Recensione a G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Zanichelli, 2022
1. L’attacco che il giornalista Saverio Lodato ha sferrato a Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, durante una trasmissione televisiva dedicata alla cattura di Matteo Messina Denaro, si presta a fungere da attendibile misuratore della condizione patologica di inagibilità discorsiva, in cui versa il confronto pubblico in tema di giustizia, ancor più quando a venire in rilievo siano le questioni dell’impegno, civile e istituzionale, sul fronte del contrasto all’agire mafioso.
Al centro dell’aggressione, che, a distanza e senza contraddittorio, ha finanche acquisito connotati di squadrismo verbale a causa del silenzio del conduttore e del magistrato presente – vero convitato della polemica, anche in quanto coautore di Lodato di libri sull’argomento –, stanno le idee e le posizioni critiche espresse dai due insigni studiosi sulle questioni del processo alla c.d. trattativa Stato-Mafia (La mafia non ha vinto, Laterza, 2014), evocate dall’autore dell’invettiva nella versione (dal taglio prettamente giuridico) racchiusa nell’articolo a firma del solo Fiandaca, apparso sul Foglio sotto il titolo Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca.
L’insolenza delle accuse di Lodato è apparsa, sin nell’immediato, sgradevolmente raccapricciante: a suo avviso, demolendo nei loro scritti il fondamento di quel processo, quegli intellettuali (da lui definiti menti raffinate) si sono comportati come espressione della borghesia mafiosa, vale a dire la torbida entità la cui impegnata e sottilmente articolata opera di delegittimazione delle indagini sui livelli elevati delle collusioni mafiose avrebbe sinora impedito di assestare il colpo mortale a Cosa nostra.
Trova, così, conferma come la discussione in materia resti ipotecata da fanatismi dogmatici e preconcetti demagogici, con effetti che impediscono al confronto delle idee qualsiasi capacità di raggiungere forme di intesa ed esiti di razionalità discorsiva. In tale orizzonte, infatti, accade che quanti predicano un law enforcement senza limiti di sorta – in nome di una concezione della giustizia quale fattore di bonifica e profilassi sociale e strumento di moralizzazione pubblica –, non mancano di fare ricorso alla fatwa civile verso chi reputa, all’opposto, che Stato di diritto, democrazia costituzionale e garantismo penale rappresentino categorie (ad oggi) irrinunciabili della teoria e della pratica politica, etichettandolo fiancheggiatore del crimine e nemico del popolo degli onesti.
Si tratta di aspetti distorsivi di disconnessione semantica che nuocciono alla virtuosità dialettica del confronto intersoggettivo di idee e che, purtroppo, non sono presenti soltanto nel discorso pubblico laico. Chi non soffre di amnesia breve, ricorderà come nel 1996, a latere di un convegno sui temi della legislazione antimafia e dei suoi orizzonti di riforma, vi fu da parte delle prime linee della magistratura inquirente palermitana una piccata reazione alla prospettiva – affacciata da Giovanni Fiandaca e ripresa dall’allora responsabile della giustizia del partito democratico della sinistra – di riportare il concorso esterno nell’alveo di una stretta tipicità legale (per una ricostruzione, G. Fiandaca, Il concorso esterno agli onori della cronaca, in Foro it., 1997, V, 1). Come prontamente rilevato dallo stesso giurista, il fatto emblematizzava la connotazione tabuistica che avevano assunto le questioni relative al controllo giudiziario dei comportamenti (predicabili di) mafiosi(tà), che per questo venivano a confluire in una sorta di coprifuoco intellettuale, la cui violazione avrebbe trascinato l’improvvido autore “in una sorta di guerra di religione tra «filomafiosi» e «antimafiosi»”, trasformandolo “nel solito fiancheggiatore «oggettivo» delle organizzazioni criminali” (così, G. Fiandaca, op. cit.).
2. Sembra sufficientemente chiaro come l’episodio da cui siamo partiti confermi la perdurante difficoltà delle ragioni del diritto a imporsi nelle sedi chiamate ad affrontare gli argomenti caldi della politica criminale. Qui, continuano a prevalere visioni di massimalismo giustizialista delle strategie di controllo repressivo che, sulla spinta esasperante – e solo in apparenza nobile – dell’intransigenza etica e dell’indignazione morale, mettono fuori gioco i compiti di Magna Charta del diritto penale e assegnano al lavoro dei tribunali l’ufficio notarile di certificare la prova sociale della reità degli imputati.
