Trib. sorv. Bologna, ord. 16 giugno 2022 (dep. 12 luglio 2022)
1. Con la recente ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha fornito un’ulteriore conferma della portata “storica” della sentenza della Corte costituzionale n. 32/2020, i cui rilevanti risvolti applicativi non sembrano limitarsi alla specifica questione di legittimità costituzionale ivi decisa.
In quell’occasione, come noto, la Consulta ha per la prima volta deviato – seppur solo in parte – dal consolidato orientamento che attribuiva carattere processuale alla disciplina dell’ordinamento penitenziario, sancendo la natura “sostanzialmente” penale di tutte le norme in grado di determinare «una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato»[1]; questa premessa l’ha condotta a rintracciare una violazione del principio di irretroattività in malam partem nell’applicazione retroattiva – imposta non dalla legge, ma dal “diritto vivente” – della disciplina dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen. agli autori dei delitti contro la p.a. inclusi nel catalogo dei reati ostativi dalla legge “Spazzacorrotti” n. 3/2019. Più precisamente, il vulnus alle garanzie di cui all’art. 25 c. 2 Cost è stato riscontrato con riferimento alla preclusione delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale e della sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656 c.p.p., mentre l’estensione retroattiva del regime ostativo è stata ritenuta legittima rispetto alla preclusione dei “meri benefici penitenziari”, permessi premio e lavoro all’esterno, salvo che nei confronti dei condannati già in possesso dei requisiti per la loro concessione[2].
Facendo seguito a tale intervento, ma al contempo travalicandone i confini, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha esteso il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole all’intera disciplina dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen., introdotta nella versione tuttora in larga parte vigente dal d.l. 306/1992, conv. in l. 12.07.1991 n. 203; disciplina che, di conseguenza, nella parte in cui àncora la concessione delle misure alternative alla detenzione alla previa collaborazione con la giustizia non dovrebbe potersi applicare ai soggetti condannati per reati ostativi commessi prima del 1992.
Il provvedimento riveste particolare interesse e notevole rilevanza pratica, in quanto esplicitamente promuove l’uscita dal regime ostativo di tutti i condannati per reati “di prima fascia” commessi prima del 1992 che tuttora si trovino in carcere; esso, inoltre, offre l’occasione per riflettere sull’effettiva portata della sentenza n. 32/2020, i cui innovativi principi sono fin da subito parsi suscettibili di applicazione generalizzata, pur non essendo ancora del tutto chiaro in quali casi ed entro che limiti. Vale pertanto la pena di entrare un po’ più nel merito della vicenda e contestualizzare maggiormente la decisione in esame, in un quadro in cui il regime detentivo ex art. 4-bis, come la magistratura di sorveglianza sembra aver pienamente compreso, appare destinato a mutare in maniera percettibile il proprio volto[3].
2. Il caso di specie concerneva un individuo, condannato all’ergastolo per una pluralità di reati in cumulo tra loro e detenuto dal 1992, sottoposto al regime ostativo di cui al primo comma dell’art. 4-bis per delitti – un duplice omicidio con contestazione dell’aggravante mafiosa – commessi nell’agosto del 1991.
Nel tentativo di ottenere l’ammissione alla semilibertà pur non avendo mai collaborato con la giustizia, costui adiva il Tribunale di sorveglianza di Bologna chiedendo l’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione, ai sensi del comma 1-bis dello stesso art. 4-bis; in subordine, l’istante domandava al giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 58-ter ord. pen., sostenendo che la loro applicazione retroattiva a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore del d.l. 306/1992 contrastasse con i principi sanciti dal giudice delle leggi con la sentenza n. 32/2020.
3. Quest’ultimo profilo viene ritenuto meritevole di attenzione da parte dei giudici della sorveglianza, che reputano preliminare verificare se le considerazioni svolte dalla Consulta nella pronuncia richiamata debbano estendersi anche alle modifiche apportate all’art. 4-bis ord. pen. dal citato d.l. 306/1992, il quale, subordinando la concessione dei benefici penitenziari alla previa collaborazione con la giustizia, ha plasmato il volto del regime ostativo tutt’oggi esistente[4]. Detto meccanismo preclusivo, invero, è stato finora considerato applicabile anche agli autori di reati “ostativi” commessi prima della sua entrata in vigore, sul presupposto che, rivestendo le previsioni della l. n. 354 del 1975 natura processuale e non sostanziale, la materia dell’esecuzione fosse regolata dal principio tempus regit actum[5]; la sentenza n. 32/2020, tuttavia, ha permesso di esaminare sotto una nuova luce il problema della natura delle norme dell’ordinamento penitenziario, obbligando l’interprete a non limitarsi a valutazioni di carattere generale, ma a procedere a un’analisi caso per caso, soffermandosi sugli effetti prodotti in concreto dalla singola disciplina normativa sulla libertà personale del condannato.
