Trib. Bologna, ord. 23 dicembre 2020, giud. Barbensi
1. Con l’ordinanza che può leggersi in allegato, il Tribunale di Bologna ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 670 c.p.p. – per contrasto con gli artt. 3, 10, 25, c. 1 Cost., nonché con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 5 § 1, lett. a) e § 4 CEDU – nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni. La questione riguarda il tema della progressiva flessibilizzazione del giudicato e concerne l’estensione dei poteri del giudice dell’esecuzione. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad una graduale erosione del dogma del giudicato e a un ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, al fine di assicurare – mediante l’incidente di esecuzione ex artt. 666 ss. c.p.p. – la tutela dei diritti fondamentali di fronte ad una sentenza irrevocabile, quando non vi siano altri strumenti applicabili nel caso concreto. L’ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione è stato giustificato dall’esigenza di porre rimedio alla illegalità, lato sensu intesa, della condanna o del trattamento sanzionatorio, anche di fronte alla res iudicata[1].
2. Preliminarmente, vale la pena ripercorrere brevemente alcuni passaggi della vicenda processuale. Il caso giunge all’attenzione del Tribunale di Bologna, in veste di giudice dell’esecuzione, in seguito a un’istanza con la quale il condannato rilevava che una delle condanne oggetto di due provvedimenti di cumulo, emessi nei suoi confronti dalla Procura della Repubblica di Bologna, era stata pronunciata dal Tribunale ordinario di Bologna, ma riguardava fatti rispetto ai quali egli era, all’epoca della commissione, minorenne e che avrebbero dovuto essere di competenza del Tribunale per i minorenni. Si trattava, in particolare, di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. L’istante chiedeva, quindi, che la condanna pronunciata illegittimamente non fosse portata a esecuzione.
Il condannato, in effetti, al tempo dei fatti era minorenne: il Tribunale di Bologna evidenzia come la violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni sia del tutto evidente, come risulta dalla data di nascita indicata nel permesso di soggiorno prodotto unitamente all’istanza. Com’è possibile che un soggetto minorenne sia giudicato come maggiorenne? Si tratta naturalmente di una situazione patologica, dovuta nel caso di specie, tra l’altro, al fatto che nei confronti dell’istante, che era prossimo alla maggiore età, era stato condotto – evidenzia il Tribunale – un accertamento dell’età “quantomai sommario”[2].
Il vizio di competenza era stato, poi, oggetto di ricorso per cassazione ex art. 606, c. 1, lett. c), dichiarato inammissibile in virtù della scelta del rito – l’applicazione della pena su richiesta delle parti – che impedisce, ad avviso della Corte, la deducibilità della doglianza. La sentenza impugnata passava, così, in giudicato.
3. L’analisi della questione richiede una ricognizione della funzione del giudice dell’esecuzione e dei poteri ad esso spettanti. La concezione dell’ampiezza dei poteri del giudice dell’esecuzione ha subito negli anni un’evoluzione, che ha risentito della progressiva erosione del dogma dell’intangibilità del giudicato. Infatti, si osserva nell’ordinanza, in passato si concepiva l’esecuzione penale come un momento in cui potevano essere poste questioni aventi il carattere di “meri ‘incidenti’ attinenti alla concreta applicazione della pena”[3]. Il ruolo del giudice, in questa fase, veniva concepito come ascrivibile ad attività “dal carattere strettamente amministrativo”[4]. Con l’entrata in vigore della Costituzione si è sentita l’esigenza di adeguare il sistema alla funzione della pena, come delineata, in particolare, dall’art. 27 c. 3 Cost. Ciò è avvenuto con l’adozione, nel 1988, del nuovo codice di procedura penale: la fase dell’esecuzione ha assunto centralità, come di strumento per l’attuazione del principio dell’adeguatezza della pena in relazione alla funzione rieducativa ad essa assegnata dalla Carta costituzionale. Nonostante questo mutamento di concezione, ricorda il giudice rimettente, permane l’esigenza – alla luce del principio di intangibilità del giudicato – di evitare che il giudizio di esecuzione si tramuti in un ulteriore grado di merito.
