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09 Ottobre 2024


Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236)


Memoria scritta presentata l’8 ottobre 2024 alle Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia del Senato della Repubblica, in occasione dell'audizione nell’ambito dell’esame del disegno di legge n. 1236 «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario».

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1. Il disegno di legge A.S. 1236, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario», introduce nuove fattispecie di reato e inasprisce pene rispetto a comportamenti ritenuti dai proponenti di particolare allarme sociale. Non discuterò dell’opportunità delle singole scelte, apprezzando peraltro alcune specifiche misure contenute nel disegno di legge, tra le quali, per fare un esempio, il previsto sostegno agli operatori economici vittime dell’usura (art. 33). Né mi soffermerò sulla selettività di alcuni provvedimenti che interessano comportamenti di solito tenuti da persone in situazione di marginalità sociale, come nel caso delle occupazioni abusive o dell’accattonaggio. È un discorso che porterebbe lontano e che è stato riassunto con la formula “a minor Stato sociale corrisponde più Stato penale”, mettendo in luce la natura selettiva delle scelte penali rivolte assai spesso a colpire i perdenti nella c.d. competizione sociale. Basta guardare, già prima di questo disegno di legge, a chi sta in carcere e per quali reati per avere conferma di ciò che i sociologi sostengono da tempo, con studi peraltro riferiti non soltanto al nostro Paese. Nella prospettiva della selettività della pena, che può tradursi anche nella scelta di cosa non sanzionare, potrebbe pure intendersi, in una lettura complessiva e comparativa delle politiche penali, la recente opzione per l’abrogazione dell’abuso di ufficio, reato ontologicamente estraneo al perimetro di azione del “perdente” nella competizione sociale.

Non su questi aspetti soffermerò l’attenzione, bensì su tre punti di natura tecnica e di specifico rilievo costituzionale alla luce dei quali andrebbe vagliato l’impatto di singole previsioni contenute nel d.d.l.

 

2. Il primo punto riguarda la proporzionalità delle pene di nuovo conio, considerando che alla luce di questo principio è sempre più spesso condotto il sindacato della Corte costituzionale per valutare la non manifesta irragionevolezza delle scelte sanzionatorie del legislatore. Penso, in particolare ma non esclusivamente, all’art. 19, che, modificando gli articoli 336, 337 e 339 del codice penale, introduce specifica circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, qualora il fatto sia commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, prevedendo il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla predetta aggravante. La pena – ha scritto la Corte costituzionale – deve essere «adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo», il quale «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sent. n. 73 del 2020). Tali affermazioni hanno specifiche implicazioni sul bilanciamento delle circostanze che deve essere «flessibile» per rispondere ai principi di proporzionalità e di individualizzazione della pena. In tale ambito, c’è, ovviamente, discrezionalità del legislatore, che potrebbe incidere sui termini del bilanciamento ma non sino al punto da determinare la completa compressione di uno degli interessi in gioco. Esemplare è, al riguardo, la sent. n. 197 del 2023, riguardante proprio il bilanciamento delle circostanze rispetto a una precisa fattispecie criminosa (omicidio commesso in danno di un ascendente, discendente, coniuge o convivente), ove il divieto di prevalenza delle attenuanti (in quel caso previsto dall’art. 577, terzo comma, c.p.p) è ritenuto intrinsecamente irragionevole, proprio in quanto una sola circostanza aggravante avrebbe «l’effetto di impedire un giudizio di prevalenza di una pluralità di circostanze attenuanti» (sono molteplici le decisioni, anche più recenti dalle quali emerge un chiaro indirizzo contrario ai divieti di bilanciamento tra circostanze aggravanti ed attenuanti: sentt. n. 86 del 2024, nn. 217, 201, 188, 94 del 2023). A venire in rilievo è anche il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), il quale esige che la pena irrogata costituisca una risposta non soltanto non sproporzionata, ma anche il più possibile individualizzata, dovendo essere calibrata sulla situazione del singolo condannato.

