Cass., Sez. VI, 11 settembre 2024 (dep. 25 novembre 2024), n. 42941, Pres. De Amicis, Rel. Tripiccione
1. Con la sentenza in commento, la Sesta sezione della Cassazione si è pronunciata sull’estensione dell’ambito applicativo della fattispecie di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti, di cui all’art. 391-ter c.p. La norma, introdotta dall’art. 9 del d.l. 21 ottobre 2020, n. 130 (conv. l. 18 dicembre 2020, n. 173) al fine di contrastare le comunicazioni non autorizzate con l'esterno da parte dei detenuti sottoposti a regime detentivo ordinario[1], punisce al primo comma chi, fuori dalle ipotesi più gravi dell’art. 391-bis c.p.[2] «indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto penitenziario uno dei predetti strumenti al fine di renderlo disponibile a una persona detenuta». Il secondo comma stabilisce una pena più elevata qualora l’autore del fatto sia un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o chi eserciti la professione forense. Al terzo comma, è infine prevista la punibilità del detenuto che «indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni».
2. Oggetto di controversia era, in particolare, la possibilità di qualificare come “apparecchio telefonico” o “altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni” una scheda SIM, introdotta dall’imputata nel carcere dove era detenuto il compagno, in occasione di uno dei colloqui con l’uomo. Contro la decisione del Tribunale di Campobasso di assolvere la donna, motivata in forza dell’inconfigurabilità del reato nel caso di specie, ricorreva in Cassazione il Procuratore generale, sostenendo che, in forza di una lettura «teleologica e logica» dell’art. 391-ter c.p., la disposizione dovesse ritenersi estesa anche alle condotte di introduzione in carcere di una scheda SIM, in quanto componente indispensabile per far funzionare un dispositivo mobile.
Investita della decisione, la Cassazione ha però rigettato tale lettura, ritenendo al contrario che un’interpretazione «letterale, teleologica e sistematica» della norma incriminatrice porti a circoscrivere l’oggetto delle condotte rilevanti ex art. 391-ter c.p. ai soli apparecchi telefonici o ad altri dispositivi intesi in senso unitario, con esclusione di singoli accessori.
2.1. La Corte muove, anzitutto, da una ricostruzione della funzione della scheda SIM, quale accessorio che consente l’accesso al servizio di comunicazione e/o navigazione internet offerto da uno degli operatori di telefonia: evidenzia tuttavia, da una parte, la non indispensabilità della scheda SIM allo scopo, posto che l’accesso ad internet può essere garantito anche in altri modi (ad esempio, usufruendo della rete di altri mediante funzione “hotspot”) e, dall’altra, l’inidoneità della sola scheda SIM, non inserita in un apposito apparecchio, a garantire un’effettiva comunicazione.
2.2. Rileva poi che, a livello normativo, quando il legislatore ha inteso estendere la punibilità anche a condotte aventi per oggetto parti di beni, lo ha fatto in modo espresso: così, ad esempio, nel caso della legislazione in materia di armi (l. 2 ottobre 1967, n. 895) dove sono punite tanto l’introduzione nello Stato, la vendita e la cessione senza licenza (art. 1), quanto la detenzione illegale (art. 2) di armi «o parti di esse».
In assenza di tale precisazione, l’estensione delle locuzioni “apparecchio telefonico” o “altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni” alla semplice scheda SIM travalicherebbe la soglia dell’interpretazione estensiva per risolversi in un’operazione analogica vietata, integrante per questo una «violazione dei principi di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie nonché […] della correlata garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze della propria condotta».
2.3. Anche a livello semantico, del resto, mentre l’espressione “apparecchio telefonico” si riferisce chiaramente ai dispositivi che consentono la comunicazione a distanza, la locuzione “altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni” andrebbe interpretata come riferita a congegni o apparati diversi dai primi, ma parimenti funzionali a consentire tale attività comunicativa (es: tablet, trasmettitori audio).
Il riferimento testuale alle due espressioni, previste dalla legge in forma disgiuntiva, «non può, dunque, riferirsi a “parti” degli apparecchi telefonici, ma risponde ad una esigenza di tecnica legislativa volta a ricomprendere in un’unica locuzione tutti i dispositivi diversi dagli apparecchi telefonici, sia attualmente disponibili sul mercato che frutto di una futura evoluzione tecnologica, che sono connotati dalla medesima destinazione funzionale, evitando, così, sia una pesante elencazione dei dispositivi vietati che continui interventi normativi di adattamento dell'oggetto delle condotte incriminate al progresso tecnologico»: si tratterebbe, cioè, di un caso tipico di normazione sintetica.
