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06 Marzo 2023


Reddito di cittadinanza e "abrogatio per aberratio" delle norme penali: tra abolitio criminis e possibili rimedi


* Il presente contributo è destinato al fascicolo n. 3/2023 di Sistema penale.

 

1. Con la legge di Bilancio 2023 (art. 1, co. 318 l. 29 dicembre 2022, n. 197) è stata disposta, a decorrere dal 2024, l’abolizione del reddito di cittadinanza. In particolare, si è stabilito, con un secco tratto di penna, che “a decorrere dal 1° gennaio 2024 gli articoli da 1 a 13 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, sono abrogati”.

Oggetto di abrogazione è, in blocco, l’intero Capo I del citato decreto-legge, risalente al Governo Conte I, che aveva per l’appunto istituito e disciplinato il noto e discusso sussidio. Il legislatore (art. 1, co. 313-321 l. n. 197/2022) si è preoccupato di apportare modifiche in senso restrittivo alla disciplina del reddito di cittadinanza per l’anno 2023 (prevedendo, tra l’altro, che sia limitato a sette mensilità e che si decada dal beneficio qualora uno dei familiari non accetti la prima offerta di lavoro); nella fretta dettata dall’esigenza di approvare la legge di bilancio in tempo utile a evitare l’esercizio provvisorio, non si è però verosimilmente accorto che, abrogando l’intera disciplina del sussidio a decorrere dal 1° gennaio 2024, ha disposto anche l’abrogazione delle norme incriminatrici previste dall’articolo 7, cioè della disciplina sanzionatoria per l’indebita percezione del sussidio. Un “pasticcio”, secondo la sintesi della stampa che ha segnalato il problema, annunciando un prossimo intervento riparatore del Governo, che sarebbe allo studio.

 

2. Procediamo per gradi, per meglio inquadrare i termini delle questioni di diritto intertemporale che si prospettano. L’abrogato art. 7 del d.l. n. 4/2019 configura (ancora fino al 1° gennaio 2024) due diverse fattispecie delittuose.

Il primo comma punisce con la reclusione da due a sei anni, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio…, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute”.

Il secondo comma punisce, invece, con la reclusione da uno a tre anni, “l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio…”.

Di rilievo è poi la previsione, pure abrogata con effetto differito, del terzo comma dello stesso art. 7 d.l. n. 4/2019, che configura un effetto penale della condanna stabilendo “l'immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva e la restituzione di quanto indebitamente percepitoin caso di condanna definitiva del beneficiario per un elenco di gravi reati tra i quali l’associazione per delinquere di tipo mafioso, lo scambio elettorale politico-mafioso, i reati aggravati dal metodo mafioso, il traffico di stupefacenti, l’estorsione, la rapina, la truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, l’usura, la ricettazione e il riciclaggio.

 

3. Come si è detto, l’abrogazione dell’intera disciplina del reddito di cittadinanza, comprese le norme penali, è stata disposta “a decorrere dal 1° gennaio 2024”. Si tratta di un’abrogazione realizzata da una norma della legge di bilancio entrata in vigore il 1° gennaio 2023, con effetto differito al 1° gennaio 2024. In altri termini, la norma abrogatrice è già entrata in vigore, ma l’abrogazione, anche delle norme penali, si realizzerà alla fine dell’anno. Sotto il profilo del diritto intertemporale penale, si realizza – ed è questo il problema teorico sullo sfondo – il differimento della produzione degli effetti retroattivi di una lex mitior, che abroga due norme incriminatrici e una norma che configura effetti penali della condanna conseguenti a reati non interessati dall’intervento di modifica normativa.

Sembra evidente che l’abrogazione delle norme sanzionatorie di corredo alla disciplina del reddito di cittadinanza sia imputabile a una svista del legislatore, nell’ambito di un provvedimento monstre che, come da prassi ormai invalsa, conta più di novecento commi di un unico articolo, frutto dell’approvazione con il voto di fiducia di un maxi-emendamento del Governo. Non può che trattarsi di una svista, considerato che è del tutto irragionevole – tanto più nel contesto di una maggioranza parlamentare che invoca spesso la “certezza della pena” – abrogare, assieme al reddito di cittadinanza, le norme penali che sanzionano l’indebita percezione di quel sussidio. Ed è ancor più irragionevole farlo con effetto differito al 1° gennaio 2024, assumendosi il rischio di veicolare un messaggio potenzialmente criminogeno: l’indebita percezione del reddito di cittadinanza, tra un anno, non sarà sanzionata. D’altra parte, a conferma che si tratti di una svista, nei lavori preparatori della legge di bilancio non vi è menzione dell’abrogazione di norme penali. Nella Nota tecnico-illustrativa al disegno di legge di bilancio 2023-2025, predisposta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Ragioneria Generale dello Stato) si legge a pagina 25: “Per il prossimo anno sono ridefinite le modalità per la fruizione del reddito di cittadinanza che viene abrogato a partire dal mese di gennaio 2024 per finanziare un'organica riforma delle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva”. Analogamente, nel Dossier del Servizio Studi della Camera relativo alla legge di bilancio (vol. I, Articolo 1, commi 1-368, pag. 411) si legge solo un’affermazione asciutta: “Il comma 318 prevede che dal 1° gennaio 2024 siano abrogate le disposizioni del D.L. n. 4/2019 che disciplinano il reddito e la pensione di cittadinanza, istituti di cui, dunque, si prevede l’abolizione dal 2024”.

