Cass. Sez. VI, sent. 3 marzo 2022 (dep. 6 aprile 2022), n. 13145, Pres. Criscuolo, est. De Amicis
1. La sentenza della Corte di Cassazione (Sez. VI penale), che può leggersi in allegato, si segnala per aver interpretato la norma incriminatrice dell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) in senso conforme all’orientamento giurisprudenziale consolidato in punto di elemento oggettivo[1]. In particolare, si ribadisce il principio per cui l’eccesso dei mezzi di correzione violenti non può sussumersi dentro la fattispecie di cui all’art. 571 c.p. poiché il presupposto applicativo di tale norma, imperniata su una condotta di abuso, consiste nella liceità dei mezzi adoperati, che difetta allorquando l’agente ricorra alla violenza, modalità ormai da tempo ritenuta di per sé illecita.
L’imputazione a carico di una insegnante di sostegno concerneva l’aver abusato dei mezzi di disciplina nei confronti di un minore a lei affidato per avergli spinto la testa nel lavandino ovvero nello scarico del bagno della scuola.
2. I profili essenziali in punto di fatto possono essere così riassunti.
Il 25 marzo 2013, sulla base di quanto riferito dalla madre del minore, era intercorso un diverbio fra quest’ultimo e l’insegnante di sostegno che lo stava accompagnando in bagno. Nell’ambito dell’alterco, l’insegnante aveva stretto il collo del bambino, tentando di spingergli la testa in uno dei lavandini e nel gabinetto. Secondo quanto emerso in sede di istruzione dibattimentale dalla testimonianza di una collega dell’imputata, il bambino appariva spaventato al suo ritorno in aula, con gli occhi lucidi ed un arrossamento nella parte posteriore del collo. Tale ricostruzione non era smentita dalla consulenza tecnica del P.M. da cui risultava che la persona offesa, seppur iperattiva ed affetta da un significativo deficit di attenzione, poteva considerarsi pienamente capace di percepire la realtà e riferirla correttamente.
La difesa contesta in sede di ricorso per cassazione tale ricostruzione dei fatti, ritenendo non pienamente provato il fatto storico in base al rilievo per cui nessuno dei testi era presente al momento degli accadimenti e che coloro i quali hanno per primi avuto contatti con il minore non hanno confermato in sede istruttoria i fatti oggetto d’imputazione. In particolare, in chiave difensiva, viene valorizzato il dato per cui dalla stessa ricostruzione fornita dal minore emergerebbe che l’unica condotta ascrivibile all’imputata sarebbe consistita in un tentativo di «mettere la faccia nel lavandino», senza alcun riferimento ad ulteriori profili.
Sul punto, la Corte di legittimità ritiene immune da vizi logico-giuridici la ricostruzione fattuale operata dal giudice di merito. Si valorizza, sul punto, la plausibilità del ragionamento inferenziale in base al quale si è ritenuta l’occorrenza di un evento traumatico lungo l’arco temporale dell’allontanamento dello scolaro dall’aula, in ragione del fatto che proprio in quel lasso di tempo si è manifestato l’arrossamento sul collo della persona offesa e che la stessa imputata aveva ammesso di averlo accompagnato in bagno ed aver avuto con lui una discussione per motivi disciplinari.
3. Come si è premesso, la sentenza in commento si caratterizza per un pieno adeguamento ai principi consolidati in materia di elemento oggettivo del delitto di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.
Il criterio distintivo fra la fattispecie ex art. 571 c.p. e i delitti contro la persona che possono eventualmente collocarsi nel contesto di una relazione educativa viene individuato nell’astratta liceità del mezzo educativo-correttivo utilizzato.
L’evoluzione della sensibilità sociale cui è corrisposta una speculare riformulazione delle categorie giuridiche rilevanti ha comportato, nel corso degli anni, il consolidamento di una linea evolutiva in materia di educazione del minore.
Esso, infatti, è oggi riconosciuto dall’ordinamento, specialmente a seguito della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza[2], come soggetto di diritti e non più semplice oggetto di protezione, o disposizione, da parte degli adulti di riferimento.
Tale constatazione, valorizzata nella motivazione, si accompagna con le più avvedute evoluzioni in materia pedagogica, altresì valorizzate nella motivazione, in base alle quali risultano destituite di fondamento le concezioni che ammettevano la liceità dell’uso della violenza fisica o psichica per finalità correttiva o disciplinare.
