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06 Luglio 2023


A proposito di carcere, uso della forza e tortura

Testo dell'intervento alla tavola rotonda conclusiva del corso della Scuola Superiore della Magistratura su "Tortura e abuso di autorità" - Scandicci, 30 giugno 2023



1. Premessa. Una discussione serena sul tema della prevenzione e del contrasto dell’uso illegittimo della forza pubblica esige di porre una precondizione, che è quella di accettare che il fenomeno esista. In questo, come in altri campi, va infatti purtroppo di moda la tesi negazionista. Si tratta della tesi, adombrata neppure troppo velatamente dai sottoscrittori della proposta di legge n. 623, presentata alla Camera dei deputati il 23 novembre 2022, avente ad oggetto l’abolizione del reato di tortura quale fattispecie autonoma, dove si legge quanto segue: «Le pene previste per il reato [di tortura] sono chiaramente sproporzionate rispetto ai reati che puniscono nel codice attualmente tali condotte (percosse, lesioni, minacce, eccetera) e non giustificate dall’andamento della situazione criminale in Italia; non risulta infatti che ci sia una recrudescenza di reati e di abusi in genere commessi da appartenenti alle forze dell’ordine nell’esercizio della loro funzione tale da giustificare l’introduzione di un nuovo reato».

Mi sembra che i gravi fatti accaduti a macchia di leopardo un po’ dappertutto (Genova, San Gimignano (11.10.2018)[1], Bari (27.4.2022)[2], Modena, Ferrara, Torino (agosto-novembre 2018)[3], Ivrea, Santa Maria Capua Vetere (6.4.2020)[4], Biella, ecc., che attualmente vedono indagati, imputati ed in taluni casi già condannati per il reato di tortura, non pochi agenti di polizia penitenziaria, siano lì a categoricamente smentire tale assunto.

Credo di conseguenza che le perplessità che anche alcuni di noi hanno manifestato quando nel 2017 è stato introdotto il reato di tortura debbano essere decisamente superate: chi riteneva che il codice penale presidiasse a sufficienza le ipotesi di uso illegittimo della forza pubblica[5], e che l’introduzione di un reato così specifico come quello di tortura fosse una specie di esagerazione, deve ricredersi a fronte della vastità e della pervasività del fenomeno, che confesso ha sorpreso anche me, quantunque fossi tra i primi che, stanti le funzioni di vigilanza e di controllo esercitate, avrebbero dovuto accorgersi di quanto stava accadendo nei nostri istituti di pena.

Dal punto di vista ideale (ideologico-valoriale), v’è da dire che il tema dell’uso illegittimo della forza è ad ogni buon conto riapparso sulla scena del dibattito giuridico proprio in pieno XXI secolo, quando sembrava che la tortura fosse solo il triste ricordo della barbarie dei secoli bui che avevano preceduto l’età dei lumi, e che su di essa avesse detto l’ultima parola Cesare Beccaria.

La discussione sulla tortura, istituto del passato che pure veniva considerato come un abominio pubblicamente ripudiato, è infatti tornato prepotentemente di moda specialmente dopo l’attacco alle torri gemelle: sono cominciate infatti ad affiorare teorie neo-giustificazioniste provenienti non tanto e non solo da pensatori simpatizzanti dei regimi totalitari, ma anche da intellettuali militanti nell’area liberal.

La prospettiva invocata era ed è di stampo meramente utilitaristico, legata cioè alla cd. carrellologia[6], la cui consapevole tematizzazione aveva trovato impulso tra i filosofi britannici e statunitensi nell’ultimo scorcio del XX secolo: l’immagine è quella di carrelli ferroviari fuori controllo e di uomini grassi che vengono fatti cadere da una balaustra per bloccare i binari ed evitare così la morte di altre persone poste sulla carreggiata.

Se è stato indubbiamente illecito che il Commissario De Tormentis (così chiamato, e non a caso, dai suoi stessi colleghi) torturasse un sequestratore per liberare un generale rapito (caso Dozier)[7], ci si chiede se sia lecito torturare un terrorista perché dica dove e quando scoppierà una bomba.