 

4. L’abrogazione inconsapevole – con ogni probabilità colposa – delle norme penali di cui si è detto sembra problematica per almeno due ragioni: l’una criminologica, l’altra giuridica. Sotto il primo profilo, anzitutto, si finisce per veicolare un pericoloso messaggio: quello dell’impunità per l’indebita percezione del sussidio, che sterilizza la capacità preventiva delle sanzioni penali comminate dalla legge. Sotto il secondo profilo, poi, vengono a porsi serie questioni e dubbi interpretativi che investono la disciplina di diritto intertemporale. A fronte di ciò, è senz’altro auspicabile un intervento del Governo o del Parlamento, che però non si prospetta agevole. Vediamo perché.

 

5. Il problema che si pone è stabilire se – e da quale momento – l’abrogazione delle norme incriminatrici di cui all’art. 7, co 1 e 2 d.l. n. 4/2019 dà luogo a una successione di leggi penali, disciplinata dall’art. 2 c.p. e se comporta, in particolare, una abolitio criminis. La norma abrogratrice di una norma incriminatrice è norma più favorevole per eccellenza, la cui retroattività è notoriamente imposta dai principi costituzionali che regolano la materia. Si tratta, ciò ricordato, di rispondere a tre diversi quesiti, di non agevole soluzione:

a) se l’effetto abrogativo – e, con esso, l’introduzione nell’ordinamento di una lex mitior retroattiva – si produca con l’entrata in vigore della norma abrogatrice (il 1° gennaio 2023) ovvero alla data (1° gennaio 2024) a decorrere dalla quale la legge ha previsto l’abrogazione delle due norme incriminatrici (e, analogamente, della citata norma che configura un effetto penale della condanna);

b) se l’abrogazione delle norme incriminatrici previste dall’art. 7 d.l.  n. 4/2019 comporti una abolitio criminis, capace di travolgere anche le sentenze di condanna già passate in giudicato;

c) se e quali margini vi siano per un intervento correttivo del legislatore, che sia compatibile con i principi costituzionali e, in particolare, con quello di retroattività della legge penale più favorevole all’agente, che pacificamente ha rango costituzionale attraverso gli artt. 3 e 117 Cost., in relazione all’art. 7 CEDU (cfr., tra le altre, Corte cost. n. 63/2019).

 

6. Anticipando le principali conclusioni, proveremo a mostrare come, a nostro parere:

a) l’effetto abrogativo si produrrà solo a partire dal 1° gennaio 2024, secondo la volontà del legislatore. Restano pertanto certamente applicabili, fino a quella data, le norme incriminatrici di cui all’art. 7 d.l. n. 4/2019, così come continuerà a prodursi l’effetto penale della condanna di cui all’art. 7, co. 3 d.l. n. 4/2019, cit., correlato al reato di cui all’art. 7, co. 1 d.l. n. 4/2019 e ad altri reati (revoca del sussidio e restituzione di quanto indebitamente percepito). Il che, peraltro, non toglie che, almeno in via di principio, non possano prospettarsi (dopo il 1° gennaio 2024) dubbi di legittimità costituzionale di tale differimento dell’applicazione di una lex mitior, con conseguente ultrattività delle norme penali sfavorevoli all’agente;