La Corte costituzionale, ricordano i giudici, non ha integralmente disconosciuto il valore del principio tempus regit actum nell’ambito del trattamento penitenziario: al contrario, la regola che attribuisce prevalenza alla legge in vigore al momento dell’esecuzione appare dotata di un solido fondamento, rinvenibile tanto nell’esigenza di consentire “fisiologici assestamenti” della disciplina della pena a fronte di mutamenti del contesto di riferimento[6], quanto in quella di garantire uniformità di trattamento tra i detenuti, impedendo la coesistenza all’interno del medesimo istituto penitenziario di «una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato»[7]. La conclusione, nondimeno, è che tale regola debba «soffrire un’eccezione, allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato», ossia laddove il novum normativo determini «l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto»; situazione che si verifica, in maniera paradigmatica, quando una pena suscettibile di esecuzione “fuori” dal carcere – anche solo in via potenziale, attraverso gli strumenti della liberazione condizionale o delle misure alternative alla detenzione – divenga una pena eseguibile di norma “dentro” il carcere[8]. In simili ipotesi, pertanto, la modifica normativa, pur se destinata a incidere sulla pena solo in fase esecutiva, acquisirebbe carattere sostanziale e dovrebbe perciò garantire il rispetto delle garanzie della legalità penale, in particolare, dell’irretroattività in malam partem.
Come l’ordinanza in commento non esita a sottolineare, l’innovativa interpretazione della Consulta, concretizzatasi nella declaratoria di incostituzionalità dell’art. 1 della l. 3/2019, ha finito per modificare il “diritto vivente”, capovolgendo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che affermava la portata retroattiva delle modifiche normative volte a estendere il catalogo dei reati contemplati dall’art. 4-bis c. 1 ord. pen.; la stessa Corte costituzionale, del resto, nella di poco successiva sentenza n. 193 del 21 luglio 2020 ha riconosciuto che nessun ostacolo oggi si pone a che in simili casi sia il giudice ad assicurare il rispetto delle garanzie dell’art. 25 c. 2 Cost., avvalendosi dello strumento dell’interpretazione costituzionalmente conforme[9] al fine di escludere l’applicazione retroattiva della norma peggiorativa. In questo senso si è peraltro già mossa la Suprema Corte, la quale, ribadendo la necessità di una lettura generalizzata dei principi enucleati dalla Consulta, ha negato l’applicazione retroattiva della disciplina dell’art. 4-bis c. 1-quater ord. pen. ai reati di violenza sessuale commessi prima dell'inserimento del delitto previsto dall'art. 609-bis cod. pen. nel catalogo dei reati ostativi detti “di terza fascia” da parte del d.l. 11/2009 (conv. in l. 38/2009)[10].
4. In considerazione di tale quadro, il Tribunale di sorveglianza di Bologna passa a chiedersi se possa ancora ritenersi conforme a Costituzione un’interpretazione che consenta l’applicazione dell’art. 4-bis c. 1 ord. pen. anche a chi sia stato condannato per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della disciplina coniata dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306.
La risposta che i giudici forniscono al quesito è negativa: tale disciplina – responsabile, tra l’altro, della «trasformazione dell’ergastolo “normale” nel c.d. ergastolo “ostativo”» – a parer loro ha indubbiamente prodotto effetti sostanziali sulla natura della pena che il condannato deve espiare in concreto, ripercuotendosi sulla possibilità per quest’ultimo di accedere alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, da quel momento radicalmente precluse ai detenuti per reati ostativi non collaboranti. Anche tale previsione normativa, di conseguenza, deve ritenersi sottoposta alle garanzie dell’art. 25 c. 2 Cost., le quali impongono il divieto di applicazione retroattiva non solo delle modifiche in peius che estendono il novero dei reati “ostativi”, ma anche (e, si potrebbe sostenere, a fortiori) dell’intervento a mezzo del quale tale regime preclusivo ha visto la luce.
