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11 Luglio 2024


Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura


Memoria scritta presentata il 10 luglio 2024 alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica, in occasione dell'audizione nell’ambito dell’esame del disegno di legge n. 1183 «Conversione in legge del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, recante misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia». 

 

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1. Il decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, reca «Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia». In questo mio breve intervento mi soffermerò esclusivamente su alcune disposizioni in materia penitenziaria, contenute nel Capo II del decreto-legge, che – secondo le dichiarazioni del Ministro della Giustizia – sono finalizzate ad “umanizzare” l’esecuzione della pena detentiva.

Gli interventi di cui intendo occuparmi riguardano: la liberazione anticipata, la corrispondenza telefonica, le modifiche all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, la disciplina riguardante l’ingresso nelle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale delle persone detenute.

La mia prospettiva di analisi interessa i possibili spazi di intervento migliorativi che si potrebbero aprire in sede di conversione del decreto-legge, nel rispetto delle finalità dello stesso e dei richiesti requisiti di omogeneità che si impongono con riguardo ad una legge senz’altro “specializzata”, finalizzata allo scopo precipuo della conversione di un atto governativo in sé dotato di provvisoria efficacia. In particolare, la mia riflessione si concentrerà sulla liberazione anticipata, istituto che, pur collocato in apertura del Capo II del decreto, tratterò alla fine del mio intervento.

 

2. Prima di affrontare le indicate questioni, mi limito a ricordare sinteticamente le previsioni contenute nel Capo I, in materia di personale: assunzione di mille unità del Corpo di Polizia penitenziaria (art. 1), con prevista possibilità di ridurre il loro periodo minimo di formazione (da sei a quattro mesi) al fine di consentire una più rapida presa di servizio negli istituti (art. 4); aumento di venti unità della dotazione organica del personale dirigenziale penitenziario (art. 2); scorrimenti di graduatorie per l’ingresso nel ruolo dei funzionari e degli ispettori del Corpo di Polizia penitenziaria, nei limiti delle rispettive dotazioni organiche e delle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente (art. 3). Gli incrementi assunzionali, sempre positivi, mi sembrano comunque troppo sbilanciati sull’area della sicurezza e dell’ordine, a detrimento sia delle esigenze che coinvolgono l’area educativa o del trattamento (centrale in una prospettiva di “umanizzazione” e di migliore realizzazione della finalità rieducativa della pena carceraria) sia del settore che comprende la contabilità, la rendicontazione e gli affari generali, che è probabilmente quello che risente maggiormente della carenza di personale. In sede di conversione si potrebbe forse rimodulare, a parità di spesa, l’impegno rivolto all’incremento del personale, considerando anche le esigenze proprie di altre professionalità penitenziarie. Sarebbe preferibile, ovviamente, reperire a tale fine ulteriori risorse da impiegare eventualmente con altro provvedimento, lasciando così inalterati gli stanziamenti per gli opportuni incrementi assunzionali che interessano soprattutto il Corpo di Polizia penitenziaria.

 

3. Con riguardo ai temi oggetto di specifico approfondimento, ritengo senz’altro apprezzabile il disposto incremento, da quattro a sei al mese, del numero dei colloqui telefonici per le persone detenute. Si tratta, però, di una previsione non immediatamente operativa, poiché l’art. 6, comma 1 del decreto-legge rinvia all’adozione di un regolamento governativo che, secondo quanto previsto alla lett. a), equipari la disciplina del “numero” dei colloqui telefonici settimanali e mensili a quella dei colloqui in presenza, rispettivamente contenuta negli articoli 39 e 37 del Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Essendo il decreto-legge fonte primaria, lo stesso avrebbe direttamente potuto disporre la predetta equiparazione, anche se, opportunamente, nelle more dell’adozione del regolamento, il comma 2 prevede che i colloqui telefonici possano essere autorizzati dal direttore dell’istituto penitenziario oltre i limiti attualmente previsti.