Il danno che questo stereotipo di giustizia penale produce sul costituzionalismo delle garanzie individuali è enorme, al punto da risultare fuori controllo.
La sua diffusione – favorita da meccanismi di asservimento e subalternità mediatica alle pulsioni tipiche del sensazionalismo – finisce, infatti, per condizionare i due formanti del diritto, legislativo e giurisdizionale. Entrambi essendo costretti a fare i conti con le implorazioni vocianti della piazza, quando non addirittura con le attese forcaiole delle tricoteuses: l’uno per esigenze di autolegittimazione innanzi al tribunale del consenso; l’altro a causa dell’ingresso dello Zeitgeist tra le precomprensioni e i bias cognitivi del suo agire ermeneutico.
Il richiamo al celebre ammonimento di Böckenförde, secondo cui “Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”, appare qui quanto mai opportuno per evidenziare la connessione (per implicazione) tra il riconoscimento sociale dei valori del garantismo penale (tra cui, innanzitutto, l’intrinseco relativismo assiologico ed epistemico – in rapporto alle prognosi di efficacia teleologica – delle scelte incriminatrici e sanzionatorie) e l’effettività di un modello di giustizia su di essi fondato.
Di qui la necessità di socializzare i caratteri di questo paradigma, alfabetizzare l’opinione pubblica col suo linguaggio, così riducendo la distanza tra la contro-intuitività dei requisiti che ne strutturano lo statuto e la consapevolezza sociale della relativa giustificazione (storica e politico/costituzionale).
Lo aveva còlto con acuta lucidità Leonardo Sciascia, impegnandosi – da intellettuale libero dalle gabbie concettuali dello specialismo disciplinare del diritto che talvolta allontanano dall’umanesimo della vita, – in un’opera di didascalia civile diretta a far progredire, nella sfera parallela dei laici, la cultura del rispetto dei diritti dell’accusato sul versante sdrucciolevole dei processi di mafia, avvertendo come fosse (oltre che diritto) dovere dell’opinione pubblica vigilare con metodo critico sull’amministrazione della giustizia.
Dopo aver evidenziato come quest’ultima avesse assunto (erano i tempi nei quali la sensibilità garantistica dello scrittore di Racalmuto era stata posta al cospetto della barbarie del processo Tortora) “un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile”, generando una situazione “di irresponsabilità, di privilegio, di refrattarietà e insofferenza ad ogni critica in cui pare la magistratura tenda ad arroccarsi”, Sciascia ammonisce la società ad esercitare il controllo critico “su ogni caso giudiziario che presenti oscurità e contraddizioni” e a distinguere “tra i giudici migliori e i giudici peggiori”, poiché “nessuno, anche se sprovvisto di ogni supporto diciamo tecnico” può considerarsi “estraneo o profano all’amministrazione della giustizia”.
3. Purtroppo il metodo sciasciano non ha fatto proseliti, troppo impegnativo e rischioso (sui diversi piani della carriera, della tranquillità reputazionale e della stessa sicurezza occupazionale) essendo il modello di intellettuale (studioso, scrittore, giornalista) che avrebbe dovuto darvi copertura e interpretarlo. È accaduto, anzi, che nel discorso pubblico si sia ampliato, con l’affermarsi dello spirito politically correct, il novero di quelli che lo scrittore definiva “devoti di ogni devozione (..) sempre pronti ad accendere il fuoco sotto chi non si conforma alla loro devozione”. L’effetto è una situazione di oggettivo degrado della ragione pubblica penalistica, di cui l’indecente esternazione di Saverio Lodato rappresenta soltanto la più recente manifestazione di un satrapismo spocchioso che si muove all’ombra del compiacente mainstream.