I giudici di sorveglianza giungono così a escludere, attraverso il percorso argomentativo esaminato, che la disciplina dell’art. 4-bis c. 1 possa estendersi retroattivamente ai soggetti condannati per reati inclusi ab origine nella c.d. “prima fascia”, ma commessi prima del 1992, senza necessità di una nuova questione di legittimità costituzionale. Tale principio viene applicato anzitutto al caso di specie, concernente un soggetto condannato per reati ostativi commessi nel 1991: a giudizio del Tribunale, infatti, il rispetto del principio di irretroattività in malam partem impone di valutare l’istanza di ammissione alla semilibertà del ricorrente senza fare applicazione delle preclusioni di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen., verificando esclusivamente la sussistenza dei presupposti di legge per la concessione della misura.
Tale conclusione fa venire meno l’interesse del ricorrente all’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione con la giustizia, sicché il procedimento si conclude con un non luogo a provvedere.
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5. Il provvedimento in esame si dimostra, a nostro giudizio, coerente con la «complessiva rimeditazione» della portata del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole compiuta dalla Corte costituzionale con la più volte richiamata sentenza n. 32 del 2020[11].
Alcuni commentatori di quest’ultimo arresto, a dire il vero, hanno in passato messo in dubbio la possibilità di estendere la soluzione interpretativa ivi proposta al di fuori della vicenda strettamente legata al regime intertemporale della c.d. Spazzacorrotti; in particolare, si è osservato che, mentre prima della novella del 2019 l’esecuzione extramuraria della pena costituiva – di fatto – la regola per i condannati per delitti contro la p.a., per gli autori di altri reati ostativi (primi tra tutti i reati di criminalità organizzata) l’effettiva concessione di misure alternative alla detenzione, anche in assenza di preclusioni normative, sarebbe stata significativamente meno probabile, sicché nella maggior parte dei casi l’applicazione dell’art. 4-bis non avrebbe svolto alcun reale “effetto trasformativo” della sostanza della pena [12]. La portata generale dei principi di diritto invocati, tuttavia, è stata espressamente riconosciuta dalla Consulta con la successiva sentenza n. 193 del 2020, che ha reso evidente come debba considerarsi definitivamente superato – per quanto riguarda l’accesso alle misure alternative – il diritto vivente che attribuiva carattere processuale alla disciplina preclusiva di cui all’art. 4-bis ord. pen., a prescindere da qualsiasi considerazione di fatto inerente alle peculiarità dei singoli delitti richiamati dalla norma[13].
Tale presa di posizione costituisce indubbiamente una rilevante novità per la giurisprudenza della Corte costituzionale, che in passato non ha mai fornito una risposta in termini generali al problema del rapporto tra il regime ostativo e l’art. 25 c. 2 Cost., limitandosi in più occasioni a ribadire il divieto di regressione trattamentale in danno di quei soggetti che, a seguito di una modifica in malam partem della disciplina esecutiva, si vedessero negare l’accesso a benefici di cui avessero già maturato i requisiti[14]. Altre volte, invece, la Consulta ha espressamente escluso violazioni del principio di irretroattività della legge penale, ma sempre senza spingersi a prese di posizione di carattere generale[15].
6. Nell’aprire a un’estensione delle garanzie del diritto penale sostanziale alla fase esecutiva, la sentenza n. 32 del 2020 postula una distinzione tra norme in grado di determinare – anche solo in via potenziale – una «trasformazione della natura della pena», dotate di effetti sostanziali, e norme che si limitano a disciplinare l’esecuzione della pena, che continuano a essere sottoposte al principio tempus regit actum; tale bipartizione si riflette, all’interno della disciplina di cui all’art. 4-bis ord. pen., sul diverso trattamento riservato dalla Consulta alla preclusione all’accesso alle misure alternative (come alla liberazione condizionale), non suscettibile di applicazione retroattiva, e all’esclusione dei non collaboranti dai “meri benefici penitenziari”, per cui opera il solo divieto di regressione trattamentale.