b) il 1° gennaio 2024, in assenza di un intervento del legislatore, si realizzerà una abolitio criminis, ai sensi dell’art. 2, co. 2 c.p., essendo i fatti incriminati dall’art. 7, co. 1 e 2 d.l. n. 4/2019 riconducibili all’illecito amministrativo di cui all’art. 316-ter, co. 2 c.p., configurabile in caso di indebita percezione di erogazioni pubbliche sotto la soglia di 4.000 euro: una soglia che il reddito di cittadinanza, configurato come erogazione mensile, non supera mai. Tale illecito amministrativo non potrà peraltro essere applicato retroattivamente. Sempre al 1° gennaio 2024, inoltre, verrà meno l’effetto penale di cui all’art. 7, co. 3 d.l. n. 4/2019. L’abolizione di un effetto penale della condanna integra una modifica migliorativa del trattamento sanzionatorio penale, applicabile retroattivamente, ai sensi dell’art. 2, co. 4 c.p., con il limite del giudicato. Ciò significa che, in relazione alle condanne passate in giudicato prima del 1° gennaio 2024, l’INPS avrà titolo per chiedere la restituzione di quanto indebitamente percepito dal condannato a titolo di reddito di cittadinanza. In relazione alle condanne passate in giudicato dopo tale data, invece, il condannato potrà eccepire la sopravvenienza della più favorevole disciplina che ha abolito l’effetto penale della condanna;

c) alla luce dei principi costituzionali in materia di applicazione della legge penale nel tempo, i margini di manovra per un intervento del legislatore volto a evitare l’abolitio criminis e l’abolizione del predetto effetto penale della condanna, prima del 1° gennaio 2024, sono angusti. Essi presuppongono; 1) che non trovi accoglimento nella giurisprudenza, anche costituzionale, la tesi secondo cui gli effetti di una lex mitior si producono nel momento dell’abrogazione della norma penale più sfavorevole e non possono essere differiti, rendendo ultrattive le norme penali più sfavorevoli all’agente; 2) che, appurato quanto sub 1), le norme penali richiamate in vita dal legislatore siano, senza soluzione di continuità, le medesime: non delle nuove norme penali che, come tali, sarebbero inapplicabili retroattivamente.

 

7. Preliminare, come si è detto, è stabilire in quale momento si determina l’effetto retroattivo della lex mitior. La risposta potrebbe apparire scontata: un’abrogazione differita non può che produrre effetti dalla data a partire dalla quale le norme incriminatrici sono abrogate; non, pertanto, hic et nunc. Quando è in gioco la materia penale, tuttavia, bisogna fare i conti con il principio di retroattività della legge più favorevole, che ha rango costituzionale e convenzionale (artt. 3, 117 Cost. 7 Cedu). Uno sguardo alla giurisprudenza consente di capire subito quanto la risposta alla domanda che ci siamo posti non sia affatto scontata e semplice.  

Valorizzando la forza del principio di retroattività della lex mitior, infatti, un orientamento giurisprudenziale – invero non incontrastato – ritiene applicabile la legge penale più favorevole al reo addirittura durante il periodo di vacatio legis: prima, cioè, dell’entrata in vigore della lex mitior. In una sentenza del 2017, la Corte di cassazione (Cass. Sez. I, 18.5.2017, n. 53602, Carè, Rv. 271639) ha così affermato che “in tema di abolitio criminis, è legittima la sentenza d'appello che non confermi la condanna per un reato che, al tempo della decisione, risulti abrogato, nonostante al momento della adozione della decisione non sia ancora interamente decorso il periodo di vacatio legis ai sensi dell'art. 10 delle preleggi e dell'art. 73, comma 3, Cost., in quanto la funzione di garanzia per i consociati, che è perseguita dalla previsione del suddetto termine volto a permettere la conoscenza della nuova norma, non comporta anche il perdurante dovere del giudice di applicare una disposizione penale ormai abrogata per effetto di una successiva norma già valida. (In motivazione la Corte ha escluso che, nel caso di specie, il giudice abbia solo l'alternativa di rinviare la decisione o di "ignorare" la norma abrogatrice, infliggendo una condanna che si palesa già inevitabilmente illegale)”.  

Analogo principio è stato affermato in relazione all’estensione della portata di una causa di giustificazione (la legittima difesa: Cass. Sez. I, 14.5.2019, n. 39977, Addis, Rv. 276949) e, recentissimamente, in relazione all’estensione del regime di procedibilità a querela realizzato dal d.lgs. n. 150/2022 (c.d. riforma Cartabia), che ha consentito la remissione della querela in rapporto a reati che, in precedenza, erano procedibili d’ufficio (Cass. Sez. II, 4.11.2022, n. 2100, Zanetti). In quest’ultima sentenza si afferma che “in pendenza di vacatio legis la norma esiste già nell’ambito dell’ordinamento…e proprio tale esistenza dovrebbe essere presa in considerazione dal giudice quando, in pendenza di giudizio, una sua mancata applicazione, che di fatto preclude la considerazione di un regime giuridico più favorevole per l’imputato, determinerebbe un reale pregiudizio, un effettivo regime di sfavore…”.

