codice di rito non sono infatti più consentiti, comportando pertanto l’inammissibilità dell’impugnazione, la presentazione del gravame presso la cancelleria del Tribunale o del Giudice di pace ove si trovano le parti se luogo diverso da quello ove ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento, ovvero davanti all’agente consolare all’estero, così come la spedizione dell’impugnazione con telegramma o raccomandata.
Sempre in riferimento al tema della inammissibilità, giova rilevare che con il decreto legislativo 150/2022 è stata introdotta al comma 1 bis dell’articolo 581 del codice di rito una nuova disposizione in tema di specificità dei motivi con particolare riferimento al giudizio di appello che, a differenza del ricorso in cassazione (subordinato ristretti limiti previsti dall’articolo 606 del codice di procedura penale), è un mezzo di impugnazione acritica libera e senza particolari filtri; in specie, la disposizione prevede che “l’appello è inammissibile per mancanza di specificità di motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espressi nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce impugnazione”.
La riforma ha codificato il principio espresso nella nota sentenza delle Sezioni Unite Galtelli in base al quale l’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultino esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato[37].
Invero, già con la legge 103 del 2017 il legislatore aveva trasfuso nel codice il citato principio comminando la sanzione della inammissibilità in caso di inosservanza del requisito della specificità dei motivi; con la disposizione del 2022 viene imposta all’appellante oltre all’enunciazione specifica dei motivi, già prevista dall’articolo 581 comma 1 c.p.p., anche l’illustrazione puntuale ed esplicita delle censure mosse all’apparato motivazionale del provvedimento impugnato, in fatto o in diritto.
Altre ipotesi di inammissibilità riguardano ovviamente la tardività dell’impugnazione, che non consente di ritenere correttamente instaurato il rapporto processuale, e la manifesta infondatezza che riguarda specificamente (sia pur non prevista dal codice, ma creata dalla giurisprudenza) del ricorso in cassazione: nel primo caso, non vi è dubbio che l’articolo 648 del codice di procedura penale in relazione all’impugnazione proposta fuori termine implica il passaggio in giudicato del provvedimento tardivamente impugnato, con la conseguenza che il giudicato, in tali evenienze, non permette la declaratoria di improcedibilità.
Il tema dei rapporti tra inammissibilità e improcedibilità non è di poco momento, giacché la prima fa diventare irrevocabile ed eseguibile la decisione impugnata, e la questione si prospetta nel caso in cui il giudice debba dichiarare l’improcedibilità essendo scaduti i tempi del giudizio pur a fronte di un’impugnazione inammissibile, nonché nel caso in cui l’inammissibilità sia pronunciata prima della scadenza dei termini e la relativa decisione venga impugnata.
Invero, rispetto ad un istituto che non configura una causa di estinzione del reato ma – come visto – un meccanismo acceleratorio nello svolgimento dei processi di impugnazione al fine di assicurarne la ragionevole durata, si pone il nodo cruciale (avente riflessi anche organizzativi in merito al lavoro delle Corti) dei rapporti tra la nuova categoria dell’improcedibilità e quella tradizionale dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione.
Il dubbio che si pone è se debba prevalere l’inammissibilità, anche in presenza di termini di improcedibilità ormai maturati, oppure se debba prevalere l’improcedibilità sull’inammissibilità nel rilievo che proprio la tardiva verifica del vizio giustifichi la priorità del proscioglimento dell’imputato a tutela della ragionevole durata processuale; tale ultima soluzione avrebbe indiscutibili effetti vantaggiosi per l’imputato, che non subirebbe gli effetti della sentenza di condanna malgrado difettino i requisiti di validità dell’atto di impugnazione presentato contro di essa, al limite per manifesta infondatezza dei motivi alla base del ricorso di legittimità.