Il tema della tavola rotonda di oggi sfugge solo apparentemente a questa premessa: lo dico perché, nell’esempio che ho appena fatto, il Tribunale di Asti, pur riconoscendo che una pluralità di condotte violente, vessatorie, umilianti e denigranti da parte della polizia penitenziaria ben può integrare l’elemento materiale del reato di maltrattamenti, ne ha però escluso la sussistenza per mancanza dell’elemento soggettivo, in quanto «gli agenti avevano come fine primario quello di instaurare un sistema di sopraffazione e di vessazioni non tanto per svilire la personalità del detenuto, quanto per punirlo e per dare un segnale forte e chiaro a tutti gli altri».

Questo ragionamento, che dimentica che il delitto di maltrattamenti si consuma a titolo di dolo generico, si inserisce in un filone di pensiero che purtroppo trova il suo tristissimo aggancio culturale in alcuna delle risposte che gli operatori di polizia penitenziaria hanno dato nel corso della prima indagine condotta dal prof. Cornelli sul personale lombardo della polizia penitenziaria (v. infra).

Di qui, per il Tribunale di Asti, la sola condanna per il delitto di cui all’art. 608 c.p. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti), ovviamente prescritto.

Per la Cassazione invece di maltrattamenti belli e buoni si trattava, sebbene anch’essi prescritti nelle more del giudizio di legittimità.

È ovvio che la Cassazione ha avuto ragione di tale tesi, affermando che per la configurazione del delitto di maltrattamenti non è necessario il dolo specifico, sufficiente essendo quello generico, irrilevanti restando gli scopi, i moventi e le intenzioni dell’autore di tali condotte.

Ma come è possibile che nella testa degli agenti di polizia penitenziari (nei cui confronti il Tribunale di Asti ha ritenuto sussistente il solo reato di cui all’art. 608 c.p.) la compressione dei fondamentali beni giuridici facenti capo alla vittima venisse giustificata dall’intento di salvaguardare un bene giuridico ritenuto prevalente (l’ordine e la sicurezza del carcere)?

Nel corso della mia esperienza di magistrato di sorveglianza ho dovuto purtroppo confrontarmi con il tema oggetto di questa tavola rotonda, il quale assume una connotazione particolare per quanto riguarda il mondo del carcere.

I colleghi più anziani mi avevano avvisato che in diversi istituti esisteva la “squadretta”: si tratta di un gruppetto di agenti che di notte “sistemava le cose” con i detenuti che di giorno creavano problemi, prelevandoli dalle loro celle e portandoli in zone del carcere lontane da sguardi indiscreti.

Nel corso della mia prima visita al carcere assegnatomi ho subito chiesto al Direttore se a Padova fosse mai esistita, e se ci fosse ancora, la “squadretta”. “Non si preoccupi, dottore…sono cose del passato, fortunatamente scomparse… per i miei agenti garantisco io, sono tutti bravi ragazzi…”. Mi sono subito tranquillizzato, anche se mi avevano lasciato perplesso le ultime parole che il direttore mi aveva rivolto mentre uscivo dal suo ufficio: “…dottore, in ogni caso bisognerebbe capire: cò ce vò ce ”.

L’audio choc del 2 novembre 2009, ripreso presso il carcere di Teramo, dove è stata registrata la famosa frase: “Agente, un detenuto non si picchia in sezione…”[8], mi avrebbe successivamente dato la triste conferma che la squadretta esisteva ancora. Un’ulteriore conferma mi era poi stata data dai colloqui avuti con qualche agente: ricordo bene la cena di saluto per il pensionamento di uno di essi, il quale mi ha comunicato con orgoglio di aver sempre fatto il suo dovere, rivendicando con fierezza di non aver mai voluto far parte della “squadretta”. Gli ho augurato buona pensione: non potevo rovinargli la festa ricordandogli l’art. 361 c.p. sul reato di omessa denuncia.

Ebbene: è triste constatare come i fatti di Santa Maria Capua Vetere abbiano reso evidente come quella che un tempo era la “squadretta”, che agiva di nascosto, di notte e possibilmente al di fuori della sezione perché nessuno vedesse o sentisse, è oggi diventata uno squadrone che agisce “a viso aperto” (quantunque ovviamente mascherato) e con le più ampie coperture dei vertici della catena di comando, declinando un ulteriore aspetto possibile di quella che il prof. Umberto Galimberti definisce come la categoria dell’assoluta apatia morale.