Ecco, allora, perché dobbiamo essere grati a Giovanni Fiandaca che – in pressoché ideale continuità con l’imprinting del suo grande e illustre conterraneo – ha deciso di mettere le mani nella pasta, offrendo la sua raffinata esperienza di giurista accademico, ma curioso frequentatore del diritto come è e come funziona, al servizio dell’interesse pubblico a conoscerne le ragioni profonde, aiutando il pubblico degli osservatori ‘non chierici’ a leggere norme, linee di politica del diritto, vicende processuali, decisioni giudiziali e comportamenti degli uomini in toga oltre le apparenze e le narrazioni diffuse dal (e nel) circuito dei corifei della democrazia giudiziaria.
Oltre a smascherare demagogia e inganni delle varie forme di comunicazione pubblica impegnate a raccontare una giustizia ritenuta giusta perché vendicatrice delle soperchierie di regime e delle diseguaglianze sociali, l’impegno del Maestro consiste nel denunciare i divari tra le prassi – di scelte legislative e di dinamiche giurisdizionali – e la dimensione di deontologia costituzionale del sistema di giustizia penale, prosciugando con gli strumenti dell’analisi giuridica il bacino semantico cui attingono la demagogia politica e l’agire populistico delle istituzioni coinvolte nelle strategie.
La strada percorsa è stata quella di una ricca presenza sulle colonne del quotidiano Il Foglio, con articoli scritti a latere (nell’imminenza o in occasione) di molti fatti della vita (giudiziaria, legislativa, politico/istituzionale) ove risuonano echi del diritto, che il Maestro ha voluto raccogliere nel volume, edito da Zanichelli, dal titolo Giustizia penale e dintorni – Dieci anni di intervento sul Foglio.
Nella Prefazione è lo stesso autore a esporre le ragioni della collaborazione al quotidiano e della pubblicazione del volume, i criteri di strutturazione interna con l’accorpamento degli interventi in diciassette paragrafi, proponendone infine una chiave di lettura.
Pur se dedicati a temi differenti e in apparenza non sempre sovrapponibili, i contributi sono legati da un filo rosso, costituito – come osserva lo stesso Fiandaca – “da una netta opposizione critica alla pretesa – ricorrente nella realtà politica e giudiziaria italiana degli ultimi decenni – di poter utilizzare legittimamente ed efficacemente il diritto e il processo penale per scopi di amplissima portata che, per un verso, trascendono in realtà le capacità di prestazione della giustizia punitiva; e il cui perseguimento, per altro verso, ha prodotto e può continuare a produrre l’effetto o di sovraesporre politicamente il potere giudiziario, ponendolo in aperto conflitto o in forte tensione con gli altri poteri statali, oppure ancora di caricarlo di compiti che più propriamente spettano ad attori sociali o culturali operanti fuori dalla sfera giuridico-istituzionale”.
Ad avviso dell’illustre giurista, l’insediamento nella costituzione materiale del nostro paese di questo squilibrio fra poteri, con anomala primazia degli spazi di manovra della giurisdizione, ha trovato alleati la “scadente cultura democratica” di parte significativa delle élite e la scarsa sensibilità ai valori dello Stato di diritto e del garantismo penale delle classi dirigenti e di gran parte dei cittadini.
Su questo sfondo si collocano le sue riflessioni sul processo alla trattativa, sulla lotta ai sistemi criminali quali patologici orizzonti di senso dell’azione penale in chiave di strumento palingenetico, indirizzato a perseguire il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica; ma anche i molti temi – dalla prescrizione, alla legittima difesa, alla rilevanza penale delle condotte omofobe, all’ergastolo – rispetto ai quali il dibattito pubblico è divenuto cassa di risonanza di concezioni securitarie, populistiche e stigmatizzanti della giustizia penale, per compiaciuta vocazione propagandistica o per assenza di adeguati anticorpi culturali e civili.
A quest’impegno, Giovanni Fiandaca si è dedicato con la densa problematicità del suo pensiero, distante da saccenteria dogmatica e ricco delle tante consapevolezze metodiche che, fondandone la sapiente padronanza dei molti, irrelati piani del discorso giuridico (che mettono capo all’idea del diritto come ordinamento, come norma, come istituzione sociale, come fatto, come decisione e che considerano rilevanti gli statuti, teorici e pragmatici, dei suoi attori), lo elevano a vigile osservatore e virtuoso testimone del tempo vissuto. In questo milieu epistemico, egli si fa interprete e custode del costume gnoseologico di Norberto Bobbio, per il quale il compito dell’intellettuale consiste nel seminare dubbi, piuttosto che produrre o veicolare certezze.
