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01 Luglio 2025


Discrezionalità interpretativa del giudice e valore dei precedenti


Il contributo di seguito pubblicato è destinato al volume, di prossima pubblicazione, “Conoscibilità del diritto e costruzione del precedente”, curato dai Proff. Massimo Donini, Roberto Kostoris e Renzo Orlandi, ed. Jovene. L’Autore ringrazia i curatori e l’editore per averne consentito la previa pubblicazione in questa Rivista.

Le opinioni espresse in questo contributo sono di carattere strettamente personale e non riflettono necessariamente la posizione della Corte costituzionale, di cui l’Autore è componente.

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1. Intervengo in questa densa giornata di studi convocata da Massimo Donini avendo il vantaggio di avere letto in anticipo il contributo del collega prof. Giovanni Pitruzzella, le cui tesi integralmente condivido. Aggiungerò pertanto solo qualche considerazione a margine, su un tema che meriterebbe ben altro approfondimento e sul quale ho comunque dedicato, in passato, alcune riflessioni più distese, alle quali non posso qui che rinviare[1].

Proprio come Pitruzzella, non posso che muovere dal riconoscimento – oggi pressoché unanime – della natura non meramente ricognitiva dell’interpretazione giudiziaria. Ogni atto di interpretazione della legge, preliminare alla sua applicazione al caso concreto, costituisce il frutto di una decisione da parte del giudice, il quale attribuisce alla disposizione legislativa un significato che, di solito, da quella non è meccanicamente deducibile. Questa operazione dunque, lungi dall’essere completamente vincolata, comporta l’esercizio di importanti margini di discrezionalità; discrezionalità che il giudice è tenuto a esercitare, non potendo chiudere il giudizio con un semplice non liquet. L’interpretazione, dunque, in una certa misura crea il diritto, e comunque lo conforma, interagendo con il formante legislativo.

Ciò premesso, l’autentico nodo problematico su cui credo valga la pena, oggi, di discutere, concerne l’individuazione dei limiti alla discrezionalità interpretativa del giudice, in un sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri.

In particolare, mi pare – anche qui, in ampia consonanza con l’analisi di Pitruzzella – che vengano in considerazione soprattutto tre ordini di limiti: il testo delle disposizioni interpretate, che costituisce limite sostanziale alla discrezionalità del giudice (infra, 2); l’obbligo – di natura, per così dire, procedurale – di motivazione della scelta interpretativa compiuta (infra, 3); e il limite, di natura invece ancora sostanziale, che definirei della tendenziale vincolatività dei precedenti che abbiano già fornito un’interpretazione della disposizione di cui è causa (infra, 4).

 

2. Il primo limite deriva direttamente dall’art. 101, secondo comma, Cost., che enuncia il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. L’avverbio “soltanto” è espressione dell’indipendenza funzionale del giudice da ogni altro potere; ma al tempo stesso conferma il vincolo del giudice al dato oggettivo della legge, prodotta dal potere legislativo in conformità al principio democratico.

Come può conciliarsi questo principio con il riconoscimento, compiuto dalla teoria generale del diritto oggi dominante, di ineliminabili margini discrezionali nell’attività interpretativa?

La risposta sta, mi pare, nella sottolineatura della priorità gerarchica della legge rispetto all’attività ermeneutica: ogni operazione interpretativa compiuta dal giudice, pur se a contenuto (almeno in parte) discrezionale, deve muovere dalla legge, e deve giustificarsi al metro della legge.

Ciò non significa che il giudice debba – ipocritamente – presentare la propria decisione come l’unica compatibile con la legge, e dunque come una soluzione da essa imposta. Un simile atteggiamento, purtroppo ancora molto diffuso nelle prassi giudiziali di molti ordinamenti, mi è sempre parso ipocrita. Il giudice dovrebbe invece assumersi pubblicamente la responsabilità della decisione: una responsabilità che comporta non solo margini di apprezzamento fisiologicamente opinabili quanto all’accertamento del fatto cui la norma è applicata, ma anche – assai frequentemente – una discrezionalità nella scelta di una o altra tra le possibili letture della disposizione di legge, e dunque nella ricostruzione della “norma” – in senso crisafulliano – destinata a fungere da premessa maggiore nel sillogismo giudiziale.