Come analiticamente esposto nell’ampia trattazione contenuta nella Relazione n. 12/2023 dell’Ufficio del Massimario (pagg.22 e seguenti) cui si rinvia, la soluzione che fa prevalere l’improcedibilità sull’inammissibilità considera che il decorso del tempo definisca lo spazio decisorio del giudice, esaurito il quale non gli residuerebbe nessun potere deliberativo, mentre, nel caso in cui si acceda alla tesi opposta della prevalenza della declaratoria di inammissibilità su quella di improcedibilità, quest’ultima decisione - se presa in grado di appello - sarà suscettibile di impugnazione, come invece per l’ipotesi opposta sarà impugnabile la sentenza di improcedibilità che non abbia dichiarato l’inammissibilità.
Ovviamente il problema potrebbe porsi in modo meno importante dal punto di vista fattuale grazie al regime transitorio che prevede tempi più lunghi per lo smaltimento dei giudizi di impugnazione presentati fino al 2024, nonché grazie al vaglio preliminare di ammissibilità stabilito, in modo strutturale con un ufficio ad hoc, in cassazione.
A giudizio di taluni[38] prevedere che la violazione del termine di durata massima rilevata in sede di legittimità, e non oggetto di rinuncia da parte dell’imputato, possa essere dichiarata anche quando il ricorso sia inammissibile perché manifestamente infondato significherebbe estendere notevolmente l’area della non punibilità ed evitare l’assoggettamento dell’imputato alla pena che gli è stata comunque inflitta nei gradi di merito; se si opta per la natura processuale dell’istituto dell’improcedibilità, la risposta dovrebbe essere negativa in quanto l’inammissibilità originaria dell’impugnazione per manifesta infondatezza - non consentendo la valida instaurazione del rapporto processuale nel giudizio di gravame - impedisce di rilevare e dichiarare l’improcedibilità ai sensi dell’articolo 334 bis del codice di procedura penale.
Invero, la soluzione che fa prevalere l’improcedibilità sulla inammissibilità ritiene che il decorso del tempo delimiti lo spazio di decisione del giudice, esaurito il quale non gli rimarrebbe nessun potere deliberativo; ciò sarebbe confermato dal fatto che nell’articolo 344 bis non si fa alcun riferimento alla natura o alle caratteristiche dell’atto di impugnazione; in senso contrario si osserva[39] che l’inammissibilità costituisce un prius rispetto alla declaratoria di improcedibilità e che comunque al giudice vanno riconosciuti alcuni poteri non esauritisi con il passare del tempo assegnatogli.
La Suprema Corte nell’ordinanza del 19 novembre 2021 n. 43883 è intervenuta anche sui rapporti tra inammissibilità dell’impugnazione e improcedibilità affermando la prevalenza della prima sulla seconda e osservando che “la proposizione di un ricorso inammissibile non consente la costituzione di valido avvio della corrispondente fase processuale e determina la formazione del giudicato sostanziale, con la conseguenza che il giudice dell’impugnazione, in quanto non investito del potere di cognizione e decisione sul merito del processo, non può rilevare eventuali cause di non punibilità a norma dell’articolo 129 CPP”[40].
Si conclude che “i suddetti principi, sebbene riferiti alla prescrizione, sono estensibili all’istituto dell’improcedibilità in quanto la ratio della nuova normativa, certamente finalizzata a garantire la ragionevole durata del processo, implica che tale correlazione è solo tendenziale, non potendo prestarsi a forme di strumentalizzazione realizzabili attraverso la proposizione di ricorsi inammissibili”.
L’inammissibilità, quando accertata, non solo impedisce di dichiarare l’improcedibilità ma invalida l’improcedibilità eventualmente già dichiarata nella fase introdotta da un’impugnazione inammissibile[41]); può così accadere che a una condanna inflitta in primo grado segua in secondo grado una sentenza di improcedibilità per il decorso dei termini e che la cassazione, a seguito di ricorso proposto dal pubblico ministero, dichiari l’inammissibilità dell’appello a suo tempo non rilevata con conseguente irrevocabilità della condanna; lo stesso dicasi nel caso in cui l’inammissibilità emerga dopo il superamento dei termini fissati a pena di improcedibilità o quando, nell’ambito del ricorso inammissibile, l’imputato eccepisca la mancata dichiarazione di improcedibilità nel grado precedente.
