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  Recensione  
04 Luglio 2025


Recensione di Jordi Nieva-Fenoll, Le origini della giustizia. Perché desideriamo che vinca il più giusto e non il più forte (Il Mulino, 2025)


Nel saggio Le origini della giustizia (Il Mulino, 2025), Jordi Nieva-Fenoll indaga le radici profonde della giustizia come esigenza umana, mostrando come il desiderio che prevalga il più giusto anziché il più forte affondi le sue radici non solo nella cultura, ma nella nostra evoluzione biologica e sociale. La recensione intreccia l’analisi del testo con una riflessione più ampia sulla rappresentazione della giustizia nella letteratura, in particolare nel genere giallo, da Dürrenmatt a Dostoevskij, da Sofocle a Yasmina Reza. Ne emerge un dialogo tra saggio scientifico e immaginario narrativo, che restituisce alla giustizia la sua dimensione più profonda: non mera tecnica giuridica, ma bisogno interiore, domanda di verità, forma di sguardo sull’altro. Un libro necessario per riscoprire il fondamento umano del processo e per interrogare, attraverso la giustizia, il senso stesso del convivere.

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Proprio mentre in Italia l’opinione pubblica è ipnotizzata dalla riapertura di un caso giudiziario di diciotto anni fa, è uscito per Il Mulino il saggio Le origini della giustizia di Jordi Nieva-Fenoll, Diritto processuale nell’Università di Barcellona. Un libro che ci costringe a guardare più a fondo, a risalire alla radice dell’esperienza giuridica e umana, interrogandoci su un’esigenza tanto antica quanto attuale: da dove nasce il nostro bisogno di giustizia?

Nieva-Fenoll parte da una tesi netta: l’essere umano non si accontenta che prevalga il più forte. Vuole che prevalga il più giusto. E questa esigenza, sostiene l’autore, non è un fatto solo culturale o etico, ma affonda le radici nella nostra storia biologica e sociale come specie. Nel primo capitolo (Il conflitto nei primati non umani), si analizzano i comportamenti di pacificazione osservati nei primati del genere Pan (paragrafi 2 e 6), arrivando a ipotizzare, nel paragrafo 7, una possibile origine biologica della giustizia: l’embrione di un ricorso a terzi, il principio – ancora inconsapevole – di un giudice.

Il secondo capitolo (Il conflitto nei primati umani) amplia lo sguardo alle prime comunità umane e ai rituali arcaici come l’ordalia o i proto-processi delle società indigene latinoamericane (par. 4), mostrando come la risposta al conflitto non sia mai soltanto vendetta, ma spesso si orienti già verso forme rudimentali di composizione. Il punto di svolta arriva nel capitolo III (La genesi del concetto di giustizia), dove l’autore mostra come la nascita dell’empatia e la tensione tra individuo e gruppo costituiscano il fondamento della giustizia come riconoscimento dell’altro (paragrafi 1 e 2).

Il percorso si conclude con una ricognizione storica concreta (Descrizione dei processi arcaici conosciuti): dall’Egitto ai Sumeri, dal diritto ebraico a quello indiano, cinese, greco e romano. In tutte queste civiltà, la giustizia non è affidata alla forza, ma cerca un equilibrio, una forma –  pur imperfetta – di imparzialità.

Questa riflessione si inserisce in una domanda più ampia che attraversa la nostra epoca: cosa cerchiamo davvero quando domandiamo giustizia? Un ordine? Una verità? Un risarcimento? Una catarsi? O forse, più semplicemente, la possibilità di tenere a bada l’ignoto?

Eppure questa esigenza di giustizia non si manifesta solo nei tribunali o nei saggi accademici. La troviamo anche nel modo in cui consumiamo storie e narrazioni, specie quelle poliziesche. Non è un caso che oggi i gialli occupino massicciamente l’ingresso di ogni libreria o in piattaforma. Vogliamo che ci sia un colpevole, una traccia, una verità che si faccia luce. Tutti vogliono gialli (in Italia si chiamano così perché nel 1929 – segno dei tempi – Mondadori usò quel colore sulle copertine di una nota collana di polizieschi). Il motivo lo spiega Friedrich Dürrenmatt nel 1958 in La promessa. Requiem per un romanzo giallo, in cui un comandante di polizia confida a uno scrittore di polizieschi: «Non ho mai avuto stima per i romanzi polizieschi, e mi rincresce che anche lei se ne occupi. Tempo sciupato... Da quando gli uomini politici deludono in misura tanto grave, la gente spera che almeno la polizia sappia mettere ordine nel mondo, benché io non possa immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa». Il giallo è quel che resta della nostra fame di verità e di giustizia: il detective, martire laico, la scoprirà, permettendo che si faccia giustizia. Vogliamo i gialli perché rimettono in sesto il mondo, riportano la casualità alla causalità, e amiamo i detective perché, risolvendo «un» caso, eliminano «il» caso. Ma siamo sicuri che sia così? Che cosa vogliamo davvero: verità e giustizia, o solo un racconto coerente, consolatorio, che rimetta in sesto il mondo?