Proprio quest’ultima considerazione, d’altra parte, ha portato il Tribunale di Siena – come si è già segnalato sulla nostra Rivista – a sollevare una questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 167/2022 (c.d. decreto rave) nella parte in cui, differendo l’entrata in vigore della c.d. riforma Cartabia di oltre due mesi, ha impedito nel periodo di prolungata vacatio legis l’applicazione delle disposizioni penali più favorevoli ivi previste e, pertanto, ha determinato l’ultrattività di quelle più sfavorevoli oggetto di modifica normativa. La questione – non ancora decisa dalla Consulta (l’udienza è fissata per il 7 giugno 2023) – è stata sollevata dal Tribunale di Siena sul presupposto della ritenuta impossibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione, che renda appunto applicabile la lex mitior durante la vacatio legis, come nella tesi – non condivisa – delle citate sentenze della Cassazione.

Ebbene, così riassunto il quadro della giurisprudenza, a noi pare che ricorrendo a un suggestivo argomento a fortiori si potrebbe sostenere che simili principi – e dubbi di legittimità costituzionale – valgano anche nella vicenda del reddito di cittadinanza, in cui il periodo di vacatio legis è già decorso e, pertanto, la norma abrogratrice delle norme penali è già in vigore. Si potrebbe cioè provare a sostenere, trovando appigli nella giurisprudenza, che già oggi l’art. 7 d.l. n. 4/2019 debba considerarsi abrogato, agli effetti dell’art. 2 c.p.

Senonché, un simile argomento a fortiori si presta, a nostro avviso, a più di un’obiezione, che non smentisce, ma accentua, il carattere problematico della svista della legge di bilancio.

Anzitutto, il citato orientamento della Cassazione non è pacifico. Esiste, infatti, giurisprudenza in senso contrario a quella sopra richiamata. Cass. Sez. V, 4.11.2022, n. 45104, Cipolla ha escluso, con un’articolata motivazione, l’applicabilità della lex mitor (mutamento del regime di procedibilità di un reato) nel prolungato periodo di vacatio legis della c.d. riforma Cartabia.

Nella sentenza Cipolla, valorizzando il tenore letterale dell’art. 73, co. 3 Cost. e dell’art. 10, co. 1 delle preleggi si sottolinea, anzitutto, come la legge – compresa la lex mitior in materia penale - entra in vigore ed è obbligatoria decorso il periodo di vacatio.

Si osserva, inoltre, sempre nella stessa sentenza della Cassazione, come è ben possibile che durante la vacatio legis il legislatore intervenga per modificare la legge già approvata e promulgata, senza che si determini alcun fenomeno di successione di leggi: proprio, appunto, perché quel fenomeno presuppone la successione di leggi entrate in vigore. La citata sentenza ricorda, in proposito, una vicenda apparentemente simile a quella qui in esame, che coinvolse nel 2021 il Governo Conte II. Nell’adeguare la normativa nazionale in tema di alimenti, con l’art. 18 del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 27 furono abrogate, per errore, alcune norme incriminatrici, tra le quali quelle di cui all’art. 5 della l. 30 aprile 1962, n. 283. Come a suo tempo riferito dalla nostra Rivista, l’effetto abrogativo, in quel caso, fu evitato dal Governo Draghi, nel frattempo insediatosi, con un decreto-legge (d.l. 22 marzo 2021, n. 42) che escludeva le norme incriminatrici da quelle oggetto dell’intervento abrogativo. In quell’occasione, pertanto, fu possibile quel che, nel caso del reddito di cittadinanza, non è più possibile e, cioè, correggere un errore intervenendo nel periodo di vacatio legis, prima cioè dell’entrata in vigore della norma abrogatrice. La Cassazione, in una sentenza del 2021, ha potuto così escludere l’abolitio criminis di un reato alimentare affermando che “l'abrogazione…della fattispecie in rubrica, pur approvata, non è mai entrata in vigore, perché superata da una previsione di segno contrario entrata in vigore prima dell'altra” (Cass. Sez. III, 16.6.2021, n. 34395, Dragoti, Rv. 282365).