I più recenti sviluppi sul tema dei poteri del giudice dell’esecuzione si sono verificati nell’ambito dei casi, portati all’attenzione della Corte Edu, Scoppola c. Italia e Contrada c. Italia. Il Tribunale evidenzia come, seppure tali vicende abbiano la particolarità di essere caratterizzate dalla presenza di una pronuncia della Corte Edu o della Corte costituzionale, da essi emerga una concezione del giudizio di esecuzione come la sede più adeguata a un intervento sull’illegittimità del titolo esecutivo o della pena, dopo il giudicato. In tal modo, al giudice dell’esecuzione è stato riconosciuto il ruolo di “custode della legalità del giudicato e, dunque, del titolo o della pena inflitta”[5].
Espressione dell’esigenza di attribuire al giudice dell’esecuzione il ruolo di garantire l’adeguatezza della pena alla luce delle sue funzioni costituzionali, senza però trasformare il giudizio esecutivo in un ulteriore grado di merito, è l’art. 670 c.p.p., oggetto della questione di legittimità costituzionale. La norma, pur ampliando i poteri del giudice dell’esecuzione rispetto al passato, consente una cognizione limitata sul titolo esecutivo: in particolare, limita il controllo del giudice dell’esecuzione alle ipotesi di mancanza del titolo o di difetto del requisito dell’esecutività di un titolo esistente. La cognizione del giudice dell’esecuzione, in questi casi, non può estendersi al merito del provvedimento, se non per la valutazione del rispetto delle garanzie previste nel caso di irreperibilità. Tale disposizione – evidenzia il Tribunale – è stata interpretata dalla giurisprudenza di legittimità in modo restrittivo, con la conseguenza dell’impossibilità, per il giudice, di attribuire rilievo alle nullità verificatesi nel processo di cognizione, prima del passaggio in giudicato della sentenza, nemmeno se si tratta di nullità assolute. Le nullità verificatesi prima dell’irrevocabilità della sentenza, infatti, devono essere fatte valere con i mezzi di impugnazione[6]. L’unico caso in cui il giudice dell’esecuzione può operare una valutazione “anche nel merito”, quindi, rimane quello relativo all’osservanza delle garanzie previste in caso di irreperibilità.
4. Il caso all’attenzione del Tribunale di Bologna non rientra nelle ipotesi in cui è consentito rilevare la nullità: il vizio attinente alla violazione della competenza funzionale del Tribunale di minorenni non è infatti incluso nei casi tassativamente previsti dalla norma in esame.
Il percorso argomentativo posto a fondamento delle censure di incostituzionalità si fonda su alcune osservazioni – proposte dal Tribunale – sulla natura della competenza del Tribunale per i minorenni e sugli interessi sottesi alla disciplina del rito minorile, delineata dal D.P.R. n. 448/1988, con particolare riferimento ai principi costituzionali che costituiscono il fondamento delle specificità di tale sottosistema.
Con il D.P.R. n. 448/1988 il legislatore – alla luce dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza costituzionale e delle fonti sovranazionali[7] – ha predisposto un autonomo sistema di giustizia minorile, prendendo atto della necessità, per il minore sottoposto a un procedimento penale, di un trattamento differenziato, giustificato dal principio della tutela della gioventù, di cui all’art. 31 c. 2 Cost., nonché del principio di uguaglianza e ragionevolezza e della finalità rieducativa della pena. Le particolarità del sistema minorile sono rese evidenti già all’art. 1 della D.P.R. n. 448/1988, che nel rinviare al codice di procedura penale per quanto non disciplinato dal decreto, richiede che le norme del codice di rito siano “applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne”. In tal modo – evidenzia il Tribunale – l’interesse superiore del minore assume il ruolo di “canone ermeneutico primario”, alla luce del quale deve essere interpretata tutta la disciplina processuale. Sempre nell’ottica di assicurare una tutela rafforzata dell’interesse del minore e dello sviluppo della sua personalità, sono previsti diversi istituti che consentono l’uscita anticipata del minore dal procedimento penale – si pensi alla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto di cui all’art. 27 e alla sospensione del processo con messa alla prova, prevista dall’art. 28 – ed è limitata la compatibilità dei riti alternativi disciplinati dal codice di procedura penale.