Gialli sono i più grandi capolavori della narrazione umana. Il primo «caso» della letteratura è su un frutto mangiato (Genesi). Lo si chiama «caduta», che è proprio il significato della parola «casus» in latino, da cui l’italiano «caso». In ogni «caso» c’è l’eco di quella «caduta» originaria. Lì il giallo è presto risolto da Dio che però conduce un’indagine sull’uomo: «Dove sei?» gli chiede, cioè a che punto sei di te stesso, che fine hai fatto, che cosa hai compreso di te dopo tutto questo? Fuggire la verità crea una frattura tra noi e noi stessi, tra noi e il mondo. Questa frattura è l’uscita dall’eden.

Anche la più grande tragedia greca, l’Edipo di Sofocle, è un giallo. Il protagonista è il detective che risolve un caso in cui lui stesso, senza saperlo, è il colpevole. Questa è la variante greca della caduta: l’uomo è colpevole ma anche innocente, è la vita a essere un mistero, come la verità (ispirandosi al mito Dürrenmatt ha scritto l’ironico La morte della Pizia e il magistrale La panne).  Qualche secolo dopo tocca ad Amleto: «Il mondo è fuori di sesto e che noia doverlo sistemare», detective suo malgrado deve scovare il colpevole dell’assassinio del padre. Un’indagine in cui il detective soccombe insieme ai colpevoli. Poi è la volta di Dostoevskij che racconta, nella struttura di un poliziesco, che la vera pena di un delitto è averlo commesso, perché, per quanto si lotti per auto-assolversi, la menzogna ci autodistrugge (il nome del protagonista di Delitto e Castigo, Raskol’nikov, significa «diviso», «spezzato»). Anche qui il colpevole è noto da subito e il caso si risolve quando confessa volontariamente: solo la verità rende liberi, anche se si va in carcere, come succede a Raskol’nikov. È questa la complessità del reale che il poliziotto di Dürrenmatt non trova nei gialli contemporanei: «Quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l’intreccio. Qui l’inganno diventa spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia. Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità». Ci possono allora essere detective più o meno logici o intuitivi, da Holmes a Montalbano, ma nelle pagine dei giallisti alla fine il mondo torna in ordine. Questo ci soddisfa come un cruciverba, ma può illuderci, perché là fuori, come mostra la cronaca, impronte, dna, resti, tracce, prove non bastano mai, perché la vita non è un intreccio che si può sciogliere sempre, ma una matassa a volte inestricabile. Ma là fuori non va così, come mostra Yasmina Reza, scrittrice francese, che da 15 anni va nei tribunali a seguire vicende di ogni tipo. Ne ha tratto La vita normale, una galleria di casi anche efferati alternati a episodi della sua vita quotidiana che mostrano che a essere a processo è la vita stessa con la sua imperfezione: «Per me il tribunale è un luogo di osservazione come un altro, come la strada, o la mia camera da letto», dice la scrittrice, perché «colui che crediamo altro da noi non lo è». Imputati, vittime, testimoni potremmo essere e siamo noi.

In questa prospettiva, la giustizia si presenta, per ciascuno di noi, come un’evidenza insopprimibile. Sperimentiamo il senso della giustizia non come qualcosa che ci è estraneo o imposto dall’esterno, ma come esigenza propria, interiore, ineludibile. Non è mai solo una questione di regole, ma di sguardo: nel guardare un altro essere umano, il nostro giudizio non può fermarsi all’apparenza, al reato, alla maschera. Non si può giudicare bene se non si salva l’umano.

Ecco perché Le origini della giustizia di Nieva-Fenoll è un libro necessario: perché ci ricorda che il processo non nasce per affermare una tecnica, né per esercitare potere, ma come risposta a un bisogno profondo, umano, di equilibrio percepito come giusto. E che ogni giustizia che dimentichi l’umano, finisce per smarrirsi.

In conclusione, Le origini della giustizia non è solo un saggio di diritto o antropologia: è un’opera che ci interroga su ciò che rende umano il nostro convivere. Una lettura indispensabile per chi vuole comprendere le radici profonde della giustizia e, con esse, del diritto stesso.