Soprattutto, assume rilievo un terzo argomento speso dalla sentenza Cipolla, che in questo caso può essere esteso alla vicenda della legge di bilancio e del reddito di cittadinanza, e che riguarda la volontà del legislatore. Con il c.d. decreto-rave il Governo ha voluto differire l’entrata in vigore della riforma Cartabia, comprese le norme penali più favorevoli (ad es., quelle relative al mutamento del regime di procedibilità), determinandone così, deliberatamente, l’inapplicabilità per il periodo di prolungata vacatio. Il Parlamento, prevedendo nella legge di bilancio l’abrogazione della disciplina del reddito di cittadinanza a decorrere dal 1° gennaio 2024, ha voluto differire di un anno l’abolizione del sussidio e dell’intera disciplina ad esso correlata. La norma abrogatrice delle fattispecie è pertanto entrata in vigore ma – questo è il punto – non si è ad oggi ancora realizzato l’effetto abrogativo.

Se pacifica è la volontà del legislatore, quanto al differimento dell’abrogazione dell’art. 7 d.l. n. 4/2019, potrebbe essere tuttavia revocata in dubbio la ragionevolezza di tale differimento, in rapporto alle norme penali, con cadenze argomentative analoghe a quelle della citata ordinanza del Tribunale di Siena, che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale del differimento dell’entrata in vigore delle disposozioni più favorevoli al reo, previste dalla riforma Cartabia. In quel caso, ad impedire l’applicazione della lex mitior è stato il prolungamento della vacatio legis, cioè il differimento dell’entrata in vigore della legge stessa; nel caso che ci occupa, invece, l’applicazione della lex mitior è impedita dal differimento dell’abrogazione al 1° gennaio 2024. In entrambi i casi, l’effetto è di rendere ultrattive norme penali sfavorevoli e abrogate. Si tratta, sotto questo profilo, di valutare la legittimità costituzionale dell’intervento normativo, sotto il profilo della compatibilità con il principio di uguaglianza/ragionevolezza. Ebbene, pur con l’evidente difficoltà di valutare al metro di tale principio un intervento involontario – una abrogatio per aberratio –, a noi pare che non si possa dire che sia irragionevole rinviare di un anno l’abrogazione della disciplina del reddito di cittadinanza, del quale si prevede ancora l’erogazione per un ultimo anno. Si potrebbe forse, piuttosto, porre in dubbio tout court la ragionevolezza dell’abrogazione delle norme penali sollevando una questione di legittimità costituzionale che sarebbe rilevante solo dopo il 1° gennaio 2024 (quando, cioè, la norma abrogatrice dovrebbe essere applicata nel giudizio a quo) e che incontrerebbe, se accolta, i limiti della dichiarazione di illegittimità costituzionale con effetti in malam partem: la disciplina più sfavorevole risultante dalla pronuncia della Corte costituzionale – che dovesse far rivivere l’art. 7 d.l. n. 4/2019 – non sarebbe applicabile ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge di bilancio e prima della sentenza della Corte. Passando dalla Consulta non si eviterebbe, pertanto, in ogni caso, l’effetto di impunità per i fatti commessi nel 2023.

 

8. Veniamo alla seconda domanda, che individua un ulteriore elemento di complessità della vicenda: se l’abrogazione delle norme incriminatrici in materia di reddito di cittadinanza – decorrente dal 1° gennaio 2023 o dal 1° gennaio 2024, a seconda di come si risponda al quesito preliminare di cui si è detto – comporti una abolitio criminis (art. 2, co. 2 c.p.), capace di travolgere, attraverso un incidente di esecuzione attivato ai sensi dell’art. 673 c.p.p., anche le sentenze di condanna già passate in giudicato.

Per rispondere a questa domanda viene in rilievo un principio oggi consolidato in dottrina e in giurisprudenza: l’abrogazione di una norma incriminatrice è un fenomeno non necessariamente coincidente con l’abolizione del reato, ben potendovi essere casi di abrogatio sine abolitione. Come hanno chiarito le Sezioni Unite in una bella sentenza del 2009 (cfr. Cass. Sez. Un., 26 febbraio 2009, Rizzoli, n. 24668, pag. 15 della motivazione in diritto) “l’abrogazione di una norma incriminatrice determina certamente una situazione di c.d. abrogatio sine abolitione se la scelta legislativa mantiene fermo il disvalore delle classi di fatti conformi alla detta norma, riportandole implicitamente alla disciplina prevista da altra norma preesistente, in rapporto di specialità con la prima. Si pensi, esemplificativamente, all’abrogazione dell’omicidio e delle lesioni personali a causa d’onore…Con l’abrogazione dell’art. 587 c.p., norma speciale, il legislatore ha voluto implicitamente ricondurre gli stessi alla disciplina generale di cui agli artt. 575 e 582 c.p., il cui nucleo strutturale, considerato nella sua essenzialità, non si discosta da quello della disposizione soppressa. In tale caso, opera certamente la regola di cui al quarto comma dell’art. 2 c.p.” (in questo stesso senso v anche tra gli altri, in dottrina, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, 11a ed., 2022, p. 149 s.). Legge posteriore, ai sensi dell’art. 2, co. 4 c.p., infatti, “non è necessariamente quella introdotta dopo la commissione del fatto: può essere anche la disciplina divenuta applicabile al caso concreto a seguito di mutamenti normativi intervenuti dopo il fatto” (così Sez. Un. Rizzoli, cit.); ed è il caso di una preesistente norma generale, divenuta applicabile solo dopo e per effetto dell’abrogazione di una norma speciale.