2.4. La soluzione restrittiva parrebbe ulteriormente confermata, secondo la Corte, tanto dalla ratio della norma incriminatrice, volta all’impedimento delle comunicazioni non autorizzate con l’esterno e dunque riferibile ai soli dispositivi in grado di garantire tali contatti, quanto dalla natura istantanea del reato in questione, che si consuma al momento e nel luogo dove l’agente procura, consente l’uso o introduce uno dei dispositivi contemplati dalla norma[3]: poiché in tale momento si condensa il pericolo di indebite comunicazioni, ne deriva che l’oggetto di tali condotte debba essere, di per sé, già idoneo a consentire la comunicazione con terzi[4].
2.5. Né pare irrilevante che, al terzo comma, sia prevista la punibilità del detenuto che riceva o utilizzi il dispositivo: secondo la Corte, una lettura in linea con il canone di necessaria offensività del reato impone di considerare come possibile oggetto di tali condotte solo l’apparecchio di per sé capace di garantire la comunicazione con terzi. Posto infatti che il bene giuridico tutelato dalla fattispecie in esame è individuato nelle «esigenze di prevenzione che giustificano l’interruzione dei contatti tra il detenuto e l’esterno»[5], ne deriva la necessità di delimitare l’ambito oggettivo del fatto alle sole ipotesi suscettibili di veicolare un’offesa a tale interesse. Di qui l’irrilevanza dei fatti di cui si discute, posto che la ricezione da parte del detenuto di una scheda SIM, priva di per sé di alcuna idoneità a consentire comunicazioni con l’esterno, si risolverebbe nella punizione di un fatto radicalmente inoffensivo.
2.6. Un’ultima conferma della correttezza dell’assunto viene rinvenuta, infine, rispettivamente nei lavori preparatori[6] e nelle riflessioni della dottrina: la Corte rileva infatti come, tanto il legislatore all’atto dell’introduzione della norma, quanto la dottrina nell’interpretazione che ha fornito della stessa, abbiano sempre fatto riferimento a telefoni cellulari o altri dispositivi considerati nella loro unitarietà. Anche alla luce di questi contributi, perciò, ad essere punito ai sensi dell’art. 391-ter c.p., dovrebbe essere sempre e solo il fatto che si riferisca ad un «dispositivo immediatamente utilizzabile», non anche a parti di questo inservibili all’uso immediato[7].
3. A valle delle considerazioni svolte, la Cassazione conclude però precisando che «diversa […] risulterebbe l'ipotesi in cui, ad esempio, contestualmente alla introduzione di una scheda SIM in un istituto penitenziario, venisse rinvenuto nella disponibilità del detenuto un dispositivo ove detta SIM potrebbe essere inserita, consentendo, così, di comunicare con terzi. Ad analoghe conclusioni potrebbe pervenirsi anche nel caso in cui, oltre al rinvenimento della scheda SIM, procurata o introdotta nell'istituto penitenziario, venisse accertato che il detenuto era in grado di fare “affidamento” su un dispositivo di un operatore penitenziario “compiacente” o corrotto».
La Cassazione sembra distinguere nettamente tale ipotesi dal caso della introduzione frazionata, in tempi diversi, di più parti di dispositivo: mentre queste ultime condotte, «seppure ipoteticamente coerenti con la ratio della disposizione incriminatrice, si pongono in netto contrasto con il principio di legalità e di tassatività, spettando al solo legislatore la valutazione in merito alla eventuale modifica della norma incriminatrice e, in particolare, all'estensione dell'oggetto materiale delle condotte tipizzate anche alle parti o agli accessori dei dispositivi destinati alle comunicazioni», le prime sembrerebbero potenzialmente ricomprese dalla Corte nell’area di rilevanza penale dell’art. 391-ter c.p.
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4. La pronuncia in esame si lascia certamente apprezzare per un’applicazione rigorosa del principio di legalità, sub specie di divieto di analogia: a fronte di condotte chiaramente descritte, dal legislatore, come riferite ai soli dispositivi telefonici o ad altri apparecchi funzionali alla comunicazione coi terzi, appare pienamente condivisibile il percorso argomentativo sviluppato dalla Sezione sesta per escludere l’estensibilità della norma a mere componenti di tali dispositivi e apparecchi, da sole inidonee allo scopo.