Per quanto detto, insomma, si ritiene che l’ordinamento penale non possa ammettere norme che legittimino il ricorso a forme di violenza, da ritenere di per sé illecita, al di fuori, beninteso, delle cause di giustificazione normativamente previste, a prescindere dalla finalità correttiva-educativa che tali condotte eventualmente sorregga.
Si afferma, più in particolare, che l’utilizzo di metodi coercitivi violenti per finalità educative non è mai consentito e ciò rende di per sé preclusa l’operatività del delitto ex art. 571 allorché a tali mezzi si ricorra.
La fattispecie, infatti, – questo è il punto – presuppone l’uso non appropriato di mezzi che siano ordinariamente consentiti, e che la motivazione della sentenza annotata esemplificativamente individua nell’esclusione temporanea dalle attività ludiche, nell’obbligo di condotte riparatorie o nel ricorso a forme di rimprovero non riservate, ferma restando la necessità di informare il potere educativo-disciplinare a principi di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti devianti di volta in volta oggetto di repressione.
Con un’efficace formula, la Cassazione sintetizza il proprio orientamento affermando che «intanto è ipotizzabile un abuso (punibile in maniera attenuata) in quanto sia lecito l’uso»[3]: si precisa, infatti, che solo «l’eccesso di mezzi giuridicamente leciti» possa «trasformare l’uso in abuso, avendo il legislatore delineato i tratti identificativi della condotta sulla base di un modello di incriminazione che essenzialmente valorizza la precondizione della liceità del mezzo impiegato».
Viceversa, l’illiceità del mezzo adoperato ovvero l’utilizzo del medesimo con modalità non ammesse rende strutturalmente inapplicabile l’art. 571 c.p., dovendosi, in tal caso, sussumere le condotte entro altre fattispecie a tutela della persona (esemplificativamente, maltrattamenti, percosse, lesioni ed omicidio).
Riassuntivamente, dunque, può affermarsi che esula dal perimetro applicativo della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione qualsiasi forma di violenza: ciò si fonda sul principio del primato della dignità della persona, che gioca un ruolo particolarmente significativo allorché si tratti di tutelare la personalità del minore, che deve essere salvaguardata da qualsiasi condotta la quale, benché motivata sulla base di ragioni educative, si traduca in interventi prevaricatori con carattere di vessazione.
Da quanto sin qui ricostruito, deriva il proscioglimento dell’insegnante imputata: la sua condotta, infatti, si situa strutturalmente oltre il confine della liceità e deve, perciò, sussumersi entro la diversa fattispecie di percosse titolo di reato per il quale, in ragione della procedibilità a querela di parte non presentata nei termini, risulta precluso qualsiasi accertamento di penale responsabilità.
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4. La sentenza in commento fornisce l’occasione per una sintetica ricapitolazione dell’evoluzione interpretativo-applicativa che ha interessato la fattispecie di cui all’art. 571 c.p. dal tempo dell’entrata in vigore del Codice ad oggi.
Si è, in primo luogo, provveduto ad un ripensamento in ordine all’oggettività giuridica[4] presidiata con l’incriminazione: se, infatti, la dottrina più risalente individuava come ratio della norma l’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia istituzionale, viceversa, l’impronta personalistica che permea il quadro costituzionale oggi vigente ha suggerito l’individuazione del bene giuridico nella tutela dell’individualità del soggetto passivo, a prescindere dalla sua collocazione nell’ambito del contesto istituzionale della famiglia.
Come chiaramente emerge anche dal tenore motivazionale della sentenza, maggiori innovazioni si sono riscontrate in ordine all’individuazione dell’elemento oggettivo del reato.
Nell’ottica del legislatore storico, dall’enucleazione della fattispecie deriverebbe l’implicito riconoscimento di un potere di supremazia tale da legittimare forme limitative della libertà personale, ammettendo anche il ricorso alla violenza fisica in funzione punitiva in caso di trasgressioni disciplinari cui far fronte, da parte dell’educatore, attraverso l’esercizio dello ius corrigendi, il cui unico limite consisterebbe nel non mettere a repentaglio l’integrità fisica del soggetto passivo.
Tale sottolineatura consente di dar conto della diversità di opinioni interpretative in ordine alla collocazione sistematica del pericolo di malattia, da taluni inquadrata come elemento costitutivo (evento del reato), da altri come condizione obiettiva di punibilità (intrinseca), con tutte le conseguenze applicative che da tale scelta derivano in ordine all’individuazione del momento consumativo nonché alla latitudine dell’elemento soggettivo.