Ad ogni modo, considerata la centralità della previsione nella prospettiva dell’umanizzazione e persino della possibile prevenzione del rischio suicidario, credo che sia opportuno un intervento più significativo che non riguardi solo il numero dei colloqui, ma anche, ad esempio, la relativa durata, oggi contenuta in dieci minuti. A dire il vero, queste e altre modifiche – riguardanti, ad esempio, anche i colloqui audio-video – potrebbero essere direttamente compiute attraverso un’opera di revisione del regolamento penitenziario, sulla quale peraltro aveva già lavorato la «Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario» da me presieduta presso il Ministero della Giustizia nell’autunno 2021, producendo un ampio documento corredato dall’indicazione degli interventi possibili sui singoli articoli, che comprendeva anche l’art. 39. Si suggeriva, nel documento finale, di prevedere «almeno» una telefonata a settimana, con indicazione temporale minima per l’accesso al servizio di «almeno» quindici minuti, proponendosi anche di riconoscere alla persona detenuta la possibilità di “sostituire” i colloqui visivi con conversazioni telefoniche o videochiamate. Non solo: si suggeriva una specifica azione amministrativa che consentisse l’utilizzazione di apparecchiature mobili configurate in maniera idonea e funzionale con le dovute precazioni operative, ossia senza scheda, connessione internet e con la possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati. Con costi contenuti, sostenibili ove possibile dalla stessa persona detenuta utilizzando il c.d. sopravvitto, si potrebbe così realizzare una “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti appartenenti al circuito di media sicurezza, qualora non vi siano particolari esigenze cautelari ovvero ragioni ostative di carattere processuale o legate alla pericolosità sociale del soggetto. Se questa fosse l’intenzione – in forme analoghe, se non identiche, a quelle appena rappresentate – l’art. 6 potrebbe essere modificato e semplificato in sede di conversione, facendo riferimento all’adozione di previsioni regolamentari che equiparino tendenzialmente i colloqui telefonici a quelli in presenza, senza limitarsi al solo “incremento del numero” e intanto consentendo esplicitamente al direttore di autorizzare le telefonate oltre i limiti di cui all’art. 39 del Regolamento penitenziario. Quest’ultima previsione, già contenuta nel comma 2 dell’art. 6, conserverebbe fondamentale importanza in termini giuridici, mentre la prima – il più generico richiamo all’adozione di previsioni regolamentari che amplino la possibilità dei colloqui telefonici – avrebbe un significato politico, comunque non indifferente, in termini di impegno del Governo per modifiche che consentano di mettere al passo con i tempi la vigente disciplina, per molti aspetti condizionata dai pregressi costi del servizio, assai elevati ai tempi della redazione del Regolamento e oggi non più tali.

 

4. Con riguardo alle modifiche all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, esse riguardano: la sostituzione di un segno di interpunzione nella lettera f) del comma 2-quater, con inserimento di un punto e virgola («;») in luogo di un punto («.»), in considerazione dell’aggiunta di una lettera f-bis) con la quale si escludono le persone sottoposte al regime differenziato dall’accesso ai programmi di giustizia riparativa (art. 7).

Non avrei segnalato la questione della sostituzione del segno di interpunzione se non per un motivo che trovo rilevante e che dovrebbe indurre a una seria riflessione in sede di conversione. L’interpunzione è inserita espressamente dopo le richiamate parole «cuocere cibi» che si riferiscono a un divieto rimosso dalla Corte costituzionale con la sent. n. 186 del 2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità della previsione contenuta nell’art. 41-bis «limitatamente alle parole “e cuocere cibi”». Così facendo, l’atto normativo oggi in esame, con il fine di inserire un diverso segno di interpunzione, richiama esplicitamente una parte di disposizione oggetto di sentenza di accoglimento parziale della Corte costituzionale. La mancata “correzione” in sede di conversione di questo palese errore potrebbe ingenerare non poca confusione, qualora si ritenesse che il richiamo a quelle parole ne possa implicare una sorta di rinnovata “efficacia” (la cui “cessazione” è espressamente prevista dall’art. 136 Cost. per il caso di dichiarazione di incostituzionalità). Soluzione, quest’ultima, che dovrebbe essere radicalmente esclusa, altrimenti esponendosi a certa dichiarazione di incostituzionalità per violazione del giudicato costituzionale (art. 137 Cost.). Non credo proprio che l’intenzione del Governo sia di ripristinare, peraltro attraverso la mera sostituzione di un segno di interpunzione, un divieto rimosso dalla Corte in quanto incostituzionale, ma mi permetto di suggerire di risolvere il dubbio, riformulando la richiamata modifica tenendo conto anche di altra pronuncia di accoglimento che ha interessato la parte immediatamente precedente della stessa disposizione, nel senso di limitare l’ulteriore divieto di scambiare oggetti esclusivamente tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità (sent. n 97 del 2020). In sostanza, il legislatore in sede di conversione dovrebbe stabilire che l’ultimo periodo della lettera f), riformulato per effetto delle pronunce della Corte costituzionale come riferito alla «assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità», si concluda con il segno di interpunzione «;» anziché con il «.».