Il vincolo del giudice alla legge allude, però, a un’esigenza di compatibilità della lettura della disposizione fornita dal giudice – e dunque della sua ricostruzione della “norma” da applicare ai fatti di causa – con il testo della disposizione interpretata, oltre che di coerenza di quell’interpretazione con la sua ratio, con la volontà del legislatore storico e con il sistema nel quale quella disposizione si inserisce.

Tutto ciò in omaggio al principio democratico e all’idea, fondante nell’ottica costituzionale, della separazione dei poteri: il giudice non è autorizzato a sostituire alla chiara volontà del legislatore democraticamente legittimato il proprio personale apprezzamento sulla soluzione del conflitto di interessi sotteso al caso sottopostogli. Soltanto laddove il giudice ritenga che il bilanciamento effettuato dal legislatore sia incompatibile con i principi costituzionali, egli potrà, e anzi dovrà, sollecitare la Corte costituzionale – e dunque un’istituzione estranea al potere giudiziario – a compiere la relativa verifica, ed eventualmente ad annullare la legge illegittima.

Il confine tra vincolo del giudice alla legge e – doverosa – interpretazione della legge alla luce della Costituzione (ipotesi, questa, eminente di interpretazione sistematica nel vigente sistema ordinamentale) è comunemente individuato, anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nel testo della disposizione interpretata. Qualsiasi operazione interpretativa deve risultare conciliabile con il senso delle parole utilizzate dal legislatore. Di fronte a un testo che non consente una data interpretazione, il giudice comune ha, in forza dell’art. 101, secondo comma, Cost., il dovere di arrestarsi, ed eventualmente di sollevare una questione di legittimità costituzionale laddove ritenga che nessuno dei sensi possibili della disposizione risulti compatibile con la legge fondamentale.

Soccorre qui l’immagine della cornice: il testo costituisce la cornice invalicabile di ogni pensabile soluzione interpretativa; ma all’interno di tale recinto, più soluzioni sono normalmente praticabili, purché se ne dimostri – attraverso la motivazione – la sostenibilità alla luce degli ordinari criteri ermeneutici (storico, teleologico, sistematico, oltre che ovviamente letterale).

 

3. Proprio l’obbligo di motivazione della decisione del giudice, stabilito in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost., costituisce il secondo limite alla sua discrezionalità interpretativa.

A differenza del legislatore, il giudice ha il dovere di esplicitare in forma chiara e comprensibile le ragioni della sua decisione: non soltanto in punto di fatto, ma anche in punto di diritto. E dunque ha il dovere di illustrare gli argomenti che lo portano a privilegiare una data interpretazione della legge da applicare nel caso concreto, rispetto ad altre pure possibili in base al testo della legge medesima.

Ho in altre occasioni – in particolare nei contributi menzionati all’inizio di questo intervento – sviluppato la tesi secondo cui l’obbligo di motivazione in diritto della decisione impone al giudice di esplicitare la propria opzione interpretativa nella forma di una regula iuris generale e astratta, ancorché più specifica rispetto a quella espressa dalla disposizione di legge interpretata. Una regula iuris ritagliata, certo, sulle caratteristiche del caso concreto da decidere, ma anche idonea a costituire un criterio di giudizio per tutti i casi simili futuri che si dovessero presentare: e cioè a costituire un precedente per future decisioni giudiziarie.

Questa esigenza, a mio avviso, si impone non soltanto al giudice di legittimità, su cui incombe istituzionalmente il ruolo di nomofilachia, ma anche al giudice di merito, il quale è chiamato a decidere il singolo caso secondo un criterio chiaramente formulato, e potenzialmente idoneo a porsi quale regola di giudizio per il futuro. E ciò allo scopo di assicurare che la decisione non sia frutto di una mera intuizione soggettiva di giustizia (o di equità) rispetto al caso concreto, ma risulti razionalmente giustificabile come applicazione di una regola generale idonea a risolvere in una certa direzione una classe di conflitti di interessi.

