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  Opinioni  
26 Gennaio 2021


Un link azzardato: dichiarazioni spontanee ed esame dell’imputato


1. Autodifesa libera e autodifesa regolata. – Talvolta nel dibattimento va in scena una sequenza di atti frutto della ars combinatoria di qualche difensore ingegnoso. L’imputato si siede davanti al giudice per essere sottoposto all’esame e annuncia subito, con una frase che illustra la virata verso un altro modulo difensivo: «prima di rispondere alle domande vorrei fare dichiarazioni spontanee». Il giudice di solito rimane sorpreso dall’imprevisto abbinamento e gira gli occhi verso il pubblico ministero il quale però, nonostante il silenzioso invito che traspare dallo sguardo puntato su di lui, non dice proprio nulla. Così l’imputato inizia ad esporre le sue difese seguendo uno schema ordinato e ben argomentato, evidentemente messo a punto con il suo difensore. E poi si offre alle domande secondo il rituale dettato dall’art. 503 c.p.p.

Non è difficile intuire le ragioni del gemellaggio istituito tra i due diversi modi di esercizio della autodifesa. Le dichiarazioni spontanee consentono all’imputato di sovrapporre all’andamento segmentato dell’esame, a volte periglioso per l’incalzare delle domande, una presentazione dei fatti tagliata su misura per le esigenze difensive, con un dosaggio ben studiato dei vuoti e dei pieni del racconto che viene costruito sulla base di una selezione accurata delle prove. Insomma, nella articolazione difensiva spontanea, almeno così come è stata plasmata dalla nostra prassi, l’imputato riesce a modulare anticipatamente il contenuto e i toni del suo intervento, mentre quando è sottoposto all’esame, soprattutto se è il pubblico ministero a condurlo, si trova costretto a dover seguire l’itinerario volta a volta prescelto dall’examiner e a dover render conto di ciò che ha affermato quando  gli è richiesto di fare precisazioni o di rispondere alle contestazioni.

Ecco perché nella logica della difesa le dichiarazioni spontanee antecedenti l’esame sono una misura preventiva che cerca di mettere un “cappello” di razionalità e di coerenza su una ricostruzione dei fatti che, nelle risposte all’esame, potrà riuscire invece imprecisa o lacunosa, se non addirittura inefficace sul piano della presentazione degli elementi a discolpa.

Poiché questa finalità dell’abbinamento dei due istituti è certamente ben chiara ai magistrati, ci si può domandare come mai sia piuttosto raro che la scelta della contestualità, pur priva di un esplicito fondamento normativo, non venga fatta oggetto di rilievi da pubblici ministeri e giudici al fine di impedirla.

A me sembra che nel laissez faire giudiziale ci sia la consapevolezza dell’importanza che una narrazione dei fatti condotta dall’angolo visuale dell’imputato possa avere per capire qual è la sua personalità e su quali basi probatorie e argomentative è imperniata la rivendicazione della sua innocenza. In altri termini, per il giudice e il pubblico ministero la pagina autodifensiva aperta dall’imputato poco prima di affrontare l’esame è un test prezioso che mette in luce i temi da lui prescelti per contrastare l’accusa e quindi svela in anticipo i luoghi da privilegiare nell’esame al fine di mettere in discussione l’assunto della sua innocenza.

Viene così ad affiorare un paradosso. Pensato dalla difesa come scudo rispetto alle insidie del rapporto dialogico fondato su domande e risposte, il link tra spontaneità e leva conoscitiva “pilotata” finisce per rivelare un qualche vantaggio per il pubblico ministero a cui viene offerto un quadro delle circostanze a discolpa sul quale concentrare la verifica mediante l’esame o il controesame.

 

2. La variante italiana: la autodifesa estemporanea. – Al di là di questi aspetti che rilevano sul piano delle strategie dibattimentali, ci si deve domandare se il regime della contestualità sia da ritenere legittimo. Non c’è dubbio che la prassi dell’abbinamento abbia il suo punto di forza nella norma dell’art. 494 c. 1 c.p.p. che consente all’imputato di «rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune purché esse si riferiscano all’oggetto della imputazione». E poiché anche l’udienza in cui si deve assumere l’esame dell’imputato è indubbiamente uno stato del dibattimento, si ritiene che l’abbinamento dell’intervento spontaneo a quello regolato sia pienamente compatibile con la lettera della legge processuale.

Questa conclusione è però troppo semplicistica, priva come è di ogni riflessione condotta sul piano sistematico. La linea di confine che separa le dichiarazioni spontanee da quelle rese dall’imputato nell’esame non è infatti segnata solo dall’esercizio del contraddittorio riscontrabile solo nel secondo istituto e non nel primo, nel quale appunto manca quella elaborazione della prova ad opera delle parti.

Che gli enunciati espressi a norma dell’art. 494 c.p.p. non siano idonei a formare la prova per mancanza di un tasso adeguato di affidabilità persuasiva che ricorre invece quando viene assunto l’esame, è un criterio distintivo di sicuro rilievo[1].

