Cass., Sez. III, ord. 11 ottobre 2022 (dep. 20 gennaio 2023), n. 2588, Pres. Sarno, rel. Galterio, ric. Giudice
1. Con l’ordinanza in commento, la terza sezione penale della Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite le seguenti questioni: “se integrano il delitto di cui all'art. 7 d.l. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito con modificazione nella legge 28 marzo 2019 n.26: a) Le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell'autodichiarazione finalizzata all'ottenimento del reddito di cittadinanza, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l'ammissione al beneficio, ovvero b) Se il mendacio o le omissioni dichiarative rilevino nei soli casi in cui l'intento dell'agente sia solo quello di conseguire, per il tramite delle stesse, un beneficio altrimenti non dovuto".
L’individuazione del mendacio penalmente rilevante ai sensi dell’art. 7 del d.l. 4/2019 è, infatti, oggetto di contrasto giurisprudenziale, con particolare riguardo all’inclusione o meno nell’ambito applicativo della fattispecie citata delle false dichiarazioni rese ai fini dell’ottenimento del RDC, nell’ipotesi in cui non incidano sulla sussistenza in concreto delle condizioni per l’ammissione al beneficio.
2. Nel caso di specie, il ricorso in Cassazione proposto dalla difesa dell’imputato riguarda la condanna, emessa in primo grado e confermata dalla Corte d’Appello di Salerno, per i reati previsti dagli artt. 640, comma 2, c.p. e 7 d.l. 4/2019, per aver attestato nella dichiarazione ISEE un valore del proprio patrimonio immobiliare inferiore a quello reale, al fine di ottenere indebitamente il reddito di cittadinanza, inducendo così in errore l'INPS, che, in forza di tale dichiarazione, erogava all’imputato la somma di € 4.431,78.
Con un primo motivo di doglianza il ricorrente lamenta il vizio di violazione di legge riferito agli artt. 7 d.l. 4/2019 e 42 e 43 c.p. e il vizio motivazionale in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, non essendovi alcun elemento da cui desumere che l'intenzione dell'imputato fosse quella di ottenere un beneficio altrimenti non dovuto, atteso che, anche dichiarando il valore immobiliare omesso (l’imputato, in particolare, aveva omesso di dichiarare nel proprio patrimonio immobiliare ai fini ISEE la quota del 50% di sette terreni in comproprietà con il coniuge, quantificabile in oltre 22.000 euro), avrebbe avuto comunque diritto a percepire il sussidio. Sostiene, infatti, il ricorrente che, alla luce della sentenza n. 44366/2021 della Corte di Cassazione e in ossequio al principio dell’offensività concreta, il delitto in parola dovrebbe ritenersi sussistente solo quando l'intenzione dell'agente sia quella di conseguire attraverso dichiarazioni false o incomplete un beneficio altrimenti non dovuto. Inoltre, l’organo giudicante non avrebbe compiuto i necessari approfondimenti in ordine alla consapevolezza e volontarietà della contestata omissione.
Con successiva memoria, depositata a seguito della requisitoria scritta del procuratore Generale, che aveva concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza, il ricorrente specifica che l'elemento intenzionale del reato previsto dall’art. 7, primo comma, d.l. 4/2019 dovrebbe ritenersi integrato solo nell’ipotesi in cui non sussistano le condizioni in capo all'istante per accedere al beneficio e si verta perciò in ipotesi di illegittimo godimento del medesimo.
Con un secondo motivo di doglianza il ricorrente lamenta il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 640, comma 2, n. 1, e motivazionale, in ordine alla ritenuta sussistenza, da parte dei giudici di merito, degli elementi costitutivi del reato di truffa e, in particolare, degli artifizi e raggiri.
3. Ai fini della decisione sul ricorso in esame, assume dunque rilievo dirimente la questione relativa alla configurabilità della fattispecie prevista dall’art. 7, comma 1, del d.l. citato, allorquando, nella dichiarazione finalizzata al conseguimento del reddito di cittadinanza, vengano dal richiedente riportate false indicazioni (o omesse informazioni rilevanti) in ordine alla sua condizione patrimoniale e reddituale, indipendentemente dalla rilevanza del mendacio ai fini del superamento delle soglie fissate ex lege per il conseguimento del beneficio.
Come evidenziato dalla stessa Corte nell’ordinanza qui commentata, nella prassi si possono verificare tre distinte ipotesi: a) il mendacio nella richiesta per l’ottenimento del RDC per totale assenza dei requisiti; b) il mendacio per ottenere un beneficio maggiore rispetto al dovuto in assenza della falsa dichiarazione; c) il mendacio che non incide sul diritto ad ottenere il sussidio né sull'ammontare del beneficio.