Si tratta di una lettura non solo supportata da ampi argomenti, letterali e sistematici, ma che presenta l’ulteriore pregio di evitare che l’incriminazione finisca per colpire condotte in concreto inoffensive, acuendo i dubbi che tale figura delittuosa da sempre solleva in punto ragionevolezza e proporzionalità della risposta sanzionatoria. L’art. 391-ter c.p., in effetti, è norma ampiamente criticata in dottrina, non solo in quanto espressiva di una politica criminale votata all’iper-criminalizzazione[8], ma anche per la forte anticipazione della risposta penale che essa configura: il reato, infatti, si consuma a prescindere dal fatto che una comunicazione di qualsiasi tipo sia effettuata, e addirittura prima che il detenuto sia entrato in possesso del dispositivo[9].
A tali criticità si somma, inoltre, la particolare severità del compasso edittale su cui si assesta la pena. Nelle ipotesi non aggravate di cui ai commi 1 e 3, la reclusione è prevista nella misura da uno a quattro anni di reclusione, superiore al trattamento sanzionatorio relativo a figure contigue, connotate da un disvalore apparentemente più pregnante: si pensi, tipicamente, al reato di evasione di cui all’art. 385 c.p., punito con la reclusione da uno a tre anni[10].
Le perplessità che la disciplina solleva, in punto proporzionalità e ragionevolezza, appaiono destinate ad aumentare se si considera infine che, per il detenuto, la sanzione si aggiunge alle significative conseguenze di tipo disciplinare che, da ben prima del 2020, sono associate a tali illeciti[11]: un assunto che fa dubitare della reale utilità dell’intervento e della sua giustificazione, specie alla luce del canone di sussidiarietà del diritto penale[12].
Con la lettura restrittiva operata nel caso di specie, in definitiva, la Corte sbarra la strada ad una estensione in chiave interpretativa di una fattispecie di per sé già profondamente problematica, contenendo così quantomeno la concreta applicabilità di tale figura delittuosa.
4.1. Nel contesto di una pronuncia equilibrata, che fa buon governo dei principi e che argomenta sotto più profili la soluzione sposata, le uniche criticità sembrerebbero derivare dalle rapide considerazioni finali, con cui la Cassazione sembra lasciare aperta la possibilità di ritenere integrato il reato laddove l’introduzione della scheda SIM si associ alla contestuale presenza, nella disponibilità del detenuto, di un apparecchio telefonico. Si tratta di una precisazione che, pur fondata su una comprensibile valorizzazione dello scopo dell’incriminazione, sembrerebbe risolversi in una forzatura almeno parziale del dato letterale, in apparente contrasto con le premesse da cui muove il ragionamento della Corte.
Fuori da un possibile concorso di persone nel reato – laddove, ad esempio, più soggetti di comune accordo forniscano al detenuto le varie componenti necessarie alla comunicazione con l’esterno – ricondurre l’ipotesi dell’introduzione della sola scheda SIM all’art. 391-ter c.p. è un’operazione che si scontra con il riferimento inequivoco ad un “apparecchio telefonico” o “altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni”, evidenziando frizioni con i canoni a più riprese richiamati nella pronuncia in commento e con le convincenti argomentazioni della Corte a favore di un’interpretazione rigorosa dell’art. 391–ter c.p.
Una soluzione alternativa sembra, tuttavia, possibile: in relazione all’evenienza considerata dalla Corte si potrebbe sostenere che la condotta di chi introduca una scheda SIM, consapevole della possibilità per il detenuto di utilizzarla su un apparecchio già presente all’interno della struttura, sia da riferirsi alla seconda modalità di realizzazione del reato, e cioè al fatto di chi “comunque consente a costui l'uso indebito dei predetti strumenti”. Si tratterebbe di una soluzione preferibile per almeno due ragioni: da una parte, insistendo su una dizione «di chiusura, […] ad ampio spettro»[13], tale opzione ermeneutica non sembrerebbe incorrere nello stesso sbarramento letterale delle altre condotte considerate dalla norma, con conseguente salvaguardia del principio di legalità; dall’altra, riferendosi all’utilizzo vero e proprio del dispositivo, essa parrebbe comunque colpire episodi collocati ad uno stadio più avanzato dell’offesa, attenuando almeno in parte le inquietudini della dottrina in punto necessaria lesività dei fatti ricompresi nell’ambito di incriminazione ex art- 391-ter c.p.