 

2. L’origine della violenza. Fatta questa doverosa premessa, c’è ora da chiedersi da dove venga tanta violenza. Il prof. Cornelli, che ha indagato la letteratura sulla police brutality, riportando le riflessioni della prof.ssa Griffin, criminologa americana che ha studiato l’uso della forza in contesti penitenziari[9], evidenzia come l’orientamento punitivo degli agenti di custodia risulti significativamente associato all’età (i giovani sono più punitivi), al genere (le donne sono infatti più inclini alla risocializzazione) e all’anzianità di servizio (più anziani si è, più prevale l’orientamento custodiale di sorveglianza e di controllo).

Incidono sul fenomeno degli agìti violenti la paura di subire un’aggressione ad opera dei detenuti, la sensazione di non essere autorevoli nei confronti dei detenuti, la scarsa qualità della supervisione sul lavoro degli agenti; chi ha più paura mostra atteggiamenti più punitivi, al pari di chi percepisce di possedere un più basso livello di autorevolezza nella prigione; chi si sente ascoltato e coinvolto nei processi decisionali, invece, ha atteggiamenti meno improntati alla severità; gli agenti che percepiscono che l’organizzazione nel suo complesso li supporta e si preoccupa dell’operato del personale risultano più inclini alla riabilitazione di detenuti e meno inclini all’uso di “mezzi sbrigativi”.

Sono soprattutto gli orientamenti punitivi ad avere un impatto significativo sulla probabilità di uso della forza, insieme a variabili più organizzative e di contesto, come l’ambiguità del ruolo, che sarebbe fonte di frustrazione tale da spingere l’agente  a sentirsi autorizzato ad agire sulla base di regole proprie, soprattutto laddove la paura di essere vittimizzati è alta in contesti in cui la relazione tra agenti e detenuti è caratterizzata da un conflitto strutturato.

Lo studio di Roberto Cornelli è stato successivamente sviluppato ed approfondito nell’interessante studio apparso su questa Rivista 6 dicembre 2022, intitolato “Prima indagine sul personale lombardo della polizia penitenziaria”.

Sono stati somministrati dei test a 845 agenti di polizia penitenziaria allo scopo di rilevare la loro percezione su cinque questioni: qualità del lavoro, gestione di eventi critici, orientamento professionale, legittimazione istituzionale ed anche, per quel che qui interessa, propensione all’uso della forza.

Il 36,7% degli intervistati ha risposto che sarebbe disposto a usare la forza in almeno una delle quattro seguenti situazioni: 1) in certe situazioni occorre usare la forza per non apparire deboli; 2) per non avere problemi in futuro occorre usare la forza con chi non obbedisce; 3) qualche volta è necessario reagire con la forza per rimettere al proprio posto chi insulta me o un mio collega; 4) per farsi rispettare qualche volta accade di usare più forza di quanto sarebbe strettamente indispensabile.

È inutile osservare che le risposte date in tutte e quattro tali situazioni configurano comportamenti che esulano dai limiti contrassegnati dall’art. 41 o.p. quanto alla legittimità dell’impiego dell’uso della forza fisica (la forza fisica non si può usare se non quando sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini).

Ma se è vero che l’uso illegittimo della violenza appartiene ad aspetti patologici del sistema, è cioè una piaga, un male in sé, esiste una rilevante differenza tra il male che può attraversare certi settori della polizia penitenziaria e gli altri mali che in genere possono riguardare i restanti corpi sociali.

Tutte le grandi organizzazioni, ivi inclusi i corpi sociali per così dire “qualificati”, sono periodicamente attraversate da “mali”, o “deviazioni”, cioè da comportamenti che contraddicono gli scopi stessi dell’organizzazione: pensiamo allo scandalo della pedofilia nella Chiesa cattolica, al fenomeno della corruzione che ciclicamente investe la Guardia di Finanza, al fenomeno del depistaggio adottato in certi casi da generali e colonnelli appartenenti all’Arma dei Carabinieri (penso al caso Cucchi), o al fenomeno dei cd. servizi segreti deviati, i cui rapporti con le stragi che hanno insanguinato il nostro Paese è stato di recente raccontato in un imperdibile libro scritto dall’ex capo del D.A.P. Giovanni Tamburino[10].