Rispetto alla casistica individuata, si tratta di vagliare la portata applicativa della fattispecie contenuta nell’art. 7 d.l. 4/2019, che, come noto, sanziona coloro che, pur sprovvisti dei requisiti di legge, accedano alla misura presentando falsa documentazione o rendendo false dichiarazioni (comma 1), ovvero coloro che continuino a percepire il beneficio economico quando tali requisiti siano venuti meno (comma 2)[1].
4. In relazione all’individuazione delle falsità rilevanti ai sensi dell’art. 7, comma 1, citato, come evidenziato dall’ordinanza di rimessione, è possibile individuare in seno alla giurisprudenza di legittimità due contrapposti orientamenti interpretativi.
Secondo un primo orientamento[2], probabilmente maggioritario, che ha fornito un’interpretazione ampia della fattispecie prevista dall’art. 7 del decreto, “integrano il delitto in esame le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza, indipendentemente dall’effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio”[3]. In altre parole, il reato previsto dall’art. 7 d.l. 4/2019 risulterebbe integrato in tutte e tre le ipotesi sopra individuate - casi a), b) e c).
Tale indirizzo si fonda anzitutto sull’assunto in base a cui la sanzione penale prevista dall’art. 7 del d.l. 4/2019 costituirebbe la reazione da parte dell’ordinamento ad una forma di violazione del patto di leale cooperazione intercorso fra il cittadino e l’amministrazione e, come tale, non dovrebbe fare riferimento all'effettivo raggiungimento dello scopo (rappresentato dalla percezione del reddito). Più in particolare, la disciplina del RDC sarebbe correlata, nel suo complesso, al generale «principio antielusivo», per cui la punibilità del reato si rapporta non solamente al pericolo di profitto ingiusto, ma, soprattutto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico. Con la conseguenza che il cittadino che aspiri ad ottenere il beneficio - o che già lo percepisca - avrebbe l'obbligo di comunicare all'ente erogatore qualunque circostanza modificativa delle proprie condizioni patrimoniali o reddituali, a prescindere dalle conseguenze che tali variazioni hanno sul concreto diritto a percepire il RDC. Tale interpretazione riflette l’elaborazione giurisprudenziale relativa ai reati di falso nelle dichiarazioni sostitutive e, più in particolare, al reato di cui all’art. 95 d.p.r. n. 112/2002 (che sanziona le omissioni o le false dichiarazioni nelle indicazioni e comunicazioni finalizzate ad ottenere l’ammissione al gratuito patrocinio)[4].
Un secondo indirizzo giurisprudenziale[5] ha fornito, invece, un’interpretazione restrittiva dell’art. 7 del d.l. 4/2019, ritenendo sussistente il reato in parola solo quando le condotte di mendacio siano finalizzate ad ottenere il beneficio del RDC, e il richiedente in concreto non ne abbia diritto o ne abbia diritto in misura minore; in altre parole sarebbero penalmente rilevanti le false dichiarazioni nel caso in cui la percezione del sussidio risulti indebita, nell’an – ipotesi sub. a) – o nel quantum – ipotesi sub. b).
Prendendo le distanze dall’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, tale indirizzo muove dalla presa di consapevolezza che il termine di riferimento argomentativo rappresentato dai precedenti giurisprudenziali in materia di ammissione al beneficio del patrocinio giudiziario a spese dello Stato dei non abbienti non sia del tutto soddisfacente. Infatti, l’art. 95, d.p.r. n. 115/2002 non richiama mai, a differenza dell’art. 7 citato, il fatto che attraverso di esse si sia perseguito il fine di accedere indebitamente ad un beneficio; e con l’utilizzo dell’avverbio “indebitamente” il legislatore avrebbe invece inteso proprio fare riferimento non tanto ad una volontà di accesso al beneficio messa in atto non iure – e, quindi, in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l'erogazione – quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus - in assenza degli elementi sostanziali per il suo riconoscimento.
Secondo questo indirizzo giurisprudenziale risulterebbe, pertanto, più in linea con il principio di offensività ritenere che con l’espressione «al fine di ottenere indebitamente il beneficio…» il legislatore abbia inteso tipizzare in termini di concretezza il pericolo che potrebbe derivare dalla falsità ovvero dalla incompletezza delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del reddito di cittadinanza. Sarebbe, pertanto, doverosa una specifica indagine in ordine alla legittimità sostanziale dell’accesso del soggetto richiedente il beneficio, dovendosi attribuire rilevanza penale ai soli casi di mendacio in cui l’intenzione dell’agente fosse quella di ottenere un beneficio diversamente non dovuto.