Applicando questi principi al caso che ci occupa, si può concludere – sul piano del metodo – nel senso che deve essere esclusa l’abolitio criminis delle figure delittuose di cui al primo e al secondo comma dell’art. 7 d.l. n. 4/2019 se e nella misura in cui sia possibile ravvisare un rapporto di specialità con altre norme incriminatrici già vigenti, il cui ambito di applicazione si riespanga, venute meno quelle norme speciali.  Qualora sia possibile inquadrare fatti del tipo di quelli puniti dall’art. 7 d.l. n. 4/2019 in un’altra norma incriminatrice, di natura generale, si dovrà escludere l’abolitio criminis e sarà applicabile l’art. 2, co. 4 c.p. L’abrogazione realizzata dalla legge di bilancio non avrà effetto rispetto alle sentenze passate in giudicato e comporterà, nei procedimenti pendenti, l’applicazione del regime sanzionatorio più favorevole, tra quello previsto dal citato art. 7 e dalla norma incriminatrice generale di cui si tratta.

Ciò detto, l’abolitio criminis delle fattispecie previste dai primi due commi dell’art. 7 d.l. n. 4/2019 potrebbe essere argomentata, in primo luogo, sostenendo la riconducibilità delle stesse al delitto – punito assai meno gravemente (reclusione da sei mesi a tre anni), di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter c.p.), che pure dà rilievo alle condotte di presentazione/utilizzazione di dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere e all’omissione di informazioni dovute, in vista del conseguimento di una erogazione pubblica. Elementi specializzanti, nelle fattispecie di cui all’art. 7 d.l. n. 7/2019, riguardano, sul piano oggettivo, il tipo di erogazione – il reddito di cittadinanza, sub specie di sussidio assistenziale – e, quanto alla fattispecie di cui al comma 2 (omessa comunicazione delle variazioni di reddito/patrimonio), il presupposto dell’erogazione in corso del contributo; sul piano soggettivo, elemento specializzante è il dolo specifico, rispetto al dolo generico richiesto dall’art. 316-ter c.p. La tesi della riconducibilità al delitto di cui all’art. 316-ter c.p. delle abrogande fattispecie penali in materia di reddito di cittadinanza – tesi che, come si è detto, escluderebbe l’abolitio criminis – presuppone di risolvere affermativamente il quesito sulla natura giuridica del reddito di cittadinanza quale contributo o erogazione statale tutelata da quella norma incriminatrice. A tal proposito, la configurabilità del delitto di cui all’art. 316-ter c.p. in caso di indebita erogazione di contributi assistenziali, in passato controversa, è stata affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2007 con riferimento al c.d. reddito minimo di inserimento di cui al d.lgs. 18 giugno 1998 n. 237 (Cass. S.U., 19 aprile 2007, n. 16568, Carchivi, Rv. 235962; da ultimo, Cass. Sez. VI, 14.7.2015, n. 38293, Cascino, Rv.264724): una misura sperimentale che può considerarsi un antenato del reddito di cittadinanza. Per la riconducibilità delle fattispecie dell’art. 7 d.l. n. 4/2019 all’art. 316-ter c.p. non sarebbe dunque rilevante la recente estensione della fattispecie alle “sovvenzioni”, realizzata dal d.l. 27 gennaio 2022, n. 4 (estensione che peraltro, in virtù del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole – quale è quella che estende l’ambito di applicazione di un’incriminazione – se fosse pertinente ai nostri fini potrebbe conservare la rilevanza penale dei soli fatti di indebita percezione del reddito di cittadinanza commessi dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 4/2022).