In tale operazione il giudice (ma il discorso vale, mutatis mutandis, anche per la Corte costituzionale) deve necessariamente effettuare bilanciamenti tra gli interessi in gioco: lungo le direzioni già tracciate dal legislatore, ma necessariamente godendo di un certo margine di manovra. E questo margine è tanto più ampio quanto sono più estesi sono i margini di imprecisione del linguaggio utilizzato dal legislatore, a fronte di una realtà che è sempre più articolata e complessa di quella cui il legislatore stesso pensava nel momento in cui ha formulato la disposizione.

Proprio in considerazione della natura non obbligata di molte scelte interpretative, l’ordinamento impone al giudice l’obbligo di esporre – alle parti anzitutto, alle giurisdizioni di controllo superiore e in definitiva all’intera collettività – le ragioni alla base della regula iuris enucleata in via interpretativa dalla disposizione di legge applicata nel caso concreto: in forma il più possibile persuasiva, facendosi carico in modo trasparente delle obiezioni sollevate dalle parti soccombenti o comunque prospettabili d’ufficio. E ciò anche allo scopo di consentire eventualmente al legislatore, di intervenire a correggere, quanto meno per il futuro, i bilanciamenti sottesi alle soluzioni individuate dalla giurisprudenza attraverso un nuovo intervento legislativo, cui i giudici saranno a questo punto vincolati ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost.

Il difetto di legittimazione democratica diretta da parte del giudice è così compensato dall’onere di corroborare la sua decisione – anche in punto di diritto – attraverso l’enunciazione dell’itinerario logico e argomentativo che lo conduce alla decisione stessa. Il giudice non ha, dietro le sue decisioni, la forza del voto popolare, ma soltanto quella della ragione argomentativa e dialogante. Una ragione, certo, che resta più debole rispetto alla volontà del legislatore – perché destinata in ogni momento a soccombere rispetto ad un eventuale intervento di quest’ultimo –, ma è anche più flessibile rispetto alle sempre nuove e mutevoli costellazioni casistiche che si presentano nella prassi, e alle quali il giudice è tenuto in ogni caso a fornire risposte.

 

4. Nella individuazione di queste risposte, il giudice deve però tenere conto – almeno a mio avviso – di un terzo fondamentale limite, rappresentato dal dovere di rispettare tendenzialmente i precedenti, in particolare quelli cristallizzati dalla giurisprudenza di legittimità.

La soggezione del giudice soltanto alla legge non significa che ciascun singolo giudice si possa sentire solo dinanzi alla legge. Piuttosto, a me pare – in consonanza, ancora, con l’intervento odierno di Giovanni Pitruzzella – che il giudice debba sempre sentirsi parte di un sistema, rispetto al quale egli abbia la responsabilità di essere coerente. Un sistema, in particolare, espressivo di un potere che definirei corale, in cui ciascuna voce è importante, ma in cui ciò che davvero conta è il risultato finale, che deve essere armonico, e non caotico.

In questo contesto, la giurisprudenza – ossia l’insieme delle rationes decidendi che sostengono precedenti decisioni giudiziali, validate dalle istituzioni giudiziarie cui compete un ruolo nomofilattico, prime fra tutte la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato – assume un ruolo di indispensabile diaframma che si interpone tra il singolo giudice e la legge da interpretare ed applicare nel caso concreto. Il giudice può e deve giovarsi delle interpretazioni che la legge ha sperimentato ad opera dei giudici che già l’hanno applicata, dovendo tendenzialmente astenersi dal frustrare l’affidamento che la generalità dei consociati, e le stesse parti del giudizio pendente avanti a sé, abbiano legittimamente riposto nella stabilità di orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati.

Ritengo che questa prospettiva si radichi saldamente nei principi costituzionali. Anzitutto, è qui in gioco il principio di eguaglianza, e il suo corollario fondamentale della parità di trattamento tra i consociati, i quali debbono poter contare su interpretazioni della legge uniformi da parte dei giudici, in modo da evitare il più possibile il rischio di sue applicazioni diseguali. Ciò affinché ciascuno sia posto in grado di compiere le proprie scelte di azione e organizzare i propri rapporti con il prossimo calcolando in anticipo le conseguenze giuridiche delle proprie decisioni.