Del resto, solo immergendosi in una pratica conoscitiva edificata sul relativismo epistemologico, maturato nel rifiuto di dogmatismi preconcetti e chiusure autoreferenziali, egli avrebbe potuto credibilmente legittimarsi – per di più su un quotidiano da lui stesso definito politicamente scorretto – nell’impresa di rimuovere il velo di ignoranza che impedisce alle euforie fanatiche della law and order e della zero tolerance (in versione italica) di scoprirsi deliri dell’anima e della mente.
4. A ben vedere, gli articoli ora raccolti nel volume edito da Zanichelli affrontano e sviluppano, in rapporto a vicende giudiziarie (processo sulla trattativa, inchieste di Mani pulite), iniziative di riforma (d.d.l. Zan, abuso d’ufficio), nuove leggi (legittima difesa, prescrizione, riforma Cartabia), stato dell’esecuzione penitenziaria, la complessa strategia in cui si articola il modello della democrazia costituzionale e il garantismo penale che vi è accolto come coerente sua espressione, elevandola a lessico narrativo e, così, favorendo l’avvicinamento di forma e sostanza del diritto con la base popolare della democrazia.
Senza mai vestire i panni del pedagogo altezzoso, men che mai del sacerdote che amministra i riti astrusi ed a tratti esoterici della teoria giuridica, Giovanni Fiandaca (ha il merito di) congiunge(re) l’intransigenza delle pretese della normatività di natura deontica alle esigenze – spesso drammatiche e talvolta tragiche – della vita, al precipuo scopo di trasmettere, socializzandolo, il senso politico profondo e la portata rivoluzionaria del(la metanarrazione del) garantismo e del suo capitale semantico: emancipare le istituzioni di giustizia dal sostanzialismo dispotico e dalle intolleranze, fanatiche e disumanizzanti, (e delle loro proiezioni inquisitorie) dell’ancien regime, che le avevano trasformate in fabbrica di errori ed orrori (così, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teorie del garantismo penale, Roma-Bari, 1989, 619).
In questo impegno di partecipazione critica al dibattito pubblico, egli si lascia guidare dai principi e dalle regole di un modello di diritto e di processo penale ispirato alla funzione di Magna Charta, assumendoli quali chiavi ermeneutiche della sua ricerca narrativa.
4.1. Nella posizione espressa in ordine al processo sulla trattativa, ritroviamo il grumo dei topoi che definiscono una prospettiva costituzionalmente orientata sia di giustizia penale, sia dei rapporti – tradizionalmente poco esplorati – tra giurisdizione e potere esecutivo.
4.1.1. Dal primo punto di vista, Fiandaca colloca la vicenda tra le metafore degli usi distorti del processo penale, quelli che soppiantano la relativa funzione di verifica della fondatezza di una previa imputazione – integrata da una figura criminosa corrispondente ad un fatto di probabile e non inverosimile accadimento – con quella di “sonda esplorativa diretta in primo luogo ad accertare fenomeni criminali di cui si congettura l’esistenza”.
Nel caso particolare, l’antagonismo con la destinazione deontologica del processo nasce dai pretenziosi orizzonti investigativi entro i quali ha avuto origine e che la recente decisione della Corte d’Appello di Palermo sembra aver decostruito (sul punto, G. Amarelli, La sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia: dalla condanna mediatico-giudiziaria al proscioglimento dei co-imputati ‘istituzionali’, in questa rivista, 11 novembre 2022). Il riferimento corre all’indagine denominata “sistemi criminali”, promossa per ricercare (e non valutare con logica a posteriori !!) ipotesi di reato in rapporto ad una supposta interazione che, nel quindicennio tra la seconda metà degli anni Ottanta e la fine del decennio successivo, si sarebbe dispiegata “tra un sistema criminale mafioso e un sistema criminale non mafioso, costituito da «massoneria deviata, finanza criminale, destra eversiva e frange dei servizi segreti»”.