Tutto, insomma, sembrerebbe parlare nel senso dell’esclusione dell’abolitio criminis, per riespansione della pur meno grave figura delittuosa di cui all’art. 316-ter c.p. Senonché quella fattispecie prevede una soglia di punibilità (o di rilevanza penale del fatto) fissata in 4.000 euro (art. 316-ter, co. 2 c.p.); soglia al di sotto della quale l’indebita percezione integra un illecito amministrativo. Come è stato sottolineato da Rosalia Affinito in un contributo pubblicato sulla nostra Rivista (ivi, pag. 13), è anche e proprio questa previsione ad avere suggerito al legislatore del d.l. n. 4/2019 di configurare nell’art. 7 figure delittuose speciali: “considerato che il reddito di cittadinanza si struttura come un contributo mensile che non supera mai quella soglia, di fatto il reato non si sarebbe mai configurato”. Infatti, prosegue Rosalia Affinito, “la giurisprudenza ha escluso ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 316-ter c.p. che la soglia di rilevanza penale possa essere computata tenendo conto dell’entità dell’intero contributo erogato, rilevando al contrario l’ammontare di ciascun rateo (sul punto, di recente, v. Cass., sez. VI, 20 aprile 2020, n. 7963)”. Se ciò è vero, l’abrogazione dell’art. 7 d.l. n. 4/2019 comporterà, dal 1° gennaio 2024, una depenalizzazione, con conseguente revoca delle sentenze passate in giudicato e, per il principio di irretroattività in malam partem, riferibile anche all’illecito amministrativo punitivo (cfr. Corte cost. nn. 196/2010, 104/2014 e 223/2018), l’impossibilità di applicare retroattivamente quest’ultimo (punito con una severa sanzione pecuniaria: da 5.000 a 25.000 euro).

D’altra parte, non ci sembra che l’esito dell’abolitio criminis potrebbe essere escluso invocando la riconducibilità del fatto ai reati di falso di cui agli artt. 483 e 489 c.p., che la giurisprudenza ritiene assorbiti nel delitto di cui all’art. 316-ter c.p. (v., sul punto, il citato contributo di R. Affinito e, ivi, pag. 14) e, pertanto, anche nell’illecito amministrativo per i fatti di indebita percezione di erogazioni pubbliche sotto la soglia di punibilità.

Non ci sembra infine a ben vedere rilevante, ai fini dell’esclusione dell’abolitio criminis, il riferimento alla fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.). La clausola di riserva con cui si apre il primo comma dell’art. 7 d.l. n. 4/2019 fa salva l’applicazione di reati più gravi, quali la truffa aggravata (punita, nel massimo, con sette anni di reclusione): se questo delitto è configurabile – perché la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi integra artifici e raggiri che inducono in errore l’amministrazione sull’erogazione del sussidio – la norma penale abrogata era e resta inapplicabile e non può porsi un problema di perdita di rilevanza penale del fatto. Non è peraltro pacifica, anzi, la configurabilità della truffa aggravata rispetto alla percezione del reddito di cittadinanza: (rinviamo, sul punto, al citato contributo di R. Affinito e, ivi, pag. 13): una considerazione, questa, che si estende anche alla fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 7 d.l. n. 4/2019.

 

9. Resta da rispondere a un’ultima, decisiva, domanda: nell’impossibilità di ricondurre le fattispecie penali del reddito di cittadinanza ad altre figure di reato in rapporto di specialità può l’esito di abolitio criminis essere evitato, prima o dopo il 1° gennaio 2024?

Prima di quella data, una soluzione in apparenza semplice potrebbe essere di ricorrere a un decreto-legge o una legge per eccettuare l’art. 7 d.l. n. 4/2019 da quelli oggetto di abrogazione, non diversamente da quel che fece il Governo Draghi nella richiamata vicenda dei reati alimentari. Va esattamente in questa direzione, come ha riferito la stampa, un emendamento dell’On. Enrico Costa presentato in Commissione Giustizia della Camera in sede di esame del disegno di legge n. 831, recante “Norme in materia di procedibilità d’ufficio e di arresto in flagranza”. Si potrebbe ritenere che, essendo la norma abrogativa entrata in vigore con effetto differito, prima della produzione degli effetti è possibile per il legislatore tornare sui suoi passi senza dar luogo a una successione di leggi penali; non diversamente, insomma, da quanto ha potuto fare il Governo Draghi in rapporto ai reati alimentari, intervenendo, in quel caso, nel periodo di vacatio della legge abrogatrice. Senonché, in modo non implausibile e con alcuni appigli giurisprudenziali, si potrebbe sostenere che: a) una successione di leggi penali si è verificata perché la norma abrogatrice è entrata in vigore e che b) la norma che impedisce l’effetto abrogativo è una norma più sfavorevole non applicabile retroattivamente. Si potrebbe cioè sostenere, facendo riferimento alla figura della lex intermedia (cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., p. 147), che la legge di bilancio è una legge abolitrice intermedia, applicabile pur dopo la reintroduzione della norma penale abrogata. I dubbi interpretativi, insomma, residuerebbero e la soluzione della complessa e per molti versi inedita questione risulterebbe di fatto rimessa alla giurisprudenza.