Aderendo alla concezione personalista che suggerisce il reinquadramento della fattispecie de quo nell’alveo dei delitti contro la personalità individuale, pare preferibile l’opzione ermeneutica che ravvisa nel pericolo di malattia l’evento del reato, in quanto certamente pertinente alla valutazione astratta di disvalore sottesa all’incriminazione. Viceversa, l’interpretazione storica di matrice istituzionalistica, che interpretava l’art. 571 c.p. come norma preposta alla tutela del rapporto familiare o, comunque, educativo, farebbe propendere verso l’inquadramento del pericolo di malattia nel novero delle condizioni intrinseche di punibilità, in quanto il fatto sarebbe di per sé già offensivo dell’ordine familiare, e la scelta di punirlo deriverebbe da una valutazione politico-criminale che tenga conto del raggiungimento di una certa rilevanza dell’offesa.
Da ultimo, sempre prendendo in considerazione la tipicità dell’illecito, è opportuno dar conto di un orientamento ormai largamente minoritario e recessivo, secondo il quale, in casi eccezionali di necessità, sarebbe possibile ritenere sussistente il delitto de quo allorché l’agente ricorra ad una vis modicissima, per cui non potrebbero ritenersi preclusi «quegli atti, di minima violenza, fisica o morale, che risultino necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti la inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente»[5].
Tale assunto, incidentalmente richiamato dalla sentenza in commento attraverso il riferimento ad una successiva, isolata, pronuncia[6], è ormai non condiviso dall’interpretazione consolidata cui pienamente aderisce la sentenza in commento e che nega qualsiasi legittimità a forme di violenza per scopi educativi.
La riqualificazione officiosa della condotta dell’insegnante operata dalla Suprema Corte nella sentenza qui esaminata nella diversa fattispecie di percosse legittima, da ultimo, un fugace cenno alla nozione di «malattia» rilevante ai fini che interessano il delitto in esame.
Pur senza analizzare ex professo tale profilo, la Corte pare aderire all’orientamento più restrittivo che ritiene necessario l’accertamento dell’innesco di un processo patologico in grado di provocare alterazioni funzionali dell’organismo, conformemente a quanto si richiede ai fini dell’integrazione del delitto di lesioni[7].
Viceversa, un orientamento più estensivo, precedentemente formatosi proprio in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 571 c.p. ritiene che «la nozione di malattia rilevante» a tal fine sia «più ampia di quella relativa al reato di lesione personale, comprendendo ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d’ansia all’insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento»[8].
[1] Cass. pen., Sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 11777 imp. P.P., in CED Cass. Pen., 278744; Cass. pen., Sez. V., 16 luglio 2015, n. 47543, imp. G., in CED Cass. Pen., 265496 Cass. pen., Sez. VI, 14 giugno 2012, n. 34492, imp. V., in CED Cass. Pen., 253654; Cass. Pen., Sez. VI, 18 marzo 1996, n. 4904, imp. Cambria, in CED Cass. Pen., 205033
[2] Convention on the Rights of the Child, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con Legge 27 marzo 1991, n. 176
[3] Cfr. p. 6 della motivazione
[4] Cfr. F. Antolisei, Manuale di Diritto penale, Parte speciale, vol. I, XVI edizione, Milano, 2016, pp. 712ss.
[5] Cass. pen., Sez. VI, 7 novembre 1997, n. 3789, imp. Paglia, in CED Cass. Pen., 211942
[6] Cass. pen., Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 9954, imp. M., in CED Cass. Pen., 266434 per cui «integra il reato di abuso dei mezzi di correzione di disciplina il comportamento dell’insegnante che faccia ricorso a qualunque forma di violenza, fisica o morale, ancorché minima ed orientata a scopi educativi», principio affermato in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva ricondotto al reato in esame la condotta di un’insegnante che aveva sottoposto i bambini a lei affidati a violenze fisiche, consistite in schiaffi o nel tirare loro i capelli con forza, ovvero a volenza psicologica e, ancora, a condotte umilianti, come il minacciarli dell’arrivo di un diavoletto, nel costringerli a cantare o mangiare, nel farli tenere la lingua fuori dalla bocca.
[7] Cass. Pen., Sez. Un., 18 dicembre 2008, n. 2437, imp. Giulini, in CED Cass. Pen. 241752
[8] Cass. Pen., Sez. III, 22 ottobre 2009, n. 49433, in CED Cass. Pen., 245753