Senza dubbio, peraltro, la tardiva dichiarazione di inammissibilità rischia in alcuni casi di produrre effetti pregiudizievoli per l’imputato, soprattutto nell’ipotesi di manifesta infondatezza del ricorso per cassazione.
Da più parti si sottolinea, poi, che la prevalenza dell’inammissibilità sull’improcedibilità è confermata dalla lettera dell’art. 578 comma 1 bis c.p.p.[42] nella parte in cui espressamente condiziona il rinvio per la prosecuzione del giudizio innanzi al giudice civile al fatto che l’impugnazione “non sia inammissibile”, non potendosi sostenere che siffatta disposizione – per ragioni logiche e sistematiche - sia circoscritta alle sole impugnazioni relative agli interessi civili.
Altri autori[43] contestano la tesi del giudicato sostanziale e ritengono che ogni atto processuale, compresa l’impugnazione viziata dall’inammissibilità, produca i suoi effetti in via prioritaria fino a quando l’invalidità non venne dichiarata dal giudice con efficacia ex tunc con la conseguenza che anche l’impugnazione inammissibile produce il suo effetto tipico di dare avvio alla sequela procedimentale del relativo grado di giudizio e che dovrà essere il giudice dell’impugnazione a dichiarare l’inammissibilità dell’atto introduttivo, pur limitando la propria cognizione alla sola declaratoria di inammissibilità.
A giudizio di questa corrente di pensiero, dunque, l’impugnazione viziata per inammissibilità è comunque capace di dare avvio alla nuova sequenza di atti rappresentata dal grado eventuale di impugnazione che sfocia nella pronuncia giurisdizionale con cui viene rilevata la stessa inammissibilità, dal che risulta che l’improcedibilità sarebbe applicabile anche al giudizio di impugnazione che si debba chiudere con la mera declaratoria di inammissibilità e, del resto, l’articolo 344 bis comma 1 non indica un particolare esito decisionale quale condizione di operatività della causa di improcedibilità, facendo riferimento in generale alla mancata definizione del giudizio entro il termine, ovvero a qualsiasi forma di definizione del giudizio (non solo quella di merito, ma anche quella che sfocia nella inammissibilità).
La norma inoltre prescinde da ogni riferimento all’impugnazione nel fissare il dies a quo al novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto per il deposito delle motivazioni senza, quindi, considerare la data del deposito dell’atto di appello o di ricorso per cassazione, il che testimonierebbe l’assoluta autonomia dell’improcedibilità rispetto all’impugnazione, sebbene inammissibile, che non viene presa in considerazione nella determinazione del termine per la definizione del giudizio.
La tesi non è condivisa da chi[44] sostiene che così interpretando la norma si finirebbe per negare l’applicazione e l’operatività di una disposizione improntata a maggior favore dell’imputato, che ha indubbi effetti sostanziali positivi sulla sua posizione nella misura in cui impedisce la condanna per reati anche laddove egli abbia interesse a invocare l’applicazione per la violazione del termine di durata e non abbia inteso rinunciare a tale diritto; queste considerazioni, coltivate da chi sostiene che l’istituto non abbia natura squisitamente processuale, ma mista e con ricadute anche di natura sostanziale, inducono a ritenere che la declaratoria di improcedibilità possa essere adottata anche in presenza di un ricorso in cassazione inammissibile per manifesta infondatezza, purché non tardivo, analogamente a quanto avviene per la remissione di querela che comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata anche in presenza di ricorso inammissibile, purché tempestivamente proposto.
Accedendo alla tesi della prevalenza della declaratoria di inammissibilità su quella di improcedibilità, va comunque rilevato che tale decisione sarebbe impugnabile, come del resto lo sarebbe anche la sentenza dichiarativa della improcedibilità che non abbia dichiarato l’inammissibilità del gravame.