Al centro di tale sistema processuale è prevista, all’art. 3 D.P.R. n. 448/1988, la competenza funzionale del Tribunale di minorenni per i reati commessi dai minori di anni diciotto. Le specificità di tale organo giurisdizionale riguardano principalmente la sua composizione mista: oltre a due giudici togati, infatti, la legge prevede che ne facciano parte “due cittadini, un uomo ed una donna, benemeriti, dell’assistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia, che abbiano compiuto il trentesimo anno di età”[8]. La competenza funzionale del Tribunale del minorenni – sottolinea il Tribunale – “si pone come indefettibile presidio delle già evidenziate specifiche esigenze di tutela del minore, aventi caratura tanto costituzionale quanto sovranazionale”[9]. Si tratta di una competenza che viene individuata sulla base dell’età del soggetto al momento del fatto – e non del giudizio – e che presenta caratteri di rigidità e di inderogabilità. Ciò è assicurato da diverse disposizioni, ed in particolare, da quelle relative agli effetti della connessione sulla competenza[10] e all’accertamento dell’età dell’indagato[11]. Dalla lettura di queste norme, emerge la tendenza ad “assicurare la massima espansione della competenza del Tribunale per i Minorenni e la sua inderogabilità”[12].
Svolte queste riflessioni, il Tribunale di Bologna evidenzia che, nonostante la minore età sia individuata, dalla legge e dalla giurisprudenza, come un netto spartiacque che determina notevoli differenze in punto di rito applicabile e di competenza – animate dalla necessità di assicurare che i minorenni siano giudicati da un Tribunale specializzato – non è previsto un meccanismo che consenta di rimediare all’eventualità in cui, per errore, un soggetto minorenne sia stato raggiunto da una sentenza irrevocabile emessa – in violazione delle norme sulla competenza – dal Tribunale ordinario, invece che dal Tribunale per i minorenni.
Va, peraltro, evidenziato che la violazione in parola non si traduce ‘solo’ nella trattazione del procedimento da parte di un giudice diverso, ma porta con sé conseguenze rilevanti. Nel caso concreto all’attenzione del Tribunale di Bologna, in particolare, tale violazione a condotto all’esecuzione della misura cautelare in un istituto per maggiorenni; all’applicazione del rito previsto dall’art. 444 c.p.p., precluso ai minorenni[13] e alla sottrazione dell’imputato a tutti gli istituti applicabili nello specifico procedimento minorile.
5. Tanto premesso, il Tribunale argomenta in punto di rilevanza. La questione è ritenuta rilevante, in ragione dell’interesse del condannato a una pronuncia della Corte costituzionale che permetta al Tribunale di rilevare la nullità in sede di esecuzione. Tale interesse è, in realtà, duplice: in primo luogo, la non eseguibilità della sentenza affetta da nullità inciderebbe in senso favorevole sul quantum di pena da eseguire, in applicazione del provvedimento di cumulo; in secondo luogo, l’eventuale riedizione del processo davanti al giudice competente consentirebbe l’accesso agli istituti previsti nel procedimento minorile.