Tale soluzione ermeneutica è stata criticata da parte della dottrina, che ha sottolineato come un simile esito interpretativo si ponga in controtendenza rispetto al principio di progressione trattamentale, incentrato su una gradualità nell’accesso agli strumenti che avvicinano il detenuto alla società fuori dal carcere. L’effetto della decisione della Consulta, per il vero, è per certi versi paradossale, in quanto allo stato la disciplina di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen. potrebbe precludere ratione temporis a un detenuto non collaborante di usufruire dei permessi premio (tenuto però conto della trasformazione della presunzione di pericolosità da assoluta a relativa a opera della sentenza n. 253 del 2019) e del lavoro all’esterno, ma non delle misure alternative alla detenzione, per la cui concessione, tuttavia, il previo positivo esperimento degli altri benefici è spesso un “passaggio obbligato”[16].
Al netto di queste osservazioni, l’unico criterio effettivamente desumibile dalla pronuncia di costituzionalità per definire quando si sia in presenza di una «trasformazione della natura della pena» è rappresentato, ci pare, dall’alternativa dentro/fuori dal carcere: se la modifica normativa è in astratto suscettibile di trasformare una pena connotata da una “fondamentale dimensione intramuraria” a una pena “fondamentalmente extramuraria” (o viceversa), essa rivestirà carattere sostanziale e sarà sottoposta alle garanzie proprie della materia penale. Una norma che si limiti a modificare le modalità di esecuzione di una pena che resti sostanzialmente intramuraria resterà invece sottoposta ai principi che regolano la materia processuale, anche laddove incida in maniera significativa su diritti fondamentali del detenuto (si pensi all’accesso ai colloqui, alla corrispondenza, alla permanenza all’aperto, ai permessi premio, al lavoro all’esterno).
Tali considerazioni ci inducono non solo a condividere il percorso argomentativo del Tribunale di sorveglianza di Bologna, ma, più in generale, anche a sostenere la natura sostanzialmente penale della disciplina delle misure alternative alla detenzione, quantomeno con riferimento alle norme che ne stabiliscono i requisiti di accesso, la cui modifica dovrebbe ritenersi sottoposta al divieto di retroattività in peius[17]. In questo senso, la sentenza n. 32 del 2020 sembra completare l’opera intrapresa da alcuni suoi precedenti, che già in passato avevano qualificato tali strumenti come «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena»[18]; non è poi irrilevante notare, a tal proposito, come la c.d. riforma Cartabia – di recentissima approvazione – abbia di fatto determinato un “travaso” delle misure alternative alla detenzione applicate dallo stato di libertà alla nuova categoria delle “pene” (non più sanzioni) sostitutive della pena detentiva breve, con l’eccezione dell’affidamento in prova[19]: ricondurre alla “materia” penale tali figure solo allorché applicate a soggetti che ancora non abbiano fatto ingresso in carcere e non negli altri casi, in effetti, potrebbe celare il rischio di una “frode delle etichette”.
Si può poi ricordare come la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 17 del 2021, in attuazione di tali principi abbia espressamente riconosciuto il carattere sostanziale dell’istituto della liberazione anticipata, il quale «incide direttamente sulla durata della pena detentiva, e la riduce in misura rilevante, comportando un’anticipata scarcerazione del condannato ammesso ad avvalersene»[20].
7. Vi è un’ulteriore riflessione cui ci sollecita il provvedimento in esame.
La conclusione dei giudici di sorveglianza, si è detto, è nel senso dell’inapplicabilità del regime ostativo ex art. 4-bis c. 1 ord. pen. agli autori di reati “di prima fascia” commessi prima del 1992 che richiedano l’accesso a misure alternative alla detenzione; come sottolineato nella stessa ordinanza in commento, peraltro, tale esito interpretativo è stato oggetto di confronto e discussione in sede di riunione tabellare tra i Magistrati di Sorveglianza del distretto bolognese e, verosimilmente, costituisce espressione di un orientamento condiviso in seno alla magistratura di sorveglianza, che si sta dimostrando recettiva alle istanze espresse negli ultimi anni dalla Corte costituzionale in materia di ordinamento penitenziario.
Potrebbe tuttavia verificarsi l’eventualità che un soggetto, condannato per reati ostativi commessi anteriormente al 1992, sia altresì sottoposto al regime di c.d. “carcere duro” di cui all’art. 41-bis c. 2 ord. pen. Quali conseguenze comporta, in simili casi, riconoscere la non retroattività della disciplina di cui all’art. 4-bis?
