Pubblichiamo di seguito il testo riadattato dell'intervento del prof. Franco Prina nella puntata del 23 ottobre 2024 dedicata al tema "Abolizionismo e giustizia penale minorile" del podcast "Dialoghi abolizionisti".
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1. Riflettere sulla prospettiva abolizionista guardando alla giustizia penale minorile, in particolare nel nostro Paese, è compito in qualche modo agevole e di grande importanza in quanto consente di svolgere molti ragionamenti utili alla riflessione sulle più ampie strade che si possono realisticamente ed efficacemente intraprendere per perseguire quella prospettiva. Considerando in questo senso il minorile come ambito che da sempre (e, ripeto, in modo particolare in Italia) fa da apripista per scelte nella direzione che qui discutiamo.
Il nostro ragionamento non può non prendere le mosse da quello che è definito il processo penale minorile (ovvero la specifica procedura che regola la risposta penale ai comportamenti reato messi in atto da minorenni) così come in vigore dal 1° gennaio 1989, in attuazione del DPR 448 del 1988. Dunque, da ben 35 anni, senza – fortunatamente – significative variazioni o contro-riforme, quantomeno fino a questi ultimi mesi.
2. Ebbene proprio nelle norme – e prima ancora nei principi che ad esse sottostanno – troviamo elementi che alla prospettiva abolizionista (ancorché non esplicitamente) si ispirano. Proviamo a elencarli sinteticamente:
3. Molto si è scritto a proposito di questa impostazione di fondo che sappiamo essere stata frutto di un lungo percorso che ha visto un fecondo incontro – negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso – tra una cultura giuridica “interna” (penso ai presidenti di tribunali e ai giudici minorili che tutti ricordano per i loro scritti e le loro posizioni, come A.C. Moro, Vercellone, Meucci, Cividali, Battistacci) e una cultura giuridica “esterna” che definiva con categorie sociologiche e psicologiche forti e non tradizionali la personalità dei soggetti in fase evolutiva, i contesti e le condizioni sociali favorenti la commissione di reati, le carenze relazionali che ne limitavano le opportunità e le scelte, la natura e il significato – per ogni specifico minorenne – del compimento di tali atti. Ma soprattutto una cultura che aveva tematizzato gli effetti perversi delle risposte penali tradizionali, assumendo i principi e le acquisizioni delle teorie della reazione sociale e dell’etichettamento e delle teorie critiche che le integravano in un quadro di riferimento politico più ampio. Da cui derivava la teorizzazione dell’esigenza di rendere davvero residuale la risposta al reato fondata sul ricorso alla carcerazione o comunque all’istituzionalizzazione. E, ancora più estesamente, l’affermazione dei principi di minima offensività, adeguatezza, personalizzazione, non stigmatizzazione come cardini del “procedere” nei confronti di minorenni autori di reato.
3.1. Tali principi, lo ricordiamo, significano:
È da questo incontro tra culture giuridiche così orientate con le culture politiche che caratterizzavano un tempo aperto alle riforme e ispirato all’attenzione in modo particolare ai bisogni dell’infanzia e dell’adolescenza che matura e si formalizza quel processo penale minorile che ho sopra richiamato.
4. Se proviamo a fare oggi un bilancio sull’applicazione del DPR 448 del 1988 in questi 35 anni possiamo dire che ha rappresentato un grande “esperimento sociale” intorno a un diverso – rispetto a quelli tradizionali ancora in molti paesi praticati – possibile modo di trattare il reato e gli autori di reato. Esperimento che si fonda sulla scommessa di successo di una impostazione ispirata almeno in parte ai principi e alle proposte dell’abolizionismo penale e che possiamo dire essere stata sostanzialmente vinta.
Lo stanno a dimostrare alcuni dati (riferiti agli anni fino al 2022, dal momento che, come diremo più avanti, i dati in particolare riferibili al ricorso al carcere sono in cambiamento a partire dal secondo semestre del 2023) che qui non possiamo che richiamare (possono essere agevolmente reperiti sul sito del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità e nei rapporti di Antigone dedicati ai minori).
Essi mostrano:
5. Questi i dati sulla risposta al reato minorile. Ma per parlare di riuscita dell’esperimento sociale che abbiamo evocato, la domanda che ci si può porre è: quali esiti, relativamente al fenomeno delinquenza minorile, questa impostazione ha avuto negli anni? Sono fondati i timori – spesso affioranti nel dibattito pubblico – che una relativamente debole afflittività della risposta ai reati compiuti da minorenni, un certo “lassismo” e “indulgenzialismo” percepito dai protagonisti favorisca l’estendersi delle condotte criminali?
Sempre per riferirsi a dati, pur con i noti limiti delle statistiche del settore, sappiamo che i minorenni denunciati nel trentennio 1992-2021 hanno visto certamente delle oscillazioni, ma mai “esplosioni” come in altri paesi: 27.000 nel 1992; 20.000 nel 2002; 22.500 nel 2012; 30.000 nel 2021, dopo un significativo ma inevitabile calo nei due anni di Covid.
Vedremo quali tendenze prevarranno nel prossimo futuro. Ma questo non toglie che si possa affermare che la storia di questi decenni ha dimostrato la validità di assunti e presupposti ispirati a una prospettiva – anche se parzialmente – abolizionista. Tanto che ha consentito di contenere o quanto meno attenuare tendenze alla crescita di comportamenti verificatasi in altri paesi anche vicini a noi (penso, come esempio, alla Francia), che ha oggi in istituzioni penali di contenimento, assimilabili ai nostri IPM, 3.600 minorenni, 10 volte tanto i nostri.