Tali considerazioni possono estendersi anche per l’analisi delle nuove fattispecie di reato introdotte dal d.d.l., così come per il disposto inasprimento di pene concernenti reati già previsti dal nostro ordinamento (in particolare, violenza, resistenza e lesioni personali nei confronti delle forze dell’ordine, danneggiamento e truffa). Già da una giurisprudenza costituzionale piuttosto risalente si ricava agevolmente che la proporzionalità è collegata all’offensività e che il suo ripristino è funzionale al rispetto del principio di eguaglianza. Basti ricordare la dichiarazione di incostituzionalità relativa alla differente punizione prevista per il rifiuto della recluta alla chiamata al servizio militare, con un significativo inasprimento per l’ipotesi di obiezione di coscienza (reclusione da 2 a 4 anni) rispetto al caso di futili o assenti motivi (reclusione da 6 mesi a 2 anni). La Corte uniforma verso il basso l’intervallo edittale, con la conseguenza di uniformare la pena applicabile che, per entrambe le fattispecie, diviene quella tra i 6 mesi e i 2 anni (sent. n. 409 del 1989). Altrettanto significativo è stato l’intervento sul minimo edittale di 6 mesi per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ritenuto sproporzionato rispetto a quello stabilito per l’ingiuria (15 giorni). A stabilirlo è la sent. n. 341 del 1994, in un cui passo si legge che la pena minima prevista per l’oltraggio troverebbe applicazione anche per le più modeste infrazioni e che la stessa non può ritenersi «consona alla tradizione liberale italiana né a quella europea». Si attribuisce rilievo al fatto che la stessa sia stata introdotta nel codice penale del 1930, apparendo «come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima».

Credo sia importante riflettere ancora oggi su queste affermazioni, i cui principi continuano a permeare le decisioni della Corte costituzionale. Ne è puntuale esempio la recentissima dichiarazione di incostituzionalità del trattamento sanzionatorio dell’appropriazione indebita che finiva per essere assai più gravoso di quello riservato al furto e alla truffa; la Corte ha proceduto alla sua rimodulazione, in ragione del rilevato contrasto della disciplina censurata con i principi di eguaglianza e di proporzionalità della pena rispetto alla concreta gravità dei fatti perpetrati (sent. n. 46 del 2024). Tale pronuncia si inserisce nel contesto di un indirizzo ormai univoco nella direzione dell’illegittimità costituzionale sia di trattamenti sanzionatori intrinsecamente sproporzionati, sia di pene troppo elevate se poste in comparazione con quelle previste per fattispecie di illecito di uguale o minore gravità (come abbiamo già visto). Per la Corte costituzionale, un trattamento sanzionatorio risponde al “volto costituzionale della pena” solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sent. n. 222 del 2018 e, già tempo addietro, sent. n. 50 del 1980).

Ciò non vuol dire che il legislatore non goda di ampia discrezionalità «nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato (ex multis, sentenze n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021)». Ma, come ribadito nella citata sent. n. 46 del 2024, nella quale è contenuto pure il precedente passo, la «discrezionalità (…) non equivale ad arbitrio».

Il punto è proprio questo ed è l’esito di una linea giurisprudenziale fatta anche di moniti, di puntuali inviti al legislatore a rivedere in mitius misure e trattamenti sanzionatori che appaiono palesemente ed eccessivamente severi (tra le altre, sentt. n. 138 del 2024 e n. 117 del 2021).

Il Parlamento, prima ancora che eventualmente la Corte costituzionale, dovrebbe, insomma, interrogarsi sul fatto se le pene previste per i “nuovi” reati che si vanno a introdurre siano troppo elevate rispetto a quelle stabilite per fattispecie di illecito di uguale o minore gravità. E sempre il Parlamento, in sede di discussione del d.d.l., dovrebbe chiedersi se le sanzioni che si intendono introdurre siano ragionevolmente “proporzionate” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato. Se pensiamo, ad esempio, alla comprensione della resistenza passiva nell’ambito applicativo del delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario o di un CPR (artt. 26 e 27) può sorgere più di un dubbio al riguardo. Ma la verifica andrebbe estesa anche alle altre nuove fattispecie di reato e agli inasprimenti del trattamento sanzionatorio previsti per quelle già esistenti, in un contesto valutativo che deve insieme tenere conto del grado di offensività in sé delle singole condotte per gli interessi protetti e della proporzionalità della risposta punitiva anche in comparazione con altre fattispecie di illecito di eguale o minore gravità. Se non lo fa oggi, ex ante, il legislatore, c’è il rischio che lo faccia, ex post, la Corte costituzionale, rilevando l’incostituzionalità delle singole previsioni che dovessero venire alla sua attenzione per effetto della proposizione di specifiche questioni di legittimità. Da costituzionalista, che crede nella sovranità del Parlamento, auspico una profonda rimeditazione del testo in sede politica, piuttosto che una sua sostanziale e graduale revisione che sia conseguenza di chirurgici e occasionali interventi giurisprudenziali.