A nostro parere, nessuna conseguenza significativa. Il dubbio potrebbe sovvenire in quanto la legge prescrive l’applicazione del regime differenziato «nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis»; tale richiamo, però, non ci sembra riferibile ai “casi in cui si applica” il suddetto art. 4-bis, bensì ai “delitti” ivi elencati, sicché non dovrebbe essere influenzato dalla disciplina intertemporale della norma in questione. Secondo le indicazioni della sentenza n. 32 del 2020, peraltro, l’art. 4-bis ord. pen. dovrebbe considerarsi tuttora applicabile agli autori di delitti commessi prima del 1992 con riferimento alle preclusioni all’accesso a permessi premio e lavoro all’esterno, il che avvalora la persistente operatività del rinvio.
Ci si potrebbe ancora chiedere, tuttavia, se l’irretroattività dell’art. 41-bis c. 2 ord. pen. non debba discendere, a sua volta, da una lettura estensiva dei principi sanciti dalla Consulta, ossia se non si debba attribuire a tale peculiare disciplina un effetto “trasformativo” della natura della pena. Anche tale questione, nondimeno, ci pare meritevole di risposta negativa: come già rilevato, infatti, la Corte costituzionale ha tendenzialmente escluso che una connotazione del genere possa essere rivestita da istituti volti a incidere su una pena che resta caratterizzata da una «fondamentale dimensione “intramuraria”»[21]. Sebbene argomenti a sostegno della natura “sostanzialmente penale” del regime detentivo speciale siano da tempo proposti in dottrina, in considerazione del particolare carico afflittivo che accompagna tale istituto e che finisce, sotto molti profili, per allontanarlo sensibilmente dalla pena detentiva scontata dai detenuti “ordinari”[22], non ci sembra che una simile conclusione possa essere avallata – almeno per il momento – sulla base dell’interpretazione evolutiva accolta dal giudice costituzionale.
[1] C. cost., sentenza del 12 febbraio 2020 (dep. 26 febbraio 2020), n. 32, con commento di V. Manes – F. Mazzacuva, Irretroattività e libertà personale: l'art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell'esecuzione penale, in questa Rivista, 23 marzo 2020. Cfr. anche B. Fragasso, Legge "spazzacorrotti" e ragionevolezza dell’estensione del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit. ai delitti contro la p.a. In attesa della Consulta (ud. 26 febbraio 2020), in questa Rivista, 24 febbraio 2020; G.L. Gatta, Art. 4 bis o.p. e legge ‘spazzacorrotti’: possibile, dopo la decisione della Consulta, e prima del relativo deposito, la sospensione degli ordini di carcerazione per i fatti pregressi?, in questa Rivista, 17 febbraio 2020, e Id., Ancora a proposito del divieto di applicazione retroattiva del riformulato art. 4 bis o.p. Scarcerazioni già disposte (anche da un giudice a quo) prima del deposito della sentenza della Corte costituzionale sulla legge 'Spazzacorrotti', in questa Rivista, 24 febbraio 2020; A. Gargani, L'estensione ‘selettiva' del principio di irretroattività alle modifiche in pejus in materia di esecuzione della pena: profili problematici di una decisione ‘storica', in Giur. cost., 1/2020, p. 263 ss.; F. Gianfilippi, Il divieto di interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in materia di concedibilità delle misure alternative: la svolta della Corte Costituzionale nella sent. 32/2020 e l'argine ad un uso simbolico dell'art. 4-bis, in Riv. ita. dir. proc. pen., 3/2020, p. 1458 ss.; A. Marsilio, Norma penale retroattiva: quando è legittima? La Consulta si pronuncia sui limiti alla retroattività della norma penale volta a modificare la natura della pena. Note a margine della sentenza del 26 febbraio 2020, n. 32 della Corte Costituzionale, in Oss. cost. AIC, 6/2020, 1° dicembre 2020; V. Mongillo, Manipolazione del linguaggio giuridico e vincoli della realtà: l’irretroattività in peius irrompe nei confini dell’esecuzione penale, in Riv. ita. dir. proc. pen., 3/2020, p. 1436 ss.; A. Ricci, Nel labirinto dell’art. 4-bis o.p.: guida pratica per il “condannato ostativo” all’accesso a permessi premio e misure alternative alla detenzione dopo le sentenze costituzionali n. 253/2019 e 32/2020 (e in attesa di ulteriori sviluppi), in Giur. pen. (web), 6/2020, 24 giugno 2020.