9. I rapporti tra improcedibilità e cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. Connesso a questo tema è quello dei rapporti tra l’improcedibilità e l’articolo 129 del codice di procedura penale, problema che si pone non tanto per le cause di estinzione del reato che siano maturate nel giudizio di impugnazione (morte dell’imputato, remissione di querela, etc…) che devono essere dichiarate immediatamente e potrebbero di per sé prevalere sulla declaratoria di improcedibilità rilevabile del grado successivo, quanto piuttosto per i casi di evidenza della prova di cui al comma 2 dell’articolo 129 citato.
Il quesito che si pone è se, quindi, in assenza di cause estintive del reato, nel giudizio di impugnazione risulti violato il termine di improcedibilità ma l’innocenza dell’imputato sia evidente: a giudizio di alcuni la soluzione preferibile e più garantista per l’imputato (la cui innocenza risulti evidente in termini di constatazione senza margini di apprezzamento) è che l’articolo 129 comma 2 debba prevalere imponendo il proscioglimento nel merito anche in caso di violazione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione, ciò in quanto tale soluzione comporta l’esclusione di qualsivoglia responsabilità nel merito dell’imputato e l’eliminazione di eventuali statuizioni civilistiche che dovessero essere state adottate a suo danno dalla sentenza gravata, a differenza della declaratoria di improcedibilità che comporta l’annullamento con rinvio della sentenza innanzi al giudice civile che potrà decidere valutando e utilizzando anche le prove assunte nel processo penale.
A giudizio di altri, l’articolo 129 comma 2 per la sua ratio potrebbe estendersi anche all’ipotesi del concorso tra cause di proscioglimento nel merito e sopravvenuta improcedibilità[45].
Taluni autori[46] ritengono l’art. 129 c.p.p. non potrebbe operare affatto in questi casi, mancando adeguata copertura normativa.
In particolare[47] si evidenzia che l’articolo 129 comma 2 risolve il caso del concorso tra causa estintiva del reato e proscioglimento nel merito affermando che “se dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o per l’imputato non lo ha commesso il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”.
L’improcedibilità, invece, dato il suo carattere processuale preclude l’esame nel merito al pari della inammissibilità: pertanto, a differenza di quanto avviene in caso di sopravvenuta estinzione del reato sarebbe quindi inapplicabile l’art. 129 comma 2 essendo l’improcedibilità destinata inesorabilmente a prevalere su ogni altra forma di proscioglimento, con l’ulteriore conseguenza che se l’improcedibilità sopraggiungesse pendente l’impugnazione del pubblico ministero contro un’assoluzione, l’imputato vedrebbe questa convertita nella meno favorevole sentenza di non doversi procedere, determinandosi così una inammissibile reformatio in peius per decorso del tempo.
Ciò in virtù della radicale differenza tra improcedibilità e cause di estinzione del reato in quanto quest’ultima, a differenza dell’improcedibilità, non interrompe nè estingue il processo che si conclude con una sentenza di merito secondo la gerarchia delle formule di proscioglimento dettata dall’articolo 129 comma 2, mentre l’improcedibilità interrompe il processo precludendo ogni esame del merito da parte del giudice il quale potrebbe esclusivamente dichiarare non doversi procedere, salvo che l’imputato non abbia rinunciato alla citata causa estintiva.
Peraltro, va detto che l’ipotesi di sovrapposizione di tali istituti appare più teorica e pratica, essendo sicuramente residuali i casi in cui si ravvisi una tale evidenza della prova di innocenza che possa legittimare un simile proscioglimento.
Diverso ma collegato è invece il caso nel quale l’imputato sia stato assolto nel precedente grado di giudizio e l’impugnazione del pubblico ministero instauri validamente il grado di giudizio, nel corso del quale maturi il superamento del termine di cui all’articolo 344 bis: tale evenienza non è stata disciplinata dal legislatore, che forse avrebbe dovuto far salva l’applicazione del secondo comma dell’articolo 129 del codice di procedura penale garantendo così l’assoluzione nel merito in presenza della già accertata infondatezza dell’accusa (si pensi al caso dell’imputato assolto in primo grado e nei cui confronti passi in giudicato la sentenza in rito di improcedibilità per eccessiva durata del grado d’appello introdotto all’impugnazione del ministero).