La Chiesa potrà perdere la stima di qualche battezzato, ci sarà qualche contribuente in più che si sentirà legittimato ad evadere il fisco, qualche giovane che abbraccerà con meno entusiasmo la divisa della Benemerita, ci sarà qualche politico in più che vorrà abolire i servizi segreti.

Ma il ricorso all’uso illegittimo della forza in ambito penitenziario, oltre ad essere un male in sé, è un fattore che disturba maledettamente l’opera rieducativa e che reca un danno incalcolabile all’intera comunità penitenziaria, presente e futura.

Si tratta di un danno ultrattivo ed esponenziale, dalle conseguenze inimmaginabili.

È davvero molto difficile, se non impossibile, indurre chi ha sbagliato al rispetto delle regole all’interno di un ambiente, chiuso e costipato, in cui gli addetti all’opera rieducativa (tali sono anche gli agenti di polizia penitenziaria) dimostrano per fatti concludenti di fare troppo vistose “eccezioni” rispetto all’osservanza della legalità.

Se poi il male di cui parliamo viene esaminato guardando l’intera “catena di comando”, e se si legge a tal proposito la sentenza della Corte di cassazione[11], che ha confermato l’ordinanza del Tribunale della libertà di Napoli applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari al Comandante di Reparto del carcere di Santa Maria Capua Vetere, veniamo assaliti da un senso di sconforto e di desolazione.

Sconforto e desolazione che risaltano dal confronto con l’art. 13, 3° comma della Costituzione, che punisce ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà e che rappresenta l’unica norma dell’intera Carta che pone espressamente un obbligo di intervento penale[12].

 

3. Quali rimedi? Cosa fare per evitare che in futuro episodi simili abbiano a ripetersi? Intravedo, tra le tante possibili, almeno quattro azioni alle quali por mano nell’immediato.

 

3.1. Il prof. Cornelli, nel testo che ho sopra citato, chiarisce che le violenze collettive recano un messaggio di tipo esemplare: esso va oltre la vittima diretta o indiretta per rivolgersi ad una collettività o a parte di essa; va oltre l’autore o gli autori, che agiscono in rappresentanza di una collettività o di parte di essa; tende a ribadire nel caso concreto le condizioni di quell’ordine sociale rivendicato da una collettività o da parte di essa. Le scelte di azione dei poliziotti violenti si costruiscono in un delicato equilibrio tra diversi processi di legittimazione e nell’intersezione tra soggettività, situazione contingente, sapere istituzionale e sistema culturale. Ebbene: la prima cosa da fare è quella di de-violentizzare il carcere partendo da una intensa ed efficace opera di formazione che abbia ad oggetto la ricostruzione di quello che, con un’efficace metafora, i criminologi Ceretti e Natali[13] hanno definito come “parlamento interiore” del soggetto, quale somma di tutte le opinioni “internalizzate” dall’agente penitenziario durante l’arco dell’intera esistenza, a partire dai genitori, dagli insegnanti, dagli esponenti di spicco della propria comunità politica, lavorativa, religiosa, dal gruppo dei pari, ecc.

A rieducare i colpevoli lo Stato deve impegnare i propri uomini migliori, i meglio formati ed i più frequentemente aggiornati. Uomini che non percepiscano il detenuto come “altro”, come una specie di “nemico”, ma come persona da inglobare, da recuperare, da reinserire.

Serve allora una ben più rigorosa politica di assunzione del personale.

La settimana scorsa ho conosciuto due giovani agenti di polizia penitenziaria, assunte da poco e appena giunte a Trieste, alle quali ho chiesto quanto fosse durata la loro attività di formazione: la risposta è stata “Siamo state un mese alla scuola di Verbania”.