Non è corretto però ridurre la spontaneità al rango di mero sinonimo della mancanza della tecnica delle domande. Certo, nel diritto vivente si è ormai imposta la regola secondo cui la autodifesa spontanea è uno strumento parallelo “minore” rispetto alla autodifesa regolata dalla discipline dall’esame, al punto che nei processi si producono talvolta dichiarazioni scritte di decine e decine di pagine[2]. Tra i due istituti c’è però un profondo divario strutturale. Probabilmente non lo si è capito perché l’istituto di cui all’art. 494 c.p.p. è stato interpretato nella luce fuorviante generata dalla prassi formatasi sull’art. 350 c.7 c.p.p. in tema di dichiarazioni spontanee rese dall’indiziato alla polizia le quali, il più delle volte, contengono una ampia narrazione dei fatti presentate come frutto di un impeto comunicativo dell’inquisito, senza lo stimolo derivante da domande. Così si è giunti a disconoscere il tratto più caratteristico della spontaneità conseguente alla fisionomia forgiata dal codice sulla scia del Progetto del 1978. Il legislatore ha voluto fare riferimento a circostanze di tempo e di luogo particolari, tali che suscitano una reazione verbale immediata. La “spontaneità” dell’art. 494 c.p.p. connota dunque non solo lo svincolo da domande, ma anche il carattere estemporaneo dell’intervento.

Era proprio questo l’obiettivo del codice del 1988 nel dar vita al genus dei contributi dichiarativi «liberi» sulla traccia degli unsworn statements del processo anglo-americano[3].

Si pensi in primo luogo al dovere che incombe al giudice di avvertire l’imputato, appena aperto il dibattimento, che egli ha il diritto di rendere dichiarazioni spontanee, un avvertimento che manca invece per il diritto di sottoporsi all’esame. A ben vedere, ciò si spiega tenendo conto che l’esame dell’imputato è una prova che può e deve essere richiesta dalla difesa e dalla pubblica accusa a norma dell’art. 495 c.p.p., mentre le dichiarazioni spontanee sono un contributo secundum eventum litis. L’imputato può renderle volta a volta che nel dibattimento sorgono circostanze tali da suscitare in lui una reazione immediata che sollecita una presa di posizione di adesione o di dissenso rispetto a ciò che appare sulla scena del processo. E la loro efficacia come elementi di prova è ancorata alla effettiva riscontrabilità della reazione a ciò che accade nel dibattimento. Il loro valore di verità non dipende dall’operare dal contraddittorio, come nel caso dell’esame. L’intervento autodifensivo spontaneo può acquisire un valore probatorio se risulta che è dettato dalla immediata esigenza di insorgere di fronte ad un evento processuale.

Solo così si spiega la coesistenza dei due contributi autodifensivi che il codice del 1988 ha voluto mettere a disposizione dell’imputato nel dibattimento. Non sono stati previsti due canali in ordine ai quali l’imputato rimane libero di optare secondo che ritenga conveniente sottoporsi o meno all’esame, come se si fosse voluto approntare un commodus discessus che gli garantisce di dire ciò che vuole senza essere smentito.

È dunque evidente che autodifesa libera e autodifesa regolata sono strumenti raccordati a funzioni complementari che riflettono rispettivamente, l’estemporaneità contrapposta alla ragionata prospettazione ai fini dell’esercizio del diritto di difesa. Ed allora emerge con tutta chiarezza l’incongruenza del convivere nello stesso arco temporale del processo, di due modi diversi di difendersi in cui l’imputato prima parla libera lingua, per dirla in latino, e poi è tenuto invece a seguire il percorso logico di chi lo esamina e a render conto di tutto ciò che afferma. Il link è dunque una inammissibile forzatura che non può trovare ospitalità nel nostro sistema processuale.

 

 

[1] Sul punto, peraltro, si registra un notevole disorientamento giurisprudenziale. In alcune sentenze si nega il valore probatorio delle dichiarazioni spontanee ex art. 494 c.p.p. (v., ad. es., con riguardo alla non configurabilità di una «nuova prova» idonea a rendere doverosa l’interruzione della discussione ex art. 523 c.p.p., Cass. Sez. V, 2 febbraio 2017, n. 12603, CED 269518, e, analogamente, a proposito delle dichiarazioni spontanee confermative di chiamate in correità, formulate nelle indagini dagli stessi coimputati, v. Cass. Sez. VI, 27 novembre 1998, n. 13682, CED 212088). Al contrario si è però riconosciuto alla autodifesa libera l’attitudine ad integrare una vera e propria chiamata di correo assoggettabile alla disciplina dell’art. 192 c. 3 c.p.p. (v. Cass. 13.6.1998, Altissimo, n. 211392).

[2] In questi casi si parla, nel gergo giornalistico e forense, di «memoriali».

[3] Alle dichiarazioni rese dal defendant nel trial, fuori dal regime della testimonianza, e quindi senza il vincolo del giuramento (l’istituto è stato abolito in Inghilterra dal Criminal Justice Act 1982), non è stata attribuita la qualifica della spontaneità (v., ad es., Mitchell (ed), Arhbold Pleading, Evidence and Practice in Criminal Cases, 1979, p. 413), ma tutta la storia dell’istituto nella common law dimostra che gli unsworn statements nel dibattimento non sono un contributo analogo, per ampiezza e per funzione, alla narrazione autodifensiva del fatto come avviene nella testimonianza dell’imputato ma si limitano ad offrire un contrappunto estemporaneo a ciò che accade nel dibattimento sicché la loro impronta è quella della immediatezza e della frammentarietà.