Il giudice a quo, poi, precisa che l’avvenuta deduzione del vizio mediante ricorso per cassazione non osta all’affermazione della rilevanza della questione, per diverse ragioni. In primo luogo, la declaratoria di inammissibilità del ricorso si è basata sull’osservazione per cui la scelta del rito – l’applicazione della pena su richiesta delle parti – contiene una implicita rinuncia a far valere il difetto di competenza: i giudici di legittimità non sono, quindi, entrati nel merito della doglianza e non può ritenersi esaurito l’interesse del ricorrente all’accertamento della nullità. In secondo luogo, rileva il Tribunale, l’interessato ha prodotto ulteriori documenti – e in particolare il permesso di soggiorno – in grado di dimostrare “senza ulteriore margine di dubbio” la sua vera data di nascita. Da ultimo, ma non per importanza, vi è l’argomento che si fonda sulla nozione di rilevanza delineata dalla giurisprudenza costituzionale: la rilevanza non si riduce alla “utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione”[14]. Secondo questo orientamento, richiamato dall’ordinanza, la quesitone è rilevante anche quando la pronuncia della Corte costituzionale non sia tale da modificare l’esito del giudizio, ma possa imporre al giudice a quo un percorso argomentativo differente.
Il Tribunale, poi, individua il giudizio di esecuzione come unica sede idonea ad affrontare e risolvere la questione. Il vizio – evidenzia il Tribunale – non potrebbe fondare una domanda di revisione ai sensi dell’art. 629 c.p.p. perché, da un lato, non rientra in alcuno dei casi in esso previsti e, dall’altro, mal si concilia con la ratio della norma, incentrata sull’esigenza di ripristinare la “giustizia ‘sostanziale’ lesa dalla decisione”. L’art. 631 c.p.p., infatti, richiede che gli elementi sulla base dei quali si fonda la richiesta di revisione debbano, a pena di inammissibilità della domanda, essere tali da dimostrare, qualora accertati, “che il condannato deve essere prosciolto”. Nel caso di specie, al contrario, la doglianza inerente alla violazione delle norme sulla competenza non implica necessariamente che il giudizio di fronte al Tribunale per i minorenni si concluda con una pronuncia di proscioglimento. Il giudizio di esecuzione – la sede in cui viene operato un controllo sulla legittimità del titolo esecutivo –, invece, sembrerebbe quello più idoneo alla situazione in esame, in cui viene in rilievo la nullità del titolo esecutivo. Vi è, però, un ostacolo: il tenore letterale dell’art. 670 c.p.p., come anticipato, non permette al Tribunale di rilevare il vizio. Come conseguenza, conclude il giudice a quo, l’interessato rimarrebbe privo di qualsiasi tutela.
Un intervento della Corte costituzionale nel senso richiesto – si precisa nell’ordinanza – non integrerebbe una lesione delle prerogative del legislatore, ma si configurerebbe come “unica soluzione costituzionalmente congrua a porre rimedio al vulnus riscontrato”. Il Tribunale, poi, svolge alcune considerazioni inerenti al carattere involontario della lacuna: più che di una “implicita volontà di precludere” un simile controllo da parte del giudice dell’esecuzione, si tratterebbe di una “mera dimenticanza”. Difficilmente potrebbero conciliarsi le seguenti scelte: da un lato, la predisposizione, da parte del legislatore, di un sistema fortemente improntato all’esigenza di garantire un raccordo tra il procedimento ordinario e quello minorile, che assicuri la “massima espansione del rito minorile”; dall’altro, la decisione di “consentire l’elusione della disciplina prevista per i minorenni” in presenza di una sentenza passata in giudicato pronunciata in violazione delle norme sulla competenza. Più probabile – osserva il Tribunale –, che il legislatore non si sia rappresentato tale eventualità, confidando nella corretta applicazione delle norme di coordinamento tra i due sistemi, anche in considerazione del fatto che al momento dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 488/1988, gli accertamenti sull’età dell’imputato erano più agevoli, mentre sono oggi più incerti, soprattutto rispetto a soggetti stranieri.