Ma il problema riguarda anche ciò che segue la sostituzione del nuovo segno di interpunzione, ossia l’esplicita esclusione dall’accesso ai programmi di giustizia riparativa per i detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Occorre ricordare che la legge 27 settembre 2021, n. 134, recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizioni dei procedimenti giudiziari» è stata attuata dal decreto legislativo delegato 10 ottobre 2022, n. 150, che ha poi formato oggetto di integrazioni e correzioni, ad opera di successivi decreti, consentite dalla stessa legge di delega. Nessuno degli interventi normativi di attuazione ha sinora operato tale esplicita esclusione (la cui “tenuta”, trattandosi di preclusione assoluta, andrebbe peraltro attentamente vagliata sul piano costituzionale) e la delega per integrare e correggere non è ancora scaduta. Non si vuole sostenere che un decreto-legge non possa intervenire su ambiti oggetto di un processo di delega ancora non concluso (possibilità ammessa dalla Corte costituzionale nella sent. n. 364 del 1993), ma in presenza di una tale circostanza, che consente al Governo di apportare gli adattamenti ritenuti opportuni mediante l’adozione di un decreto legislativo delegato integrativo/correttivo, le ragioni straordinarie di necessità e di urgenza andrebbero dimostrate in modo ancor più stringente. Ed il punto è proprio questo: la prescritta limitazione appare esito di una valutazione di opportunità politica, che lo stesso Governo può ancora compiere nelle forme sopra enunciate, piuttosto che espressione di un’esigenza straordinaria che motivi la necessità e l’urgenza del provvedere nella direzione indicata. Ove questa perplessità dovesse essere condivisa, l’intero art. 7 potrebbe essere soppresso in sede di conversione.

 

5. Con riguardo all’ingresso presso le strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale delle persone detenute apprezzabile appare la soluzione dell’istituzione di un apposito elenco tenuto presso il Ministero della Giustizia (art. 8, comma 1). Anche in questo caso occorrerà attendere l’adozione di un successivo atto normativo (decreto ministeriale) al quale fa rinvio il comma 2 dell’art. 8 del decreto-legge.

La disposizione fa espresso riferimento all’accoglienza di persone che hanno i requisiti per l’accesso alle misure penali di comunità, ma «non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento», opportunamente richiamando l’obiettivo di fornire non soltanto servizi di assistenza, ma anche di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo. Credo sia fondamentale in sede di conversione non estendere l’indicato perimetro, al fine di scongiurare il rischio che le predette strutture si trasformino in veri e propri luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere. Un conto è l’intervento sussidiario del privato sociale, pienamente conforme, tra l’altro, alla specifica previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., altro conto sarebbe ipotizzare un intervento sostituivo, a maglie larghe, che potrebbe determinare una sorta di privatizzazione dell’esecuzione penale, senz’altro contraria all’esigenza costituzionale di assicurare la natura pubblica della gestione dell’amministrazione della giustizia, che deve comprendere anche la fase applicativa della pena. La perimetrazione prevista scongiura questo rischio, ma lascia aperto l’interrogativo circa la reale incidenza della previsione in termini deflattivi. Sarebbe utile, allora, compiere un’attenta analisi di impatto della misura legislativa che consenta di avere una stima ragionevole del suo possibile effetto in termini numerici anche per valutare un possibile allargamento delle maglie della liberazione anticipata, secondo quanto sarà tra poco precisato.