L’ampiezza inusitata del contesto temporale assunto ad oggetto investigativo, e la correlata pretesa di rileggere in chiave di rilevanza penale gli accadimenti e le dinamiche storiche relativi, inducono Fiandaca a muovere due fondate contestazioni.
Da un lato, egli rileva come questo approccio sia frutto di corriva semplificazione, cogliendovi il “frutto di una sorta di deformazione professionale tipica della magistratura più impegnata sul fronte antimafia”, che, perciò, non sarebbe immune “da quella sindrome nota come «ossessione del complotto», che incessantemente alimenta – di epoca in epoca – le teorie cosiddette cospirative della storia: le quali tendono a spiegare avvenimenti che hanno cause plurime e complesse, e perciò difficili da individuare, come se fossero appunto frutto di diabolici disegni e di strategie unitarie nelle mani di Signori del male o del crimine”.
Dall’altro, sottolinea l’abnormità di un’indagine giudiziaria così estesa. Sollecita, poi, i cultori delle discipline processuali a “verificare i limiti di compatibilità di imprese investigative di tale vastità” con l’attuale configurazione normativa del processo ed aggiunge come il taglio ricostruttivo messo in campo – replica dei caratteri dell’inquisitio generalis di medioevale memoria – appaia “più simile a quello di uno storico o di un sociologo impegnati nello studio di contesti di ampio respiro, che non a quello di un magistrato vincolato alle regole e alle finalità dell’indagine giudiziaria e del processo concepito in senso stretto”.
In questo contesto avviene il travaglio che dà vita all’imputazione del reato scolpito dall’art. 338 c.p.
Si tratta di un dato tutt’altro che estrinseco, poiché incidente sulla radicale inidoneità del tipo legale a raccontare, al metro delle valutazioni penalistiche, i fatti contestati, come il Nostro ha messo impietosamente in luce attraverso una stringente analisi dei requisiti di fattispecie che non lascia spazio ad alternative ricostruttive. Nella riflessione di Fiandaca, la prospettazione della figura criminosa è stata, in pratica, il “frutto di un’escogitazione a posteriori e in via residuale”, poiché scaturisce dall’esigenza di “dare legittimazione giudiziale al preconcetto della sostanziale illiceità della trattativa”, il cui approdo non poteva che essere la ricerca ad ogni costo, “e dunque anche al prezzo di possibili forzature” di “una qualche figura di reato”.
Frugando nel cassetto dei nostri attrezzi concettuali, ci viene da dire come quel che Giovanni Fiandaca tratteggia con plastica maestria rappresenti, in buona sostanza, una peculiare articolazione della c.d. processualizzazione della tipicità, meglio si direbbe dell’uso a fini giudiziari della tipicità.
Più in particolare, si è innanzi ad una dimensione in sordina di questo fenomeno, di sicuro meno esplorata delle più comuni – e, perciò, classiche – vicende di tipicità processuale connesse alla manipolazione ermeneutica della fattispecie in funzione probatoria (Gargani, Fattispecie sostanziali e dinamiche probatorie. Appunti sulla processualizzazione della tipicità penale, in (a cura di De Francesco-E. Marzaduri), Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, Torino, 2016, 98).
Nella denuncia fiandachiana, risalta, piuttosto, l’uso della norma penale in chiave di non dispersione dell’attività d’indagine, strumentale alla processabilità del materiale investigativo sul “teatro mediatico in cui si contrappongono dinanzi al grosso pubblico narrazioni contrapposte di eventi oscuri e in cui, altresì, si proiettano immaginarie dietrologie di tipo complottistico alimentate da ansie e paure collettive”.
Se già in questa rappresentazione emerge un quadro di deprimente compromissione delle pretese selettivo/garantistiche e ordinanti della tipicità, sacrificate ad esigenze di spettacolarizzazione del processo, il rischio ulteriore che segnala lo studioso palermitano si connette, con solo apparente paradosso, al profilarsi dell’(auspicato)epilogo fisiologico del riconoscimento dell’irrilevanza penale dei fatti oggetto dell’imputazione.
