Negli ultimi vent’anni, la popolazione femminile detenuta è cresciuta del 60% a livello globale, mentre quella maschile è aumentata del 22% (Penal Reform International, 2023). Nonostante ciò, nella maggior parte dei paesi del mondo, inclusa l’Italia, le politiche penitenziarie continuano a riflettere una struttura pensata per detenuti uomini, e il dibattito giuridico raramente si sofferma su come l’organizzazione delle strutture carcerarie possa influire sul reinserimento sociale delle donne.
In un recente studio (Calamunci et al., 2025), analizziamo per la prima volta, usando dati italiani, l’effetto causale sulla recidiva femminile dello scontare una determinata pena in un carcere che ospita solo donne (chiameremo queste “carceri femminili”), piuttosto che nella sezione femminile di un carcere prevalentemente maschile (chiameremo queste “carceri miste”). I risultati sono netti: scontare la pena in una struttura interamente femminile riduce la probabilità di recidiva nei tre anni successivi al rilascio da 8 a 16 punti percentuali.
Una strategia per identificare l’effetto
In Italia esistono quattro carceri esclusivamente femminili (a Roma, Venezia, Trani e Pozzuoli) e oltre cinquanta istituti a composizione mista, nei quali è presente una sezione femminile spesso di dimensioni molto ridotte. In termini di capienza regolamentare, le quattro carceri femminili contano in media circa 125 posti letto, rappresentando complessivamente il 24% del totale. Al contrario, le sezioni femminili degli istituti misti spesso non arrivano a ospitare nemmeno 30 detenute. Secondo i dati raccolti dall’associazione Antigone (2019; 2023), queste sezioni presentano condizioni peggiori rispetto alle carceri interamente femminili, in particolare per quanto riguarda l’accesso ai servizi sanitari, agli spazi comuni, alle attività lavorative e a quelle formative.
Il nostro obiettivo è verificare se, e in quale misura, lo scontare una pena in un carcere femminile piuttosto che in uno misto riduca in media, a parità di altre circostanze, la recidiva delle detenute. Per far questo è necessario affrontare un difficile problema metodologico: le detenute non vengono assegnate a caso ai diversi istituti ma sono selezionate, ed è verosimile che ci siano caratteristiche personali, o del reato commesso, che influenzino sia la struttura a cui una persona viene destinata, sia il rischio che essa torni a delinquere una volta rilasciata. Confrontare semplicemente i tassi di recidiva tra i due gruppi (detenute nelle carceri femminili e detenute nelle carceri miste) darebbe in tal caso un’immagine distorta della realtà, perché quel confronto assomma e confonde tra loro due aspetti: uno, che è quello che ci interessa, è l’effetto causale sulla recidiva dello scontare la pena in un carcere femminile (cioè, per le detenute assegnate a un carcere femminile, la differenza tra la loro recidiva effettiva e quella che avrebbero avuto se fossero state assegnate a un carcere misto) e l’altro, che invece non ci interessa, è l’effetto della selezione, derivante dal fatto che le detenute assegnate a carceri femminili non sono scelte a caso (e, per questo, la recidiva che le detenute assegnate a carceri femminili avrebbero avuto, se non fossero state lì assegnate, non è in genere la stessa di quelle che non sono state scelte per un carcere femminile). La difficoltà sta nel fatto che entra in gioco un “controfattuale” (cioè una quantità che non possiamo direttamente osservare): la recidiva che le detenute “trattate” dal fatto di essere assegnate a un carcere femminile avrebbero avuto se non fossero state così trattate (poiché sono state trattate, non potremo mai osservare che cosa sarebbe successo se non lo fossero state).
Per superare questa difficoltà sfruttiamo un aspetto peculiare delle regole istituzionali di assegnazione alle carceri. In Italia, la decisione su quale istituto debba accogliere una detenuta è presa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), secondo due criteri principali, potenzialmente in conflitto tra loro.
Da un lato, la legge sull’Ordinamento Penitenziario (art. 14 O.P.) stabilisce che i detenuti debbano essere assegnati a istituti il più vicino possibile al proprio luogo di residenza. Questo principio, ispirato anche alle direttive delle Nazioni Unite (United Nations, 2010) e previsto anche in altre democrazie, come gli Stati Uniti, è volto a tutelare i legami familiari e sociali.
Dall’altro, il DAP può derogare a tale criterio per ragioni di sicurezza, capienza o opportunità trattamentali. In particolare, è consapevolezza diffusa, all’interno del DAP, che le carceri femminili sono, in linea di principio, più adatte a rispondere ai bisogni specifici delle donne e sono quindi tendenzialmente da preferire.
Quando la distanza tra la residenza di una detenuta e il carcere misto più vicino è significativamente inferiore all’analoga distanza con il carcere femminile più vicino, il criterio della prossimità tende a prevalere e la detenuta viene assegnata al carcere misto. Ma se la distanza tra le due opzioni non è troppo sbilanciata – per esempio quando il carcere femminile è solo leggermente più lontano – allora la preferenza per l’istituto femminile tende a prevalere. Di conseguenza, la probabilità che una donna venga assegnata a un carcere femminile è tanto maggiore quanto minore è la distanza in favore del carcere misto, poiché in tal caso è più probabile che il secondo criterio prevalga (quando il carcere femminile è più vicino alla residenza della detenuta di quello misto, i due criteri non sono in conflitto e quasi sempre l’assegnazione è al carcere femminile).