Queste esigenze si pongono in maniera particolarmente pregnante in materia penale, dove è in gioco la libertà della persona, e dove il principio di legalità – letto anche attraverso il prisma dell’art. 7 CEDU – esige che l’applicazione della norma incriminatrice sia ex ante prevedibile per il consociato, sì da schermarlo contro il rischio di essere sorpreso dall’applicazione delle sanzioni da essa previste. Ma la prevedibilità delle decisioni giudiziarie è altresì fondamentale per il buon funzionamento del sistema di giustizia penale nel suo complesso: la polizia e i pubblici ministeri debbono essere guidati da interpretazioni chiare e prevedibili delle leggi penali vigenti, per evitare l’instaurazione di indagini e poi di processi che fomentino aspettative di giustizia nelle persone offese e presso l’opinione pubblica, destinate poi a essere frustrate – per ragioni che attengono alla ritenuta insostenibilità della stessa prospettazione in diritto della pubblica accusa, come purtroppo spesso accade – nel lungo percorso che conduce alla decisione finale della Corte di cassazione.

D’altra parte, assicurare la prevedibilità della decisione giudiziaria – e quindi, in definitiva, la certezza del diritto – è funzionale alla salvaguardia di interessi macroeconomici di immediata evidenza. Chi investe il proprio denaro ha necessità di conoscere il quadro regolatorio nel quale il proprio investimento si inserirà, e di calcolare i rischi legati alle responsabilità giuridiche connessi alle attività in cui il denaro sarà investito. Per converso, non solo l’assenza di regole legislative chiare, ma anche e soprattutto la scarsa prevedibilità delle decisioni giudiziarie relative a tali responsabilità costituirà un ovvio fattore disincentivante degli investimenti, che tenderanno a essere convogliati verso ordinamenti in grado di garantire una maggiore prevedibilità di tali decisioni.

E allora: se l’art. 101, secondo comma, Cost. non è verosimilmente compatibile con l’idea di un vincolo assoluto ai precedenti dell’organo giudiziario di nomofilachia – dal momento che tale vincolo equivarrebbe ad affermare una “soggezione” del giudice a qualcosa di diverso dalla legge –, mi pare invece del tutto sostenibile che altri principi costituzionali – che ruotano attorno a valori come la parità di trattamento tra i consociati, la tutela dell’affidamento, la prevedibilità delle conseguenze della condotta – impongano, quanto meno, un suo tendenziale dovere di coerenza rispetto alle decisioni degli altri giudici, soprattutto se pronunciate dalle giurisdizioni superiori.

Con ciò non intendo negare la possibilità del giudice di discostarsi talvolta dagli orientamenti consolidati, purché ricorrano – però – talune stringenti condizioni. Se assicurare la prevedibilità della decisione giudiziaria corrisponde a un principio di rango costituzionale (e convenzionale), allora occorrerà una speciale cautela nel discostarsi dagli orientamenti consolidati, giacché ogni decisione di segno inverso finirà per frustrare gli affidamenti che legittimamente la generalità dei consociati vi ha riposto, rendendo più incerto – e pertanto meno calcolabile a priori – il “diritto oggettivo nazionale” di cui parla l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario. Il che carica il giudice che intenda compiere un simile passo di una speciale responsabilità: quella cioè di mostrare, con motivazione il più possibile persuasiva, l’evidente opportunità di mutare orientamento, alla luce di argomenti non considerati dalle interpretazioni dominanti, e in particolare alla luce dell’evoluzione del quadro sistematico, che renda non più adeguata la precedente interpretazione. La sofferenza inflitta ai principi di parità di trattamento, prevedibilità, certezza del diritto, affidamento, parità di trattamento ben potrà, in tal caso, essere giustificata – in un’ottica di bilanciamento – con l’esigenza di assicurare più adeguata tutela di un interesse sino a quel momento negletto.

In parole più semplici: un giudice attento ai valori costituzionali in gioco dovrebbe tendenzialmente adeguarsi alle interpretazioni consolidate, onde evitare di immettere inutili e dannosi fattori di entropia nel sistema. Una decisione difforme potrà (e magari dovrà) essere assunta soltanto quando ne valga davvero la pena, con uno speciale onere argomentativo per mostrare che si versi effettivamente in una di tali ipotesi.