 

6. Gli «interventi in materia di liberazione anticipata» attualmente previsti dal decreto-legge (art. 5) consistono, principalmente, nella specificazione, contenuta già nell’ordine di esecuzione, delle detrazioni di pena (oggi di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata) alle quali il condannato avrebbe diritto in caso di positiva partecipazione all’opera di rieducazione e nella semplificazione della procedura di concessione. L’emissione del nuovo ordine di esecuzione non sarà più richiesta ogni volta che la riduzione per la liberazione anticipata sia riconosciuta, ma soltanto in caso di mancata concessione o di revoca del beneficio. La verifica circa l’effettiva sussistenza del diritto alla detrazione è richiesta nei momenti rilevanti per la vita del detenuto, ossia nel termine di novanta giorni antecedente al maturare del “fine pena” con riguardo a tutti i semestri maturati, salvo che essi non siano stati già oggetto della valutazione in sede di esame dell’istanza di accesso alle misure alternative alla detenzione o ad altri benefici analoghi. Tali semplificazioni e razionalizzazioni – che, stando al testo del d.l., sembrano applicarsi solo ai nuovi titoli esecutivi – costituiscono indubbiamente un segnale positivo – ancorché, con il nuovo sistema, non si possa escludere il prodursi del c.d. effetto di cumulo, con rischi di ritardi nelle decisioni, quando siano diversi i semestri da valutare –, ma non sembrano comunque avere la capacità di incidere sulla drammatica situazione di sovraffollamento che costituisce una delle ragioni, forse la principale, che osta al dichiarato obiettivo di assicurare l’umanizzazione della pena detentiva, oltre che di offrire effettive possibilità di rieducazione (al 30 giugno 2024 risultano presenti in carcere 61.480 detenuti a fronte di 51.234 posti regolamentari: dati DAP).

La conversione in legge potrebbe essere utilmente impiegata per ampliare la prevista detrazione di pena, ancorandola, naturalmente, alla comprovata partecipazione all’opera di rieducazione, requisito già richiesto per la concessione della liberazione anticipata. Si tratta di misura positivamente introdotta con il decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10. So bene che è all’esame del Parlamento una proposta di legge riguardante la c.d. liberazione anticipata speciale (C. 552), che prevede l’elevazione della detrazione di pena per liberazione anticipata da 45 a 60 giorni (nel d.l. n. 146 del 2013 l’elevazione era a 75 giorni, per un periodo di due anni dall’entrata in vigore, per i condannati che, a decorrere dal 1° gennaio 2010, avessero già fruito della liberazione anticipata). Nulla osta, però, all’inserimento di questa proposta, con gli opportuni adattamenti, nel corpo della legge di conversione dell’attuale decreto-legge, considerate anche le difficoltà parlamentari nello svolgimento di un tempestivo esame della stessa. È infatti noto, e non da oggi, che l’agenda parlamentare è significativamente impegnata dall’esame proprio di molteplici decreti-legge ai fini della loro conversione.

È da precisare che la magistratura di sorveglianza conserverebbe comunque il potere di vaglio delle richieste – pure, in prospettiva, con l’innovazione costituita dalla espressa indicazione delle detrazioni di pena nell’ordine di esecuzione –, evitando automatisimi che renderebbero altrimenti “lineare” la misura della liberazione anticipata, rischiando di disancorarla dall’effettiva partecipazione all’opera di rieducazione. Ma l’auspicato intervento, se concepito nei termini più ampi prima rappresentati, avrebbe soprattutto una significativa portata deflattiva, probabilmente idonea ad evitare il rischio di una prossima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, analoga a quella della sentenza Torreggiani del 2013 (significative indicazioni possono già trarsi dalle preoccupazioni manifestate il 13 giugno 2024 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, in sede di supervisione dei casi Sy e Citraro e Molino, con riguardo alle inidonee strategie italiane per la prevenzione del rischio suicidario nelle carceri, indubbiamente legate anche all’alto tasso di sovraffollamento), nonché la possibilità di un intervento della Corte costituzionale che, dando seguito al monito contenuto nella sent. n. 279 del 2013, ben potrebbe, ove investita della relativa questione, estendere le ipotesi di rinvio facoltativo della pena, comprendendovi il caso di una pena destinata ad essere eseguita in modo disumano proprio in ragione del sovraffollamento, o di applicazione, per le medesime ragioni, della detenzione domiciliare.