In tali ipotesi vi è chi sostiene che debba comunque prevalere, anche in caso di maturazione del dato formale dell’improcedibilità per eccessiva durata del procedimento di impugnazione, la statuizione di conferma di una pronuncia di merito ampiamente liberatoria che venga deliberata allo stato degli atti, ossia senza procedere oltre: quando matura l’improcedibilità cronologica il procedimento deve arrestarsi, ma se in quel momento vi sono già i presupposti per una sentenza di assoluzione nel merito il giudice, nello scegliere la formula terminale, deve preferite quella più ampiamente liberatoria senza che questa scelta possa dirsi impedita dall’improcedibilità.
Tale impostazione sarebbe poi confermata dalla differenza strutturale tra l’improcedibilità di cui sopra e le altre condizioni tradizionali di procedibilità (ad esempio la querela) che rappresentano i presupposti per giungere alla decisione di merito, in assenza dei quali è consentita solo la pronuncia di una sentenza meramente processuale che constati l’impossibilità di un’indagine sul merito; l’improcedibilità per decorso del tempo, invece, non presuppone una limitazione della cognizione del giudice ma solo l’impossibilità di procedere oltre, senza quindi impedire la mera rilevazione, allo stato degli atti, di una causa prevalente di proscioglimento nel merito rappresentata dall’assoluzione nel precedente grado di giudizio[48].
[1] per uno sguardo di insieme si rinvia a G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della “legge Cartabia, in questa Rivista, 15 ottobre 2021.
[2] così Relazione dell’Ufficio del Massimario, n. 60/2021, pagg. 34 e ss.
[3] cfr. Cass. Pen., Sez. 2, n. 47840 del 27/09/2017, Bouazdia, Rv. 271201
[4] si veda sul punto l’ampia trattazione contenuta nella relazione n. 60/21 dell’Ufficio del Massimario, alle pagine 34 e ss.
[5] in tal senso la ricordata Relazione del Massimario
[6] G. Spangher, Irretroattività e regime transitorio della declaratoria di improcedibilità (l. n. 134 del 2021), in Giustizia Insieme, 22 novembre 2021
[7] così F. Giunchedi, Il regime progressivo dell’improcedibilità e le questioni intertemporali, in Processo penale e giustizia, 2022, n. 1, 273 ss.
[8] Sez. 6, n. 40604 del 08/10/2024, Morelli
[9] Cfr. sul punto Cass. Pen., SSUU, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, in motiv.; conf. Sez. 2, n. 21700 del 17/04/2019, Sibio, Rv. 276651-01; Sez. 2, n. 225 del 08/11/2018, dep. 2019, Mohammad Razzaq, Rv. 274734-01
[10] n. 43883 del 19/11/2021, Cusmà Piccione, Rv. 283043-02
[11] Cfr. Cass. Pen., Sez. 5, n. 334 del 05/11/2021, dep. 2022, cit.; Sez. 7, ord. n. 43883 del 19/11/2021, cit.; Sez. 3, n. 1567 del 14/12/2021, cit. e ancora le seguenti pronunce: Sez. 2, n. 34198 del 09/06/2022, Climeni e altro, non mass. § 3; - Sez. 5, n. 43624 del 06/07/2022, Castorina, non mass. § 4; - Sez. 5, n. 48904 del 16/12/2022, Maello, non mass.; - Sez. 7, ord. n. 49177 del 23/11/2022, Caterino, non mass. Nel senso della manifesta irrilevanza della sollevata questione di costituzionalità dell’art. 344-bis c.p.p., ritenuta “inconsistente” o “inattuale” rispetto al tempus commissi delicti in rilievo nelle rispettive vicende di specie, si sono espresse: Cass. Pen., Sez. 5, n. 4272 del 07/12/2021, dep. 2022, Cammarota, non mass., § 1; - Sez. 3, n. 8623 del 10/01/2022, Bellucci, non mass.; - Sez. 5, n. 48904 del 16/12/2022, Maiello, non mass.