Assieme ad una scrupolosa ed attenta politica di selezione del personale penitenziario, è indispensabile un’attività di formazione continua fatta di corsi antiviolenza, di teoria di neutralizzazione dei contrasti, di raffreddamento dei conflitti, di gestione della rabbia, di gestione del burnout, ecc.

La vita dell’agente di polizia penitenziaria, che è resa sempre più difficile dall’aumento del numero degli eventi critici, va sostenuta, sorretta e soprattutto capita.

Un detenuto, anche se di piccolissimo spessore criminale, se si mente di buzzo buono può fare letteralmente impazzire nel giro di poche ore un agente impreparato a reggere le sfide dei turni che non finiscono mai, del Direttore che non mi calcola, del Comandante di reparto che si crede chissà chi solo perché è laureato, ecc.

 

3.2. La seconda cosa è quella di eliminare dal carcere ogni forma di violenza legittimata dall’istituzione. Penso a questo proposito che la geografia interna del carcere dovrebbe cessare di adeguarsi alla subcultura criminale: custodendo a parte i sex-offenders e chiamandoli con il nome di “protetti”, lo Stato indirettamente dà quasi per scontato l’uso della violenza nei confronti di chi ha commesso reati imperdonabili, oppure di chi è per definizione imperdonabile perché ha fatto la spia (il cd. “infame”) o ha il solo torto di essere appartenuto alle forze dell’ordine.

 

3.3. Nell’immediato penso poi sia necessario dare immediata attuazione a molte delle proposte elaborate dalla Commissione Ruotolo[14]: si tratta di proposte di tale semplicità e di tale buon senso da far sperare di poter essere accolte, almeno in parte, anche dalla formazione di centrodestra che oggi governa il paese. Al fine di limitare il rischio dell’uso indebito della forza all’interno degli istituti di pena è stato riscritto l’art. 41 o.p., facendogli dire che la forza fisica costituisce l’ultima risorsa ed è adoperata nella misura minima indispensabile e per il più breve tempo possibile, con obbligo, per il personale che vi abbia fatto ricorso, di immediatamente informarne il direttore dell’istituto, il quale ha l’obbligo di procedere alle indagini del caso, nonché il responsabile sanitario, il quale ha l’obbligo di provvedere senza indugio agli accertamenti sanitari.

Vi si prevede anche che ogni strumento di difesa in dotazione all’istituto penitenziario sia contrassegnato con un identificativo numerico apposto in modo visibile e che vi sia un registro in cui è annotato il nominativo dell’operatore che in ogni occasione ne faccia uso. Se si dà modo al detenuto di sapere chi lo picchia, calerà di molto la probabilità che il ricorso all’uso della forza avvenga nei casi in cui la legge non lo consente.

 

3.4. Essendo la propensione all’uso della violenza determinata da fattori eminentemente socio-culturali, ritengo che un ruolo di forte corresponsabilità sia addebitabile in questa materia anche all’informazione e all’immenso suo potere conformativo delle coscienze. Sul Gazzettino del 11 giugno 2023 è stata pubblicata una lettera al Direttore che commenta i gravi fatti occorsi presso la Questura di Verona qualche settimana fa. “Quei poliziotti potrebbero avere esagerato, ma considerando che trattavano con delinquenti recidivi a qualsiasi altro contenimento, non mi sento affatto di condannarli”. È ovvio che pubblicare una lettera così in uno dei quotidiani più letti dell’intero nord-est sottintende un preoccupante tasso di acquiescente condivisione.

Si tratta di quello stesso collasso morale dell’etica pubblica che segna il progressivo venir meno di valori che credevamo condivisi, la cui responsabilità (non diamo tutta la colpa alla stampa, che vive per vendere più che per educare) sta anche nel comportamento di chi, alla continua ricerca del premio elettorale, inneggia allo slogan del “buttiamo via la chiave…lasciamoli marcire in galera…”.