In questa sede, non posso che auspicare che siano i nostri rappresentanti, e non le Corti, a farsi carico di tali problemi, approfittando della “corsia” aperta dal decreto-legge per inserire ulteriori previsioni che, in perfetta coerenza con gli obiettivi dell’atto governativo, ne estendano le maglie all’esito di un processo di mediazione politica che coinvolga anche, auspicabilmente, le opposizioni. Sarebbe stato probabilmente troppo, da un punto di vista politico, pretendere che tale estensione fosse già compresa nel decreto governativo, sostanzialmente facendo propria una proposta dell’opposizione. Ma credo che non sia troppo auspicare che nella discussione parlamentare possano rientrare proposte emendative, magari provenienti dalle opposizioni, che siano poi esito di un processo di sintesi rivolto ad attuare i principi costituzionali o meglio a salvaguardare l’esigenza del loro doveroso rispetto. Alla politica spetta il gravoso compito di decidere, alle istituzioni rappresentative compete la ricerca, sin dove possibile, di una ragionevole mediazione tra le diverse istanze in campo.

 

7. A voi parlamentari mi permetto, allora, di rivolgere questi auspici, affinché il processo di conversione renda meglio praticabile l’obiettivo che lo stesso decreto-legge si propone di perseguire per la materia penitenziaria, riassunto in conferenza stampa dal Ministro Nordio nella formula «umanizzare il carcere». Si potrebbero così anche superare i tanti rilievi critici, almeno in parte ingenerosi, riguardanti la pretesa inutilità delle previsioni contenute nel decreto-legge in esame rispetto al fine di rendere effettivi i principi non solo di umanizzazione, ma anche di rieducazione, che peraltro la nostra Costituzione riferisce non esclusivamente al carcere ma a qualsiasi misura sanzionatoria, declinando non a caso al plurale il termine “pena”.

La pena, quale che ne sia la forma, deve puntare a ricostruire il legame sociale, partendo dal presupposto che la commissione del reato ne ha determinato la lacerazione. È per questa semplice ragione, avente un ben preciso fondamento costituzionale, che l’opzione repressiva, per quanto sempre presente nelle scelte di politica criminale, non può mai relegare nell’ombra il profilo rieducativo (così Corte cost., sent. n. 257 del 2006), imponendo particolare e costante attenzione nei confronti del singolo condannato, come di nuovo richiede l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, questa volta declinando il termine al singolare. La finalità rieducativa – e il principio di umanizzazione che in un certo senso ne costituisce il presupposto – caratterizza ontologicamente la pena, dalla sua astratta previsione sino alla sua concreta esecuzione (Corte cost., sent. n. 313 del 1990), facendo scaturire precisi doveri non soltanto in capo alle autorità penitenziarie e ai giudici (dell’esecuzione, di sorveglianza e persino di cognizione), ma anche sullo stesso legislatore, il quale dovrebbe, tra l’altro, sempre valutare il possibile impatto delle sue scelte rispetto al perseguimento degli indicati obiettivi costituzionali. Questo è l’esito di una progressiva acquisizione di consapevolezza, che ha portato di recente la nostra Corte costituzionale ad affermare «che la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento». Con l’importante precisazione per cui tale prospettiva non soltanto «chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità», ma impone una «correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società» (sent. n. 149 del 2018).

È in questo spirito di comune “responsabilità” che ho inteso offrire il mio piccolo contributo, evitando di rifugiarmi nella sterile critica distruttiva del “ciò che non si è fatto” e provando a intraprendere il propositivo cammino del “ciò che si può ancora fare”. Sapendo “ciò che è”, senza mai rassegnarsi al “che così sia”, come ha insegnato Leopoldo Elia, costituzionalista insigne e parlamentare impegnato, propugnatore, nelle sue varie vesti, di una visione che vuole sempre le istituzioni democratiche al servizio dello sviluppo delle persone.