[2] Con una sentenza interpretativa di accoglimento, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 c. 6 lett. b l. 9 gennaio 2019, n. 3, «in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale», e altresì «nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso».
[3] È noto come la complessiva tenuta del regime ostativo, incentrato su una presunzione assoluta di pericolosità del detenuto non collaborante, sia stata messa in discussione dalla sentenza della Corte cost., 23 ottobre 2019 (dep. 4 dicembre 2019), n. 253, che ha innestato – anche a seguito di due ulteriori interventi della Consulta, con le ordinanze n. 97/2021 e n. 122/2022 – un processo di revisione normativa della disciplina dell’art. 4-bis ord. pen., purtroppo interrotto a seguito della caduta del Governo Draghi. Sul punto si può rimandare ai numerosi contributi di commento pubblicati su questa Rivista: S. Bernardi, Per la Consulta la presunzione di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia è legittima solo se relativa: cade la preclusione assoluta all’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis comma 1 ord. pen., 28 gennaio 2020; M. Ruotolo, Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, 12 dicembre 2019; C. Cataneo, La Relazione della Commissione Antimafia sull’istituto di cui all’articolo 4-bis ord. pen. e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, 18 giugno 2020; E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, 25 maggio 2021; M. Ruotolo, Riflessioni sul possibile “seguito” dell’ord. n. 97 del 2021 della Corte costituzionale, 28 febbraio 2022; Approvato dalla Camera il testo unificato del d.d.l. di riforma della disciplina in materia di reati ostativi ex art. 4-bis ord. penit., 12 aprile 2022; Riforma del regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit.: il Dossier del Servizio studi del Senato, 2 maggio 2022; Ergastolo ostativo: alla luce dell’avanzamento dell’iter parlamentare di riforma del regime ex 4-bis, la Corte costituzionale dispone un nuovo rinvio dell’udienza all’8 novembre 2022, 10 maggio 2022.
[4] Va invero rammentato che la versione originaria dell’art. 4-bis, introdotto nella legge sull’ordinamento penitenziario dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, prevedeva che i condannati per i gravi delitti ancora oggi annoverati nella “prima fascia” potessero accedere ai benefici penitenziari a fronte della prova dell’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata o eversiva; fu solo l’intervento modificativo del 1992, dunque, a introdurre il rigido meccanismo preclusivo fondato su una presunzione assoluta di permanenza di simili collegamenti criminali, vincibile solo attraverso la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ord. pen.
[5] Tale tesi, granitica presso la giurisprudenza di legittimità negli ultimi due decenni, è stata avvalorata dalle stesse Sezioni Unite della Cassazione, che con la sentenza del 30 maggio 2006 (dep. 17 luglio 2006), n. 24561, hanno affermato il principio per cui «le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio "tempus regit actum", e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 cod. pen., e dall'art. 25 della Costituzione».
[6] «Ove il regime di esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta o Novanta le restrizioni all’uso dei telefoni cellulari o di internet oggi previste dall’ordinamento penitenziario»: così la stessa C. cost. n. 32 del 2020, § 4.3.2.
[7] C. cost., sent. 32 del 2020, ibidem.
[8] C. cost., sent. 32 del 2020, § 4.3.3. Tale affermazione trova un ancoraggio nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale con la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada c. Spagna del 21 ottobre 2013, ric. n. 42750/09, ha chiarito (usando le parole della Consulta, § 4.2.3) che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della "pena” imposta dal giudice»; viene altresì richiamata la giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, secondo la quale il divieto generale di “ex post facto laws” si applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato (§ 4.2.4).
[9] Cfr. C. cost., sentenza del 21 luglio 2020 (dep. 31 luglio 2020), n. 193, con commento di E. Andolfatto, Ancora sulle modifiche in peius della disciplina penitenziaria: tre nuove decisioni della Corte costituzionale, in questa Rivista, 1° agosto 2020. In quest’occasione, la Corte costituzionale ha prescelto la via della sentenza c.d. interpretativa di rigetto, negando la fondatezza di una questione di legittimità concernente l’art. 3-bis c. 1 d.l. 7/2015, conv. con modif. in l. 43/2015, il quale aveva inserito il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel catalogo di cui all’art. 4-bis c. 1 ord. pen. senza prevedere una disciplina intertemporale.