Se i dati di insieme – che meriterebbero ovviamente approfondimenti analitici che qui non sono possibili – ci consentono comunque di affermare che la strada intrapresa deve e può essere perseguita, anche con un maggiore coraggio. Ad esempio, operando la scelta di chiudere del tutto gli IPM, per quanto nelle loro strutture fisiche e nel loro funzionamento (con la presenza predominante di agenti di polizia penitenziaria) rappresentano ancora istituti governati dalla logica carceraria. Per sostituirli con altri contesti a forte valenza educativa ancorché di contenimento per alcune situazioni particolarmente problematiche. Che potrebbero farsi carico di 200 minorenni mediamente presenti oggi in IPM con costi di gran lunga inferiori e con esiti sicuramente migliori.
6. È possibile andare in questa direzione? Non è facile, soprattutto in questi tempi. I motivi sono diversi. Da un lato oggi certamente percepiamo molti segnali di aggravamento della situazione sociale e della diffusione di forme di devianza e criminalità minorile più preoccupanti, che trovano grande risonanza nei media e nel dibattito politico. Una tendenza recente che possiamo dire rispecchia l’accresciuta problematicità di alcune condizioni di adolescenti e giovani che vivono forme di disagio psicologico più diffuse, vivono con insofferenza regole e norme, sono esposti a modelli di possesso di beni e di affermazione di sé connotati da aggressività e violenza, si confrontano con prospettive di futuro altamente incerte. E, se pensiamo ai minorenni di origine straniera (non accompagnati o di seconda generazione), che vivono condizioni sempre più caratterizzate da ostilità e difficoltà di integrazione.
Le stesse istituzioni (anche nelle forme di accoglienza non carcerarie) fanno molta fatica a “contenere” e soprattutto a motivare al cambiamento minorenni e giovani adulti con crescenti difficoltà personali e relazionali e dunque dovrebbero interrogarsi e ripensare a come affrontare queste difficoltà, a come incontrare e aiutare a crescere anche i ragazzi più problematici, mantenendo saldi i principi della giustizia minorile e guardando a una prospettiva di ulteriore miglioramento del sistema e delle forme di risposta al reato.
Ma se in questa direzione sono impegnati ancora molti giudici minorili e molti operatori delle istituzioni, ben altro orientamento prevale soprattutto a livello politico, con il riemergere di proposte che sono state sempre fin qui respinte: l’abbassamento dell’età dell’imputabilità, la limitazione alle possibilità di ricorso alle MAP e riduzione degli automatismi che rendono più residuale il ricorso alle carcerazioni. Dunque, più carcere anche per i minorenni e, soprattutto, per i giovani adulti che oggi possono rimanere in IPM fino a 25 anni.
Alcuni di questi orientamenti si stanno traducendo in norme che incidono sui principi e le prassi che abbiamo descritto. Lo si vede ancora una volta nei numeri. A partire dal secondo semestre del 2023, per effetto delle disposizioni normative intervenute anche nel settore minorile (in particolare il D.l. 15 settembre 2023, convertito con modifiche in L. 13 novembre 2023, n. 159, il cosiddetto “decreto Caivano”), assistiamo a una rilevante crescita delle presenze negli Istituti: se la media del 2023 è di 425 presenze, passa alle 540 del primo semestre del 2024 (e a 552 il 31/10), tetto mai raggiunto dal 1990, con una percentuale di minorenni oggi pari al 60%.
7. È dunque molto forte il rischio che il populismo penale arrivi a incidere anche sulle vicende della giustizia minorile, nonostante le prove del suo buon funzionamento e le convinzioni di esperti, di chi fa ricerca e riflette seriamente sulle vicende di questi decenni.
Chi non cessa di credere ai princìpi richiamati e osserva quanto la loro applicazione abbia prodotto in questi 35 anni, qualche considerazione di più ampio respiro può essere svolta in conclusione.
La scommessa che, come abbiamo visto, è stata in gran parte vinta potrà continuare ad essere vinta se la giustizia penale minorile non cesserà di essere fortemente interconnessa, attraverso i servizi dei CGM, al territorio, ai suoi servizi sociali e sanitari, alle risorse che animano le comunità locali. In altre parole, se continuano ad essere estese e radicate le politiche sociali che hanno sofferto e sono state ridimensionate negli ultimi decenni e che vanno invece rivitalizzate e aggiornate rispetto a nuove condizioni sociali in cui crescono le nuove generazioni e gli adulti con ruoli educativi che li accompagnano.
Tutti sono consapevoli che il reato minorile – ma questo vale anche per gli adulti – è sempre segno di qualche cos’altro che non ha funzionato prima della commissione di reati, con riferimento soprattutto alle funzioni educative e alle opportunità negate ai ragazzi di realizzazione, di integrazione, di speranza nel futuro. O che ha rappresentato una pressione culturale e sociale forte cui non si sa resistere, soprattutto se si è privi di strumenti critici: pensiamo alla spinta al consumo o al possesso a tutti i costi di beni simbolicamente rilevanti.
Se questo è vero, la principale carta da giocare per la prospettiva abolizionista è la prevenzione, che implica istituzioni e società impegnati in una cura delle nuove generazioni che ne accompagnino la crescita e ne facciano protagonisti attivi del loro futuro, assicurando loro le condizioni che li favoriscono. Attraverso l’ascolto, il dialogo, la comprensione soprattutto di quelli che fanno maggiore fatica a integrarsi e a trovare la propria strada in maniera equilibrata.