La differenza tra le due distanze – dalla residenza al carcere misto più vicino e al carcere femminile più vicino – è un fattore oggettivo, legato alla geografia e non alle caratteristiche personali della detenuta. Proprio per questo, possiamo usarla per depurare la stima dall’effetto selezione e ottenere la sola componente causale: confrontiamo la recidiva di detenute che differiscono per il fatto che la differenza tra le due distanze rende più o meno probabile la loro assegnazione a un carcere femminile. In questo modo, siamo in grado di confrontare donne molto simili tra loro, che sono state assegnate a strutture diverse per ragioni non legate a loro caratteristiche individuali o alla gravità del reato (caratteristiche che, a loro volta, ne influenzano la recidiva).
Questa metodologia ci consente di approssimare una assegnazione quasi-casuale alle strutture detentive, e quindi di stimare in modo credibile l’effetto del tipo di carcere – femminile o misto – sulla probabilità di recidiva.
Sfruttando una regola istituzionale, e di cui riscontriamo nei dati l’operare, possiamo dunque rispondere a una domanda centrale per le politiche penitenziarie: può il contesto carcerario, e in particolare la composizione di genere dell’istituto, incidere concretamente sul futuro delle persone detenute?
Risultati principali
Il nostro studio, basato su oltre 10.000 osservazioni individuali nel periodo 2012–2022, mostra che le detenute assegnate a carceri femminili hanno una probabilità di recidiva inferiore tra gli 8 e i 16 penti percentuali rispetto a quelle assegnate a sezioni femminili in carceri maschili. L’intervallo di valori stimati dipende da quali controlli sono inseriti nella specificazione dell’equazione stimata; in particolare, i valori superiori si ottengono nelle specificazioni più restrittive, in cui cioè i confronti sono fatti a parità di un numero maggiore di caratteristiche, e quindi sono verosimilmente più affidabili. Gli effetti stimati sono inoltre robusti, cioè non variano molto, quando consideriamo sottoinsiemi del nostro campione: si osserva già nel primo anno dalla scarcerazione, è presente sia tra italiane che tra straniere, ed è presente per diversi tipi di reati.
Non siamo in grado, con i dati attualmente disponibili, di identificare con chiarezza il meccanismo sottostante l’effetto causale che osserviamo. Le carceri femminili tendono a offrire condizioni migliori: maggiore libertà di movimento interno, migliori servizi sanitari (inclusi ginecologi e ostetriche), maggiori opportunità lavorative, una direzione spesso femminile (96% dei casi), e una più ampia libertà di movimento interno. Tuttavia, nessuno di questi fattori, considerato singolarmente, sembra spiegare per intero l’effetto che troviamo sulla recidiva. Riteniamo dunque che si tratti di un “trattamento congiunto”, ovvero di un insieme di condizioni favorevoli al reinserimento che operano in sinergia. In particolare, la riduzione della recidiva causata dallo scontare la pena in un carcere femminile risulta maggiore quando, per confronto, si considerano carceri miste in cui la dimensione della sezione femminile (sia in termini relativi sia assoluti) è particolarmente ridotta, così che le donne rappresentino una componente ancora più marginale della popolazione detenuta. Questo, insieme all’associazione tra minore recidiva femminile e il genere della direzione carceraria, suggerisce che per contenere la recidiva e favorire il reinserimento sociale delle detenute sia fondamentale un’organizzazione carceraria dotata di una dimensione minima adeguata e di una specifica sensibilità alle esigenze delle donne. Un’analisi più approfondita dei meccanismi sottostanti l’effetto causale che identifichiamo nel lavoro, anche basata sulla raccolta di dati più accurati e non episodici sulle condizioni carcerarie, è un importante direzione di ricerca futura.
Due esperimenti interessanti
Abbiamo usato i risultati delle nostre stime per condurre due simulazioni ipotetiche che, pur nella loro semplicità possono fornire qualche indicazione a possibili interventi di politica carceraria.
Il primo esercizio consiste nel calcolare, per ciascun comune italiano, quale riduzione di recidiva si otterrebbe se in quel comune venisse aperto un nuovo carcere femminile, di dimensioni adeguate. Il calcolo si basa sull’ipotesi forte, ma non incoerente con quanto osservato in passato, che la distribuzione geografica futura delle detenute sia analoga a quella che osserviamo nei dati a nostra disposizione. Sulla base di questo calcolo, il comune in cui l’apertura di un nuovo carcere femminile avrebbe il massimo effetto di riduzione della recidiva risulta essere Zinasco, in provincia di Pavia, a breve distanza da Milano, Torino e Genova.
Il secondo esercizio consiste nel verificare se, data la distribuzione geografica attuale della capienza regolamentare, alcune delle carceri miste potrebbero essere invece dedicate esclusivamente alle donne, con una corrispondente riallocazione dei detenuti uomini in altre carceri all’interno della stessa regione. Il calcolo mostra che, riconvertendo selettivamente alcune delle carceri miste già esistenti, l’intero sistema potrebbe passare a un modello a “singolo genere” senza bisogno di costruire nuove strutture.
Nel complesso, lo studio rappresenta un contributo originale e rigoroso al dibattito sulla giustizia penale femminile. I risultati suggeriscono che strutture carcerarie progettate attorno ai bisogni delle donne — e non semplicemente adattate — possono favorire una maggiore riabilitazione e un minore tasso di recidiva.
Bibliografia