 

3. Il secondo punto è parzialmente collegato al precedente e interessa il finalismo rieducativo della pena, che, in una notissima e assai spesso citata sentenza, la Corte costituzionale ha ritenuto connotare ontologicamente la pena, dalla sua astratta previsione alla sua concreta esecuzione (sent. n. 313 del 1990). La Corte ha scritto che tale principio si propone di guidare l’azione del legislatore, del giudice e dell’amministrazione. Se così è – l’ho ribadito in diversi miei scritti – si dovrebbe affermare l’esistenza di un vero e proprio onere in capo allo stesso legislatore di valutare ex ante, nel contesto dell’ormai radicata analisi di impatto della legislazione, le conseguenze “carcerogene” derivanti dall’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, proprio considerando che l’aumento della “carcerizzazione” porta con sé il rischio del sovraffollamento, fenomeno che come è noto osta all’individualizzazione del trattamento (e dunque a un percorso potenzialmente idoneo alla risocializzazione del reo) e determina una situazione lesiva dei diritti fondamentali e della dignità stessa dei soggetti destinatari della sanzione (anche il dato, crescente e allarmante, dei suicidi in carcere dovrebbe far riflettere, in quanto sintomatico di un disagio diffuso, ancorché non dipendente in via esclusiva dal sovraffollamento). È stata fatta questa analisi con riguardo ai vari reati oggetto del proposto intervento normativo (dall’occupazione abusiva al blocco stradale, dall’accattonaggio alla deturpazione di cose altrui)?

Abbiamo una situazione di sovraffollamento carcerario che si va attestando su numeri sempre più vicini a quelli che vi erano ai tempi della nota sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Torreggiani (2013). Ciò che preoccupa non è soltanto il dato assoluto (61.758 persone recluse in carcere al 31 agosto 2024 su una capienza regolamentare dichiarata dal DAP di 50.911), ma il trend di crescita della popolazione detenuta (+ 2062 nel 2022; + 3970 nel 2023), che peraltro interessa oggi anche il settore dell’esecuzione penale minorile (nell’ultimo anno – dall’entrata in vigore del d.l. 15 settembre 2023, n. 123, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2023, n. 159, c.d. decreto Caivano – le presenze sono aumentate di 129 unità a fronte dell’incremento di 59 avutosi nell’anno precedente, per un totale di 569 detenuti presenti oggi negli IPM).

È una situazione che potrebbe esporre l’Italia a nuova sentenza di condanna da parte della Corte EDU o anche, in caso di proposizione di specifica questione, ad una estensione ad opera della Corte costituzionale delle fattispecie di rinvio facoltativo della pena oppure di applicazione della detenzione domiciliare, qualora la sanzione detentiva sia destinata ad essere espiata in condizioni contrarie al senso di umanità, dando così seguito a uno stringente monito contenuto nella sent. n. 279 del 2013 (si ricordi che, pur dichiarando inammissibile la richiesta estensione delle ipotesi di rinvio facoltativo, dovendo tale scelta essere compiuta dal legislatore, la Corte ha affermato che «non sarebbe tollerabile l’eccesivo protarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia», in sostanza affermando la presenza, già allora, di una violazione costituzionale che, se non riparata con idoneo intervento normativo, si esporrebbe, inevitabilmente, a una successiva pronuncia di incostituzionalità).

Se le nuove misure dovessero incidere ulteriormente su questa crescita della popolazione detenuta, si renderebbe ancora più stringente l’urgenza di ricorrere a strumenti deflattivi, che sino ad oggi non si sono voluti impiegare. Ma, di là da questo, la stessa, eventuale, valutazione di costituzionalità, riferita alla singola previsione sanzionatoria, sarebbe condizionata da tale rilievo, essendo la finalità rieducativa qualità essenziale di pene che possano dirsi effettivamente ragionevoli e proporzionate. Si pensi, per fare di nuovo un esempio concreto, alla richiamata previsione contenuta nell’art. 26, che introduce nel codice penale un nuovo articolo, l’art. 415-bis (rubricato «Rivolta all’interno di un istituto penitenziario»), prevedendo per la condotta di resistenza pure passiva all’esecuzione degli ordini impartiti la reclusione da 1 a 5 anni (analoga previsione, con un massimo edittale di 4 anni, è inserita dall’art. 27 con riguardo a episodi di rivolta o resistenza nei CPR).