Oltre tutto, la necessità della sussistenza di un nesso funzionale tra il mendacio e l'effettiva indebita percezione del sussidio statale troverebbe conferma nel sistema dei controlli e delle verifiche delle istanze di accesso alla misura: ai sensi dell’art. 7, comma 14, L. 26/2019, l'obbligo di trasmissione all'autorità giudiziaria della documentazione amministrativa contenente i risultati delle verifiche condotte, posto a carico dei soggetti pubblici cui è affidata tale attività di vigilanza, è, infatti, previsto per le sole ipotesi in cui dalle dichiarazioni mendaci accertate sia derivato il «conseguente accertato illegittimo godimento del Rdc».
A questi due orientamenti si potrebbe affiancare un’ulteriore opzione ermeneutica, che sembra sostenere la difesa del ricorrente, che ritiene integrato il reato previsto dall’art. 7 d.l. 4/2019 solo quando la condotta dell'agente sia volta al conseguimento di una erogazione non dovuta, per carenza di almeno un requisito essenziale (assumerebbero, quindi, rilevanza penale solamente le condotte di cui al punto a) sopra individuato, e non quelle di cui al punto b).
5. La terza sezione penale della Corte di Cassazione, nell’ordinanza di rimessione, sembra preferire la seconda tra le opzioni ermeneutiche sopra sintetizzate: il primo orientamento, che ricostruisce le fattispecie dell’art. 7 citato come reati di pericolo astratto e le riconduce ad una species del genus del reato di falso, genera, infatti, a detta dei giudici di legittimità, alcune perplessità “ove si consideri che la sussistenza del semplice dolo generico, consistente nella predisposizione sic et simpliciter di un'autodichiarazione mendace, oltre a non confrontarsi con la formulazione testuale della norma, assorbe anche le ipotesi del falso cd. grossolano, tale cioè da escludere una sostanziale immutatio veri, ovvero del cd. falso innocuo ricorrente quando, secondo un giudizio da svolgersi ex ante, non v'era alcuna possibilità di offendere l'interesse protetto della fede pubblica, e lascia aperti margini di incertezza in tema di prova ove derivi da una semplice leggerezza ovvero da una negligenza dell'agente, non essendo contemplato dall'ordinamento vigente il falso documentale colposo”[6].
Risulta, pertanto, più in linea con la previsione testuale del dolo specifico, consistente nel fine di ottenere indebitamente il beneficio, la ricostruzione della fattispecie come reato di pericolo concreto. A detta della Corte, il secondo indirizzo opererebbe una parificazione della condotta decettiva ad un tentativo di truffa. Infatti, “il movente elusivo (…) si trasforma (…) in movente di profitto che, operando da elemento di selezione, include fra le condotte penalmente rilevanti solo quelle atte ad ingenerare l'inganno dell'ente erogatore attraverso il riconoscimento del beneficio, escludendo tutte le altre che, pur apparentemente analoghe alle prime, non presentino tale ulteriore capacità”[7]. Tale interpretazione, tuttavia, lascia aperto il quesito relativo al ruolo rivestito dalla P.A. “dovendo in tal caso stabilirsi se l'ente erogatore resti l'artefice, nell'esercizio del suo potere decisionale implicante, prima ancora, un controllo sulla veridicità dei dati autocertificati, dell'atto dispositivo o, invece, non venga relegato in una posizione di mera inerzia, di soggetto cioè che non può sottrarsi al mendacio, essendo obbligato a darvi seguito. Quesito questo che, a seconda della risposta data, potrebbe portare a dubitare dell'utilità del dolo specifico ove si ritenga che l'ente debba adeguarsi a qualunque falsa rappresentazione della realtà, essendo obbligato solo a constatare il contenuto dell'autodichiarazione, perché in tal caso la concreta idoneità decettiva sarebbe sempre in re ipsa”[8].
Da qui la necessità di un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, alla luce di una situazione di incertezza interpretativa potenzialmente foriera di ingiustificate disparità di trattamento.
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6. Dopo aver tratteggiato l’impianto argomentativo dell’ordinanza ed in attesa della decisione delle Sezioni Unite, si ritiene opportuno formulare alcuni rilievi conclusivi. Oltre alla necessità di sintetizzare le ragioni che inducono a ritenere preferibile, tra quelli sopra sintetizzati, l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo, l’ordinanza qui commentata impone, altresì, di svolgere alcune riflessioni sui rapporti tra le fattispecie ivi previste e quella di truffa prevista dall’art. 640bis c.p.