Il giudice di merito che si discosti dai precedenti dovrà, allora, preoccuparsi anzitutto di persuadere i giudici degli eventuali successivi gradi di giudizio, sino alla Corte di cassazione, della necessità di adottare la nuova soluzione interpretativa. Quando poi ai giudici di legittimità (o al Consiglio di Stato), essi avranno di regola la possibilità – o addirittura il dovere, nei casi previsti dagli artt. 374, terzo comma, c.p.c., 618, comma 1-bis, c.p.p. e 99, comma 3, cod. proc. amm.– di far sì che della questione siano investite le sezioni unite o, rispettivamente, l’adunanza plenaria, proprio per ridiscutere in quella sede della persistente sostenibilità dell’interpretazione sino a quel momento consolidata, ovvero per modificarla nel senso auspicato dalla sezione che chiede la rimessione.

Possibilità, quest’ultima, che evita saggiamente di ingessare indefinitamente i precedenti consolidati, permettendone sempre l’overruling, ma assicurando – al contempo – trasparenza al procedimento della loro revisione e autorevolezza alla decisione finale. La quale si candiderà così a costituire, per l’intera collettività, il nuovo standard di riferimento nell’interpretazione della legge controversa.

 

5. Qualche parola soltanto, prima di concludere, su di un ulteriore profilo, su cui Massimo Donini sollecita la nostra riflessione: quello, cioè, dell’eventuale rimedio per il consociato che abbia ragionevolmente fatto affidamento su un orientamento giurisprudenziale sino a quel momento consolidato, poi rovesciato da un successivo orientamento – stabilito proprio nel procedimento originato dal suo caso, o comunque in epoca successiva al compimento della condotta da cui deriva una propria responsabilità in base a tale nuovo orientamento. Problema, questo, particolarmente acuto nella materia penale, dove il consociato potrebbe avere fatto affidamento sulla non tipicità, o comunque sul carattere lecito, della propria condotta, e venire poi sorpreso da un mutamento giurisprudenziale che ne riconosca invece la penale rilevanza.

A me è sempre parso, per la verità, che la difficoltà della soluzione sia sovrastimata in dottrina. Se nulla può impedire alla giurisprudenza di rimeditare ed eventualmente di modificare anche in malam partem – in presenza dei presupposti su cui mi sono soffermato nel paragrafo precedente – un precedente orientamento interpretativo, estendendo dunque l’area di una norma incriminatrice o riducendo l’area di una causa di non punibilità, è anche vero che il sistema penale italiano riconosce ormai da decenni uno specifico rimedio – l’art. 5 cod. pen., nella versione risultante dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale – in grado di assicurare la non punibilità di chi abbia senza colpa confidato nella liceità della propria condotta, anche per effetto dell’affidamento ingenerato da un consolidato orientamento giurisprudenziale in tal senso.

La sua condotta ben potrà, allora, essere considerata oggettivamente illecita in forza della nuova interpretazione della normativa penale, che per forza di cose – trattandosi per l’appunto di interpretazione di una legge preesistente, e non di un novum normativo – esplicherà effetti retroattivi, riqualificando ex post come illeciti fatti che, al momento della loro commissione, non venivano considerati come reato dall’interpretazione allora dominante. Ma nessun effetto negativo potrà discendere da tale nuova qualificazione in capo all’interessato, il quale dovrà comunque essere assolto per difetto di colpevolezza, come limpidamente riconosciuto da quella storica, ma troppo spesso dimenticata, sentenza.

 

 

[1] F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in Dir. pen. cont., 19 dicembre 2016 e in C.E. Paliero, S. Moccia, G. De Francesco, G. Insolera, M. Pelissero, R. Rampioni, L. Risicato (a cura di), La crisi della legalità. Il “sistema vivente” delle fonti penali, ESI, Napoli, 2016, pp. 213-265; Id., Sulla (in)sostenibile incertezza del diritto penale, in Specula Iuris, 2022, vol. 2, n. 2, pp. 261-285