 

 4. Il terzo punto riguarda il rispetto del principio di umanizzazione della pena, declinato con riguardo all’esigenza di assicurare il migliore interesse del minore, e si riferisce alla specifica previsione che trasforma l’obbligo di rinvio della pena per le donne incinte (o madri di figli di età inferiore a tre anni) in mera facoltà rimessa alla valutazione del giudice. L’articolo 15 modifica, infatti, gli articoli 146 e 147 c.p. rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni. Per le donne con bambini di età inferiore a un anno è previsto che scontino la pena, qualora non venga disposto il rinvio, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM). L’esecuzione non è rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. La norma differenzia il trattamento delle donne incinte/madri di figli di età inferiore ad 1 anno rispetto alle madri di figli di età compresa tra 1 e 3 anni per le ipotesi in cui non sia disposto il differimento. Nel primo caso la pena dovrà essere obbligatoriamente eseguita presso ICAM, nel secondo potrà esserlo solo se le esigenze di eccezionale rilevanza lo consentano. Come già segnalato nel Dossier del Servizio Studi del Senato riguardante il d.d.l. in esame, vi è sicuramente un problema di coordinamento con l’art. 47-ter ord. penit, poiché nel caso di mancato differimento della pena nei confronti di madre incinta o di figlio di età inferiore a un anno la nuova disciplina dispone l’obbligatorietà dell’esecuzione in ICAM, mentre la disposizione richiamata prevede la possibilità di applicazione della detenzione domiciliare. Ma il punto non è soltanto o tanto questo, quanto quello della completa sottovalutazione dell’interesse preminente del minore, il quale non solo ha un chiaro fondamento costituzionale, ma è oggetto di specifici obblighi internazionali, a partire da quelli sanciti nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (firmata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata con la legge 27 maggio 1991, n. 176).

Difficile dubitare del fatto che tali previsioni sono non solo contrarie al principio di umanizzazione, ma inidonee al perseguimento del migliore interesse della persona minorenne (best interests of the child), specie se riferito alla posizione di un infante. Il legislatore è chiaramente chiamato a ricercare la «soluzione ottimale “in concreto”», che consenta il soddisfacimento dell’interesse del minore, garantendo «la miglior “cura della persona”», come già affermato dalla nostra Corte costituzionale prima dell’adozione della Convenzione e sulla base dell’interpretazione dei principi della Costituzione (articoli 2, 30 e 31) riguardanti la tutela delle persone minorenni (sent. n. 11 del 1981) e ribadito, con specifico riguardo all’esecuzione penale, in importanti pronunce di accoglimento che hanno interessato, tra l’altro, le preclusioni alla concessione della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies o.p.) e della detenzione domiciliare ordinaria, in relazione alle detenute madri condannate per taluno dei delitti di cui all’art. 4 bis ord. penit. (sent. n 239 del 2014; si veda anche sent. n. 76 del 2017), nonché l’applicazione di analoghe misure per le madri di figli minori gravemente disabili a prescindere dall’età di questi ultimi (sent. n. 18 del 2020).

«Il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio». Dal libro profetico di Ezechiele (18:20) dovremmo aver imparato che non si può “far pagare al figlio” gli errori commessi dal genitore. E invece proprio questa può essere la conseguenza dell’intervento normativo in commento che consente una forma punitiva, quella della detenzione in carcere o in ICAM, la quale rischia di pregiudicare la crescita di infanti innocenti, privandoli degli affetti e degli spazi idonei a vivere degnamente i primi anni della loro esistenza.

L’odierna scelta legislativa non persegue sicuramente l’obiettivo del soddisfacimento dell’interesse della persona minorenne e finisce per tradursi in una irragionevole soluzione normativa, espressiva, peraltro, di una più generale impostazione del disegno di legge che sembra in molte parti porsi fuori dalla logica proprio del bilanciamento tra valori o interessi costituzionali, privilegiando l’esigenza di “sicurezza” oltre il punto che determina il completo sacrificio di diritti riconosciuti nella Costituzione e nei documenti internazionali. È quello il limite che il legislatore deve sempre rispettare, potendo, naturalmente, l’opzione politica privilegiare un interesse rispetto a un altro, ma non oltrepassando il punto che determini il totale pregiudizio dell’interesse o addirittura del diritto che entra “in conflitto” con quello che si intende far prevalere. E è un principio di civiltà giuridica – confermato dagli obblighi internazionali, dalla Costituzione, dalla giurisprudenza costituzionale ed europea – quello per cui l’opzione repressiva non può mai relegare nell’ombra la finalità rieducativa della pena e, a maggior ragione, non può mai sacrificare il rispetto del principio di umanizzazione, in quanto espressione del valore intangibile della dignità della persona.