6. In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo individua diverse norme costituzionali con le quali l’art. 670 c.p.p. appare confliggere, nella parte in cui non permette al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità del titolo esecutivo derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni. Si tratta, come anticipato in apertura, degli artt. 3, 10, 25, c. 1 Cost., nonché dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 5 § 1, lett. a) e § 4 CEDU.
6.1. Con riferimento al principio di uguaglianza, sia formale sia sostanziale, di cui all’art. 3 Cost., il Tribunale rileva come i dubbi di illegittimità costituzionale derivino dall’irragionevole trattamento indifferenziato di situazioni eterogenee. Infatti, tanto la nullità derivante dalla violazione delle norme sulla competenza nel giudizio ordinario quanto quella derivante dal mancato rispetto dell’art. 3 D.P.R. n. 448/1988, risulterebbero “indistintamente sanate dall’intervento del giudicato”. Il Tribunale, riconosciuto che nel caso di specie si tratta di bilanciare il principio dell’intangibilità del giudicato con altri valori costituzionali in gioco, ritiene che la scelta legislativa di accordare prevalenza alla certezza del diritto rispetto alla regolarità formale della sentenza possa considerarsi “astrattamente legittima”, ma “solo se riferita ad irregolarità maturate all’interno del procedimento, per così dire, ‘ordinario’”. In altri termini, sono le specificità del procedimento minorile – e quindi il fatto che il vizio di incompetenza non si esaurisca nella semplice diversità del giudice davanti al quale si svolge il processo – a rendere ingiustificata la prevalenza del giudicato. A differenza del procedimento ordinario, nel caso del Tribunale per i minorenni, l’attribuzione ad esso della competenza comporta anche una differenza di rito e di istituti applicabili: in altri termini, non si esaurisce in una “mera questione formale, ma si riverbera sull’intero impianto processuale e financo sostanziale”[15]. Infatti, se nell’ipotesi di incompetenza del giudice nel giudizio ordinario non vi sono sostanziali differenze quanto a garanzie processuali, possibili esiti del processo e regole di giudizio, non altrettanto può dirsi per la violazione delle norme sulla competenza del Tribunale per i minorenni. In quest’ultimo caso, in primo luogo, l’elusione delle regole processuali specifiche del rito minorile si traduce nella lesione dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente riconosciuti al minore e che la disciplina processuale speciale mira a garantire. In secondo luogo, al minore erroneamente giudicato come maggiorenne risulterebbe preclusa l’applicazione di istituti quali, ad esempio, il perdono giudiziale e l’attenuante della minore età di cui all’art. 98 c.p.: la sentenza, in tal modo, “si colorerebbe delle fosche tinte dell’illegalità manifesta anche in punto di trattamento sanzionatorio”[16].
6.2. Il secondo parametro costituzionale invocato è l’art. 10 Cost. laddove prevede l’obbligo per il nostro ordinamento di conformarsi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. La tutela del minore – osserva il giudice a quo – è espressione di un principio generalmente riconosciuto a livello internazionale, come è desumibile dall’esistenza di diverse fonti in materia[17], dalle quali è possibile trarre diversi principi: il minore deve essere giudicato da un’autorità competente e specializzata; il rito applicabile va modellato sull’interesse superiore del minore, in modo da tener conto delle sue caratteristiche; tale rito deve prevedere un ridotto ricorso al carcere, oltre a istituti che permettano di realizzare la fuoriuscita anticipata del minore dal processo, onde evitare l’effetto di stigmatizzazione. Tanto premesso, il Tribunale di Bologna, osserva come l’effettività di queste garanzie riconosciute dal diritto internazionale – fatte proprie anche dal D.P.R. n. 488/1988 – rischi di essere minata da una norma che – attraverso lo ‘scudo’ del giudicato – consenta l’esecuzione di una pena inflitta da un giudice incompetente rispetto a fatti commessi da un soggetto all’epoca minorenne.