[12] nn. 26294/2024 e 28474/2024 della IV Sezione
[13] riconosciuta in modo incontroverso anche dalla giurisprudenza di legittimità; cfr. tra molte, Cass. Pen., Sez. 3, n. 26795 del 23/2/2023, Angelini, n.m.; Sez. 6, n. 31877 del 16/5/2017, B., Rv. 270629
[14] cfr. Cass. Pen., Sez. 5, n. 26801 del 17/04/2014, Rv. 260228 - 01
[15] G. Spangher, Irretroattività e regime transitorio della declaratoria di improcedibilità, in Giustizia insieme, 2021
[16] Per un’ampia trattazione sul tema, si rinvia a G. Miccoli, relazione su I termini di improcedibilità: la disciplina della proroga della sospensione, tenuta al corso sul tema Improcedibilità nei giudizi penali di impugnazione, 7 febbraio 2022, Corte di cassazione, Roma
[17] P. Ferrua, Improcedibilità e ragionevole durata del processo, www.penaledirittoeprocedura.it, p. 10
[18] cfr. Relazione dell’ufficio del massimario, cit., pagina 25
[19] G. Miccoli, op. cit., pagina 5
[20] così G. Miccoli, op. cit., pag. 5
[21] in tal senso, Relazione dell’Ufficio del massimario, cit., pag. 22
[22] cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario da ultimo menzionata, pag.31
[23] M. Di Bitonto, Osservazioni “a caldo” sull’improcedibilità dell’azione disciplinata dall’articolo 344 bis CPP, in Cass. Pen., n. 12, p. 3852
[24] G. Miccoli, op. cit.
[25] “Fuori dai casi di cui al comma 1, se vi sono beni in sequestro di cui è stata disposta confisca, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344-bis, dispongono con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto o al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo competenti a proporre le misure patrimoniali di cui al titolo II del Libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”
[26] come invece consentito, a seguito della sentenza della C. Cost., 26.3.2015 n. 49, nel caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione
[27] cfr. in tal senso Cass. Pen., n.2933/2021
[28] Cass. Pen., n. 39651 del 3 ottobre 2024, III Sezione
[29] cfr. Cass. Pen., n. 28954/2017, Iannelli, Rv. 269809
[30] si vedano, ed es., Cass. Pen., n. 44417/2022, n. 5246/ 2023, n. 46213/2022; n. 9097/ 2023.
[31] cfr. Cass. Pen., n.44870/2023
[32] così Cass. Pen., n.33109/2020
[33] cfr. ad es. Cass. Pen., n. 43366/2023
[34] O. Mazza, Fenomenologia dell’improcedibilità cronologica, www.penaledirittoeprocedura.it
[35] in tal senso cfr. Cass. Pen. Sez. V, n. 334/2022
[36] R. Dainelli, Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, in www.diritto.it
[37] Cass. Pen., n.8825/2016
[38] R. Dainelli, op. cit., pag. 15
[39] G. Spangher, op. cit., pag. 6
[40] in tal senso SSUU n.12602 del 17 dicembre 2015, Ricci; SSUU, n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale; SSUU, n.32 del 22 novembre 2000, De Luca; SSUU n. 15 del 30 giugno 1999, Piepoli; SSUU, n. 21 dell’11 novembre 1994, Cresci
[41] così P. Ferrua, op. cit., pag. 16
[42] Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, e in ogni caso di impugnazione della sentenza anche per gli interessi civili, il giudice di appello e la Corte di cassazione, se l’impugnazione non è inammissibile, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344 bis, rinviano per la prosecuzione al giudice o alla sezione civile competente nello stesso grado, che decidono sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile
[43] O. Mazza, op. cit. pag. 7
[44] R. Dainelli, op. cit., pagg. 13 e ss.
[45] N. Nappi, Appunti sulla disciplina dell’improcedibilità per irragionevole durata del giudizio di impugnazione, in Questione Giustizia, 9 dicembre 2021
[46] G. Spangher, Improcedibilità: alla ricerca di una possibile nomofilachia, www.penaledirittoeprocedura.it
[47] P. Ferrua, op. cit., pag. 12
[48] cfr. O. Mazza, op. cit., pag. 14