[10] Così in particolare Cass. pen., Sez. I, sentenza del 20 marzo 2020 (dep. 23 aprile 2020), n. 12845; nello stesso senso anche Cass. pen., Sez. I, sentenza del 1° dicembre 2020 (dep. 22 dicembre 2020), n. 37053.
[11] Cfr. C. cost., sent. 32 del 2020, § 4.3.
[12] Così in particolare F. Fiorentin, Una sentenza “copernicana” di grande importanza anche sul piano delle ricadute operative, in Guida al diritto, n. 15/2020, il quale evidenzia come il percorso logico-motivazionale seguito dalla Corte si sia fondato su un giudizio prognostico relativo a «una particolare categoria di delitti (quelli contro la p.a.), per i quali, secondo un parametro di natura probabilistica, è ragionevole attendersi che il tribunale di sorveglianza conceda una misura alternativa alla detenzione».
[13] C. cost., sentenza del 21 luglio 2020 (dep. 31 luglio 2020), n. 193, già richiamata supra; nel medesimo senso si è peraltro indirizzata anche la Corte di cassazione, con le citate sentenze del 20 marzo 2020, n. 12845, e del 1° dicembre 2020, n. 37053. Sul punto si rimanda alle considerazioni di F. Gianfilippi, Il divieto di interpretazione retroattiva, cit., pp. 1469-1479.
[14] Tale divieto, ribadito anche dalla sentenza n. 32 del 2020 con riferimento all’accesso ai permessi premio e al lavoro all’esterno, era stato già sancito con riferimento all’art. 4-bis ord. pen. da C. cost., sentenza 11 giugno 1993 (dep. 7 agosto 1993), n. 306; C. cost., sentenza 11 dicembre 1995 (dep. 14 dicembre 1995), n. 504; C. cost., sentenza 16 dicembre 1997 (dep. 30 dicembre 1997), n. 445; C. cost., sentenza 14 aprile 1999 (dep. 22 aprile 1999), n. 137.
[15] Così, in particolare, C. cost., sentenza 5 luglio 2001 (dep. 20 luglio 2001), n. 273, la quale ha escluso che l’applicazione retroattiva della disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 4-bis ord. pen. e 2 d.l. 152 del 1991 (che preclude l’accesso alla liberazione condizionale agli autori di reati ostativi non collaboranti) violasse l’art. 25 c. 2 Cost., rilevando come questa non comportasse una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale, ma si risolvesse in un “criterio legale di valutazione” dei requisiti di accesso all’istituto in questione.
[16] In questi termini, in particolare, A. Gargani, L'estensione ‘selettiva' del principio di irretroattività, cit., p. 271 ss; V. Manes – F. Mazzacuva, Irretroattività e libertà personale, cit., p. 14 ss.; V. Mongillo, Manipolazione del linguaggio giuridico, cit., p. 1452 ss.
[17] A questa conclusione giungono anche S. Carnevale – F. Siracusano – M.G. Coppetta, Le misure alternative alla detenzione e la liberazione anticipata, in F. Della Casa – G. Giostra, Manuale di diritto penitenziario, Torino, 2021, p. 169.
[18] Così C. cost., sentenza del 24 giugno 1993 (dep. 28 luglio 1993), n. 349, § 5.1., richiamata anche dalla sentenza n. 32/2020.
[19] In proposito si può rimandare all’accurata analisi dello schema di d.lgs. svolta da E. Dolcini, Dalla riforma Cartabia nuova linfa per le pene sostitutive, in questa Rivista, 30 agosto 2022.
[20] Cfr. C. cost., sentenza del 14 gennaio 2021 (dep. 11 febbraio 2021), n. 17, che ha considerato inammissibile una questione di legittimità costituzionale volta ad ampliare i casi di revoca dell’istituto, in quanto finalizzata a un intervento in malam partem del giudice delle leggi in materia penale.
[21] Cfr. C. cost., sent. 32 del 2020, § 4.4.1.
[22] Si può rimandare, in particolare, alle attente considerazioni di A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Milano, 2016, p. 369 ss.