Sempre prima del 1° gennaio 2024, il Governo o il Parlamento potrebbero introdurre norme penali che, senza soluzione di continuità, conservino la rilevanza penale dei fatti commessi ed entrino in vigore quello stesso giorno, cioè contestualmente alla produzione degli effetti dell’abrogazione dell’art. 7 d.l. n. 4/2019. In questo caso, si potrebbe sostenere che si verifica una abrogatio sine abolitione, che ricorre quando la norma abrogata è speciale rispetto ad altra, generale, non solo preesistente, ma anche – questo è il punto – introdotta contestualmente all’abrogazione (cfr., oltre alla citata sentenza Rizzoli delle Sezioni Unite, G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, cit., p. 149). Senonché andrebbero superate almeno tre obiezioni. La prima è che l’abrogazione si è realizzata con la legge di bilancio e che solo l’effetto abrogativo differito sarebbe contestuale all’introduzione di una nuova figura di reato; la seconda è che tale figura di reato, in ragione della conseguente soluzione di continuità, non potrebbe essere applicata retroattivamente; la terza è che, verosimilmente, il legislatore potrebbe giustificare l’introduzione di una nuova figura di reato, senza “rimangiarsi” la precedente scelta abrogativa, nell’ambito dell’annunciata riforma organica delle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva, di cui sì fa cenno nella citata nota tecnica del MEF. Senonché non è agevolissimo, senza violare i principi di irretroattività e di legalità, pensare a una norma incriminatrice dell’indebita percezione di un sussidio nuovo, applicabile all’indebita percezione di un sussidio abolito.

Dopo il 1° gennaio 2024, infine, in assenza di un intervento legislativo, si potrebbe provare a sostenere, in modo arguto e non implausibile, che l’abrogazione differita delle norme penali, ad opera della legge di bilancio, le ha rese temporanee, agli effetti dell’art. 2, co. 5 c.p., che, come è noto, deroga alla retroattività della lex mitior. Il reato punito da una norma temporanea resta infatti punibile anche dopo l’abrogazione di quella norma, che non è espressiva di un mutato giudizio di disvalore del fatto incriminato. Senonché, la trasformazione di una norma penale in norma temporanea è una modifica peggiorativa, come tale irretroattiva. La tesi della sopravvenuta natura temporanea dei reati di cui all’art. 7 d.l. n. 4/2019 potrebbe dunque essere invocata, tutt’al più, per far salvi dall’abolitio criminis i fatti commessi dopo la legge di bilancio (nel 2023, quindi).

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10. Soluzioni agevoli, come si vede, non esistono. Governo e Parlamento sono chiamati a una seria riflessione per individuare la soluzione migliore per evitare un irragionevole esito di impunità per chi ha indebitamente percepito e percepisce ancora oggi il reddito di cittadinanza; una soluzione che dovrà essere tempestiva e dovrà tenere conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo a partire da quelli costituzionali.

Una seria riflessione, d’ordine più generale, sarebbe d’altra parte auspicabile in rapporto al graduale peggioramento della qualità della legislazione, da molti rilevato e testimoniato anche dalla vicenda in esame. A fronte di un’attività legislativa sempre più frenetica, da parte del Governo, gli uffici legislativi dei ministeri e della Presidenza del Consiglio dei Ministri sono sempre più sotto pressione, anche per carenze di organico. La politica, nell’imprimere ritmi forsennati ai tecnici della legislazione, deve mettere in conto “infortuni” come quello da cui origina la complessa vicenda dei risvolti penali dell’abolizione del reddito di cittadinanza. Così come accade per l’attività giurisdizionale, anche per quella legislativa vale la regola di una inevitabile diminuzione della qualità quando la mole del lavoro tecnico-intellettuale da svolgere supera le capacità delle risorse disponibili. E’ bene che la politica ne tenga conto, trovando soluzioni sul piano dell’attività legislativa, che dovrebbe essere meno compulsiva e più meditata (come consentono i normali tempi parlamentari, a differenza di quelli governativi), nonché – a medio lungo termine – sul piano dello sviluppo di una classe professionale di tecnici della legislazione, adeguata alle esigenze. L’organico dei tecnici della legislazione deve insomma essere opportunamente rinforzato. Ciò è ancor più vero per la materia penale, presidiata da principi e garanzie che rendono particolarmente difficile, come si è visto, rimediare a sviste che, nel processo legislativo, sono sempre possibili.