6.3. Da ultimo, l’art. 670 c.p.p. è sospettato di illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 13 Cost. e l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 5 CEDU, laddove affermano “il principio dell’inviolabilità della libertà personale e individuano i criteri di legalità della detenzione a livello costituzionale e convenzionale”[18]. Le osservazioni del giudice a quo, rispetto alla violazione dei menzionati principi, muovono da una considerazione preliminare: “in un’ottica sistematica e costituzionalmente orientata l’esecuzione della pena rappresenta il momento culminante del procedimento penale, in cui si realizza in concreto la privazione della libertà personale”[19].
Sotto il profilo dell’inviolabilità della libertà personale, sancita dall’art. 13 Cost., il Tribunale – pur riconoscendo che la norma si limita a richiedere che l’atto limitativo della libertà personale sia motivato, senza esigere ulteriori requisiti di legittimità – ritiene che “il riferimento ai “casi e modi previsti dalla legge” porterebbe a ritenere che la legalità della detenzione debba potersi apprezzare anche sotto il profilo della legalità della pronuncia di condanna”. In quest’ottica, l’illegalità del provvedimento da cui deriva la restrizione della libertà personale si riflette sul giudizio di legalità della detenzione. Non sarebbe accettabile, ad avviso del Tribunale, che in un ordinamento ispirato al principio di inviolabilità della libertà personale sia consentita l’esecuzione di un provvedimento affetto da una nullità radicale, avente carattere apparente – come quella rilevata nel caso in esame –, non necessitando di alcun accertamento di merito.
Ad avviso del giudice a quo, alla medesima conclusione consentirebbe di pervenire l’art. 5 CEDU. La norma convenzionale, in particolare, afferma che nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei modi prescritti dalla legge e nei casi elencati dal medesimo articolo. Tra le ipotesi previste, figura quella riguardante l’ipotesi in cui il soggetto “è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente”. In tal modo, la CEDU – evidenzia il Tribunale – parrebbe individuare nella competenza – individuata sulla base delle regole nazionali – del giudice che ha emesso il provvedimento un presupposto indefettibile della legalità convenzionale della detenzione. L’ordinanza, sul punto, richiama l’attenzione sulla giurisprudenza delle Corte Edu, che ha riconosciuto la violazione dell’art. 5 § 1 CEDU in un caso in cui la composizione dell’organo che ha emesso la pronuncia non era quella prevista dalla legge[20]. Si tratterebbe, richiamando le categorie processuali del nostro ordinamento, un vizio che attiene alle condizioni di capacità del giudice – tra le quali rientra la violazione della competenza del Tribunale per i minorenni – che comporta la nullità prevista dall’art. 178 c. 1, lett. a), c.p.p.
Sempre in relazione all’art. 5 CEDU, il Tribunale richiama l’attenzione sul § 4, inerente al diritto della persona privata della libertà personale di proporre ricorso a un tribunale che si pronunci sulla legalità della detenzione e che ordini la scarcerazione qualora riscontri che la detenzione è illegale. Il giudice a quo individua nei limiti imposti al sindacato del giudice dell’esecuzione dall’art. 670 c.p.p. una compressione del diritto del condannato all’accertamento dell’illegalità della detenzione, anche in casi – come quello all’esame del Tribunale di Bologna – in cui “l’illegalità procedurale realizzata dalla violazione della competenza del giudice sia talmente grave e manifesta da minare alla radice l’atto della cui esecuzione si tratta”[21].
Infine, il giudice a quo prospetta un contrasto dell’art. 670 c.p.p. con l’art. 25 Cost.: la norma processuale consentirebbe l’elusione del principio del giudice naturale precostituito per legge perché permette l’esecuzione di una pena inflitta con una sentenza emessa in violazione della competenza funzionale del Tribunale per i minorenni.