Osservando, con la perspicacia suggeritagli dalla ricca complessità del suo bagaglio metodico, “che un tale esito (..) rischierebbe di frustrare aspettative di punizione indotte da un bombardamento informativo sulla trattativa finora attuato secondo un taglio decisamente criminalizzatore”, l’insigne penalista finisce per segnalare un’altra angolazione critica che si dischiude dall’instaurarsi di relazioni patologiche tra tipicità e azione penale.
E tuttavia, il realismo della prospettiva – lungi dal condurlo a considerarlo dato da registrare con supina acquiescenza – non lo distrae dal dovere di schierarsi con intransigenza contro “forme di penalizzazione impropria”, connesse alla preoccupazione che il prevalere della ragione processuale del diritto possa disvelare la mostruosità dell’iniziativa giudiziaria e, con essa, avventatezze e ottusità dei suoi autori (secondo scenari che sembrano ricordare le atmosfere di grottesco autoritarismo del von Kleist de La brocca rotta).
4.1.2. Nette e lucide – e ancora una volta fuori dal coro mainstream – sono anche le considerazioni che criticano l’impostazione delle indagini sulla trattativa, attraverso il richiamo alla ripartizione di competenze tra giudiziario ed esecutivo.
Sulla premessa che “il perseguimento dell’obiettivo di far cessare le stragi, in sé considerato, mai potrebbe essere qualificato illecito”, apparendo, anzi, “doveroso sotto un profilo sia politico che giuridico”, l’insigne giurista rileva come su questo terreno si giochi una partita importante che chiama in causa la separazione dei poteri, nella direzione meno battuta qual è quella tra azione della giurisdizione e prerogative dell’esecutivo. Tra queste ultime non potrebbero non rientrare le iniziative volte a prevenire la commissione e/o la prosecuzione dei reati, nell’ambito di una più ampia prospettiva che riconosce alla discrezionalità politica del governo “valutare i pro e i contra, in termini di bilanciamento costi-benefici, della scelta di fare eventuali ‘concessioni’ ai contropoteri criminali in cambio della cessazione delle aggressioni mortali”.
La critica a questo punto di vista, implicito nella direzione impressa alle indagini, porta dritto alla pretesa della magistratura di accreditarsi come la sola istituzione legittimata a “stabilire cosa competa (o non competa) al governo e agli organi di polizia per salvaguardare anche in forma preventiva l’ordine pubblico”, attraendo le condotte non gradite nell’orbita di una censurabilità penale che, ancora una volta, finisce per evocare una legalità “più ‘sostanzialistica’, che rispettosa dei vincoli formali della tipicità delle fattispecie incriminatrici”.
5. L’esperienza di Mani pulite rappresenta un altro versante sul quale Giovanni Fiandaca fa cadere la scure di un’analisi che non fa concessioni alle retoriche orientate a giustificare gli strappi alla legalità penale e le fuoriuscite del processo dai tracciati dei suoi impieghi ortodossi, dalle quali ha tratto linfa una delle espressioni perfomative del populismo giudiziario, quella simboleggiata dalla figura del magistrato tribuno.
Scartato il metodo ragionieristico di valutazione di quella esperienza, che pretenderebbe di ancorarne gli esiti a parametri di efficienza quantitativa del law enforcement – nelle unità di misura che rinviano ad arresti, condanne, proscioglimenti e assoluzioni – egli reputa doveroso interrogarsi sulle due fondamentali voci di bilancio della crociata giudiziaria alla corruzione sistemica: i) il rapporto tra politica e giustizia sulla scala della teoria dei poteri; ii) la compatibilità della guerra ‘a tutto campo’ al fenomeno corruttivo con la filosofia e le regole del garantismo penale.
Assumendo il dato oggettivo per il quale Mani pulite non ha sconfitto la corruzione, ma ha, da un canto, spazzato via la classe dirigente che aveva retto il governo politico del Paese e, dall’altro, affossato i partiti nati dalla Resistenza, Fiandaca non esita ad affermare che l’operazione si è risolta in un ‘trauma costituzionale’, poiché “la criminalizzazione di quasi un intero assetto politico-governativo esula dalle funzioni tipiche della giurisdizione penale”.