 

 

 

 

[1] Il processo si è diviso in due tronconi: il primo è stato celebrato presso il Tribunale di Siena con rito abbreviato con sentenza (non definitiva) del 17 febbraio 2021, recante condanna di 10 agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura; il secondo è stato celebrato con rito ordinario: il Tribunale di Siena, con  sentenza (anch’essa non definitiva) del 9 marzo 2023 ha condannato 5 agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura: i fatti contestati sono in tutto e per tutto sovrapponibili a quelli restituitici dalle immagini relative alla “mattanza” (così definita dal g.i.p. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere), che abbiamo visto tante volte in tv.

[2] Il processo si sta celebrando avanti il Tribunale di Bari, ove il g.u.p. ha disposto il rinvio a giudizio di sei agenti di polizia penitenziaria per il reato di tortura commesso ai danni di un detenuto affetto da patologia psichiatrica (sono stati rinviati a giudizio anche due agenti, i quali hanno assistito alla scena senza parteciparvi attivamente, non impedendo però la condotta dei colleghi).

[3] Le condotte di tortura, asseritamente commesse ai danni di diversi detenuti, risultano contestate a 18 agenti di polizia penitenziaria, tutti rinviati a giudizio il 20 aprile 2022.

[4] L'azione penale è stata esercitata nei riguardi di 107 imputati, tra cui i vertici della catena di comando che il 6 aprile del 2020 ideò, organizzò e autorizzò lo svolgimento della perquisizione generale, definita poi “straordinaria”, all'interno del carcere “F. Uccella”. Il processo è ora in fase dibattimentale avanti la Corte d'assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; i due imputati che hanno scelto il rito abbreviato (Angelo Di Costanzo e Vittorio Vinciguerra) sono stati assolti per non aver commesso il fatto in data 20.6.2023.

[5] Cass. pen., VI, 21.5.2012, n. 30780, Rv. 253291, ha ad esempio ritenuto integrante il delitto di maltrattamenti, oltre che quello di abuso di autorità contro arrestati e detenuti, la reiterata e sistematica condotta violenta, vessatoria, umiliante e denigrante tenuta da agenti di polizia penitenziaria nei confronti di un detenuto, che essi avevano spogliato completamente, rinchiuso in una cella senza vetri alle finestre, priva di materasso per il letto, di lavandino e di sedie, nella quale il poveretto veniva lasciato completamente nudo, nutrito solo a pane ed acqua, venendo attinto da “picchiaggi” ripetuti anche più volte al giorno. La sentenza di primo grado (Trib. Asti 30 gennaio 2012) aveva riqualificato il reato di maltrattamenti in quello di abuso di autorità a causa della mancanza dell'elemento soggettivo del reato. Interessante appare il seguente passaggio della sentenza: “I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come “tortura”, se l'Italia non avesse omesso di dare attuazione alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984”.

[6] Sulla quale v. G. Fornasari. Dilemma etico del male minore e ticking bomb scenario - Riflessioni penalistiche (e non) sulle strategie di legittimazione della tortura, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020.

[7] Trib. Padova 15 luglio 1983, in Foro it. 84, II, p. 230, annotata da Pulitanò.

[8] L’episodio, sul quale la deputata Radicale-Pd Rita Bernardini, allora membro della Commissione Giustizia, ha presentato un'interrogazione al ministro Alfano, è stato reso pubblico dopo che il nastro della registrazione era stato recapitato al giornale “La città di Teramo” all'interno di un plico accompagnato da una lettera anonima.

[9] R. Cornelli, La forza di polizia - Uno studio criminologico sulla violenza, Giappichelli Editore, 2020, p. 28.

[10] G. Tamburino, Dietro tutte le trame - Gianfranco Alliata e le origini della strategia della tensione, Donzelli Editore, 2022.

[11] Cass. pen., V, n. 08973-22 del 9.11.2021, dep. 16.3.2022.

[12] Lo ricorda A. Cavaliere, Le violenze di polizia, l'ideologia securitaria e la forza dello stato costituzionale di diritto, in www.rivistacriticadel diritto.it, 5 luglio 2021.

[13] A. Ceretti, L. Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina, Milano, 2009.

[14] Si tratta della “Commissione per l'innovazione del sistema penitenziario” istituita con decreto del Ministro della giustizia del 13 settembre 2021, i cui lavori sono leggibili in www.sistemapenale.it, 11 gennaio 2022.