7. I dubbi di legittimità costituzionale prospettati non sono, ad avviso del Tribunale, superabili mediante una interpretazione costituzionalmente conforme, in ragione del dato letterale, che sembrerebbe precludere una simile operazione. L’art. 670 c.p.p., infatti, circoscrive in modo chiaro il sindacato del giudice dell’esecuzione e sembrerebbe precludere, al di fuori dell’ipotesi eccezionale delle norme sull’irreperibilità, la deducibilità di vizi attinenti al merito processuale e sostanziale del titolo. Non sarebbe possibile, infine, assimilare la manifesta nullità della sentenza – come nel caso di specie – alla “mancanza” del titolo. Per questo, il Tribunale di Bologna solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 670 c.p.p. per violazione degli artt. 3, 10, 25, c. 1 e 117 Cost, in riferimento all’art. 5 § 1 lett. a) e § 4 CEDU.
[1] B. Lavarini, L’incidente di esecuzione a rimedio della pena e della condanna illegale: tra riforme “pretorie” e mancate riforme legislative, in Arc. pen., n. 3/2019, p. 1.
[2] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 9.
[3] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 2.
[4] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 2.
[5] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 4.
[6] Cfr., di recente, Cass., Sez. I, 8 febbraio 2019, n. 10577.
[7] In particolare, il legislatore delegato aveva tenuto conto delle indicazioni contenute nelle Regole minime delle Nazioni Unite per l’amministrazione della giustizia minorile del 1985, oltre che della Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 87/20.
[8] Art. 2, r.d.l. n. 20 luglio 1934, 1404, come sostituito dall’art. 4, l. 27 dicembre 1956, n. 1441.
[9] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 6.
[10] In particolare, il riferimento è all’art. 14 c.p.p., ai sensi del quale la connessione tra i procedimenti non opera fra: a) procedimenti relativi a imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimento relativi a imputati maggiorenni; b) procedimenti per reati commessi da minorenne e procedimenti nei confronti del medesimo soggetto inerenti a reati commessi quanto era maggiorenne.
[11] Dal combinato disposto degli artt. 67 c.p.p. e 8 D.P.R. n. 448/1988 emerge che in caso di incertezza sull’età dell’imputato, il giudice deve trasmettere gli atti alla Procura per i minorenni affinché si proceda a perizia sull’età e che se, anche dopo la perizia, permane il dubbio, la minore età si presume ad ogni effetto, tra cui quello della competenza, che spetta al Tribunale per i minorenni.
[12] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 7.
[13] L’applicazione della pena su richiesta delle parti è un rito non applicabile nel sistema processuale minorile perché presuppone che l’imputato abbia una capacità di valutazione e di decisione, derivante da una piena maturità e consapevolezza, che posso difettare nel minore. La scelta legislativa ha trovato poi riscontro in alcune pronunce della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della preclusione in parola. Sul punto si vedano le seguenti sentenze, richiamate nell’ordinanza di rimessione: C. cost., 20 aprile 1995, n. 135 e C. cost., 6 luglio 2000, n. 272.
[14] V. C. cost. n. 253/2020. Meno recente, C. cost. n. 344/1990, in cui si legge che “la rilevanza di una determinata questione va valutata, non già in relazione agli ipotetici vantaggi di cui potrebbero beneficiare le parti in causa, ma, piuttosto, in relazione alla semplice applicabilità nel giudizio a quo della legge di cui si contesta la legittimità costituzionale e, quindi, alla influenza che sotto tale profilo il giudizio di costituzionalità può esercitare su quello dal quale proviene la questione”.
[15] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 14.
[16] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 16.
[17] Il giudice a quo fa riferimento alle seguenti fonti internazionali: la Dichiarazione dei diritti del bambino, adottata dalla Quinta Assemblea Generale della Lega delle Nazioni nel 1924; la Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata delle Nazioni Unite nel 1959; le Regole di Pechino del 1985 e la Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 87/20.
[18] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 16.
[19] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 16.
[20] L’ordinanza fa riferimento, in particolare, al caso Yefimenko c. Russia, deciso dalla C. Edu con sentenza del 12 febbraio 2013.
[21] Trib. Bologna, 23 dicembre 2020, p. 16.