Come ancora ben dice, quell’inchiesta ha incentivato, “anche per successiva emulazione”, tendenze “ad un esercizio politicamente mirato dell’azione giudiziaria che da un lato hanno più volte continuato a produrre perniciose sovrapposizioni tra giustizia e politica e, dall’altro, hanno finito col determinare nei cittadini una progressiva caduta di fiducia rispetto all’imparzialità del potere giudiziario”.
Utilizzando la ricostruzione di vicende e personaggi di Mani pulite operata da Goffredo Buccini – un protagonista del tempo della sua narrazione mediatica – nel libro Il tempo delle mani pulite, Fiandaca esprime il forte convincimento che l’indagine abbia avuto indiscutibili connotazioni politiche – sia nel senso di “influire su dinamiche e scelte politico-partitiche contingenti”, sia per la “mirata valorizzazione (…) delle accresciute dimensioni di politicità” dell’attività giurisdizionale nel contesto della democrazia costituzionale.
Il risultato complessivo è un giudizio fallimentare, per molte ragioni e su più versanti, edificato sui seguenti asserti: Mani pulite i) non ha eliminato la corruzione; ii) anziché promuovere un virtuoso rinnovamento del personale politico, ha alimentato “una rozza e velleitaria antipolitica di ispirazione populista”; iii) ha dato vita al populismo giudiziario, “inducendo parte dei magistrati a ricercare il consenso popolare come fonte di vera legittimazione di un’azione giudiziaria (…) orientata al cambiamento e alla moralizzazione”.
Sul piano dell’amministrazione della giustizia, infine, (indossando la toga dello studioso di discipline penalistiche) Giovanni Fiandaca evidenzia, e mette all’indice, due aspetti dell’agire giudiziario di quella stagione che deflagrano nel cuore della dimensione, penale e processuale, di un sistema garantistico: i) una certa tendenza a manipolare, per esigenze probatorie, schemi consolidati di tipicità di reati classici, quali concussione e corruzione; ii) un uso “spregiudicato o ricattatorio (..) a fini confessori” del ricorso alla custodia cautelare carceraria (su Mani pulite, più diffusamente, Fiandaca, Mani pulite trenta anni dopo; un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare, in Giustizia insieme, 16 febbraio 2022).
6. Abbiamo scelto le parti delle riflessioni relative al processo sulla trattativa e a Mani pulite perché ci sembrano rappresentative del genere di discorso svolto da Giovanni Fiandaca; meglio forniscono le chiavi ermeneutiche che consentono di legare le tante stazioni dell’esplorazione narrativa entro una struttura di pensiero riconoscibile nelle sue linee compatte.
I 45 articoli giornalistici raccolti sono il campionario di una testimonianza assai più complessa e variegata sulla crisi dello Stato di diritto nel campo della giustizia penale, che ci conduce a prendere atto che essa è crisi di regole e di prassi ma, anche e soprattutto, di culture e di mentalità sia dei signori del diritto (politici/legislatori e magistrati), sia di quanti nel discorso pubblico dovrebbero svolgere la funzione di guardiani della democrazia (costituzionale, naturalmente).
Per questo, la critica dell’illustre penalista non risparmia le culture personali dei singoli esponenti di entrambi quei ceti.
Qui il suo discorso assume i caratteri della parresia, diventa, cioè, esercizio di un pensiero che dissacra i miti del potere e graffia la lucentezza delle loro proiezioni iconografiche e, perciò, nell’urtare le suscettibilità del popolo dei fedeli devoti raccolti negli osanna, si espone alle loro scomposte reazioni (sul tema, ancora fondamentale, Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, 2005).
L’episodio che abbiamo assunto ad incipit di questo intervento conferma come questo sia avvenuto.
E tuttavia, anziché dissuadere quanti avvertono il dovere della denuncia tutte le volte che il volto della razionalità e dell’umanesimo del sistema penale delle garanzie penali venga deturpato dalla demagogia e dalle varie forme di fanatismo punitivista, ciò dovrebbe spronare a seguire il sapere aude di Giovanni Fiandaca, nell’impegno a far evolvere nomos e logos della civiltà penalistica in koiné della cultura sociale del Paese; insomma, per far divenire la Costituzione, il suo spirito e la sua trama, patrimonio della maggioranza dei cittadini.