[1] Sul punto M. Cerfeda, Telefoni in carcere e reazione penale: un binomio in linea con il principio di sussidiarietà?, in Quest. Giust., 14 gennaio 2021, dove si analizzano anche i tentativi, operati dalla giurisprudenza prima dell’introduzione della norma, di sanzionare tali episodi mediante l’art. 650 c.p. (Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità).
[2] Disposizione che sanziona, invece, l’agevolazione delle comunicazioni dei detenuti sottoposti a regime detentivo differenziato ai sensi dell'art. 41-bis ord. pen. in elusione delle relative prescrizioni.
[3] G. Piffer, Art. 391-ter, in G. Forti – S. Riondato – S. Seminara, Commentario breve al Codice Penale, Milano, 2024, 1447. In giurisprudenza, si veda Cass., Sez. VI, n. 29 ottobre 2024, n. 39695, dove si afferma che «il reato di cui all'art. 391-ter cod pen si consuma anche con la semplice introduzione del materiale all'interno della struttura carceraria».
[4] Sulla necessaria idoneità dell’apparecchio allo scopo, eventualmente mediante accorgimenti tecnici di minima complessità, F. Antolisei, Diritto penale. Parte speciale, II, Torino, 2022, 755.
[5] G. Piffer, op. cit., 1446; analogamente anche A. Della Bella, Art. 391-ter, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, Milano, 2021, 1911; L. Monticelli, Accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti, in A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa (diretto da). Diritto penale, Milano, 2022, 2963. Di «effettività della sanzione detentiva e della custodia cautelare in carcere, che implica la possibilità di esercitare un controllo sulle libertà del detenuto funzionali all’adeguato perseguimento delle finalità sottese al relativo titolo detentivo» parlano invece M. Cerfeda, op. cit., 7 e R. Cantone, Art. 391-ter, in G. Lattanzi - E. Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Vol. IV, Milano, 2022, 256. Nella pronuncia, anche la Cassazione si riferisce espressamente alla «esigenza di garantire l'effettività della pena detentiva e della custodia cautelare in carcere».
[6] Dove si legge, in particolare, che «con la presente proposta di legge si intende introdurre nel codice penale un reato specifico per punire le condotte illecite di introduzione, possesso e utilizzo di apparecchi radiomobili o altri apparati idonei per le comunicazioni con l'esterno all'interno degli istituti penitenziari, al fine di prevenire e di contrastare tali condotte e, soprattutto, di garantire una maggiore sicurezza all'interno delle carceri, in modo da evitare che il loro dilagare possa arrecare pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblico».
[7] Si veda, in questo senso, L. Monticelli, op. cit., 2967, dove si legge che «occorre che il dispositivo telefonico [...] sia “idoneo ad effettuare comunicazioni”, con l’effetto che il reato non si configura, per sua inoffensività, qualora lo stesso non sia in grado, per sue disfunzioni, di permettere le comunicazioni suddette (si pensi, ad esempio, al telefono-giocattolo oppure a quello privo di elementi interni o danneggiato [...])».
[8] Criticamente G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Torino, 2021, 459, dove si parla di una fattispecie «creata per far fronte a esigenze sicuritarie, in chiave di sostanziale prevenzione di polizia».
[9] R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Torino, 2024, 769 s. Analogamente A. Della Bella, op. cit., 1911.
[10] M. Cerfeda, op. cit., 13; A. Della Bella, op. cit., 1912.
[11] L. Monticelli, op. cit., 2964. Riflette su un possibile contrasto con il principio di ne bis in idem, per il concorso di sanzioni penali e sanzioni disciplinari di carattere afflittivo, A. Della Bella, op. cit., 1912. Sostiene, viceversa, che la nuova fattispecie svolga «una apprezzabile funzione di prevenzione generale, in merito a fatti che prima della riforma [...] potevano essere puniti solo in forza di un illecito disciplinare», E. Cipani, Modifica dell’art. 391-bis e introduzione dell’art. 391-ter c.p. in materia di contrasto all’introduzione e all’utilizzo di dispositivi di comunicazione in carcere, in M. Giovannetti – N. Zorzella (a cura di), Immigrazione, protezione internazionale e misure penali. Commento al decreto legge n. 130/2020, conv. con mod. in legge 18 dicembre 2020, n. 173, Pisa, 2021, 199.
[12] Criticamente, sul punto, M. Cerfeda, op. cit., 10 ss.
[13] M. Cerfeda, op. cit., 7.