Rispetto all’individuazione del falso penalmente rilevante ai sensi dell’art. 7 citato, chi scrive ha già avuto modo di evidenziare[9] come non appaia affatto convincente l’opzione ermeneutica che considera integrato il reato in parola solo quando la condotta dell'agente sia volta al conseguimento di una erogazione interamente non dovuta, per carenza di almeno un requisito essenziale. Tale interpretazione, infatti, oltre a porsi in contrasto con la ratio delle fattispecie previste dall’art. 7 del d.l. 4/2019 – ovvero quella di prevenire in maniera effettiva eventuali abusi[10] nell’ottenimento della misura –, confligge, altresì, con il dato letterale della norma e, in particolare, con la previsione del termine «indebitamente» nell’inciso che richiede il dolo specifico dell’agente. Infatti, deve considerarsi “indebita” tanto l’erogazione non dovuta in assenza del mendacio, quanto l’ipotesi di ottenimento del RDC in misura superiore rispetto a quanto spettante in assenza del mendacio[11].
Rispetto alle ulteriori opzioni ermeneutiche sostenute dalla giurisprudenza di legittimità nei due orientamenti contrapposti sopra tratteggiati, è senz’altro preferibile l’orientamento più restrittivo, che fa rientrare nell’ambito applicativo delle fattispecie richiamate solo le condotte di mendacio finalizzate ad ottenere il beneficio del RDC di cui il richiedente non abbia diritto o abbia diritto in misura minore (e che considera, invece, prive di rilevanza penale tutte quelle condotte di falso che non abbiano inciso, in concreto, sull’ottenimento di un beneficio indebito).
A sostegno di tale orientamento ci paiono persuasivi diversi argomenti.
Anzitutto, il principio di offensività (in concreto) impone, in sede di sussunzione del fatto nella fattispecie incriminatrice astratta, di farvi rientrare solo quelle condotte in concreto offensive del bene o interesse che la norma tende a tutelare[12]. A tal proposito si ricorda come le fattispecie previste dall’art. 7 del d.l. 4 /2019 abbiano natura plurioffensiva, in quanto alla tutela della pubblica fede tipica dei reati di falso si affianca l'interesse a salvaguardare la volontà della PA con specifico riguardo alla distribuzione delle risorse finanziarie[13]. Appare evidente come le false dichiarazioni (o omissione di informazioni dovute) a cui consegua l’ottenimento di un beneficio in concreto non spettante al richiedente e quelle che consentano l’ottenimento del RDC in misura superiore rispetto a quanto dovuto appaiano lesive del bene giuridico della pubblica fede, e comportino un’alterazione nella distribuzione delle risorse finanziarie. Diversamente, la condotta di falso (resa ai fini dell’ottenimento del RDC), che non incide sulla sussistenza in concreto delle condizioni per l’ammissione del beneficio, non comporta certamente un’alterazione nella distribuzione delle risorse finanziarie: infatti, quanto verrebbe ottenuto in conseguenza delle false dichiarazioni (o omissioni) corrisponde esattamente a quanto si sarebbe potuto ottenere in assenza del mendacio (con la conseguenza che la falsità non porterebbe alcun effettivo nocumento per l’ente erogatore).
Rispetto al bene giuridico della pubblica fede, valgono, invece, i principi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza nell’ipotesi di falso innocuo[14], che si ha quando la falsità appare inidonea a ledere non tanto il bene giuridico della fede pubblica, quanto l’interesse tutelato dalla genuinità del documento[15]. Anche rispetto ai reati previsti dall’art. 7 d.l. 4/2019 la concreta offensività della condotta dovrebbe, quindi, essere valutata in relazione agli effetti della falsità sulla funzione documentale dell’atto medesimo. E poiché la richiesta del RDC ha il valore di attestare il possesso dei requisiti reddituali, patrimoniali e personali che consentono l’erogazione del beneficio, la falsità che, in concreto, non incida sul diritto ad ottenere il RDC (o sul quantum dovuto), dovrebbe considerarsi priva di rilevanza penale poiché innocua.
In secondo luogo, milita a favore dell’orientamento più restrittivo (e garantista) un argomento teleologico che fa perno sulla ratio legis sottesa all’introduzione delle fattispecie previste dall’art. 7 citato: in particolare, la previsione dell’elemento soggettivo del dolo specifico consistente nella finalità di ottenere indebitamente il beneficio suggerisce di restringere l’ambito applicativo della fattispecie ai soli casi in cui il soggetto attivo del reato agisca per ottenere un sussidio di cui non abbia in concreto diritto (o abbia diritto in misura inferiore rispetto a quanto ottenuto in conseguenza del mendacio).
A ciò si aggiunge un argomento letterale, costituito dal disposto dell’art. 7, comma 2, del d.l. 4/2019, che sanziona l'omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di «altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio». A parere di chi scrive, proprio l'endiadi «dovute e rilevanti» suggerisce una limitazione dei confini applicativi della fattispecie considerata ai soli dati che abbiano un'effettiva incidenza sull'ammontare del reddito di cittadinanza o sulla prosecuzione della sua erogazione[16].
Si deve poi rilevare come l’interpretazione più estensiva, che fa rientrare nell’ambito applicativo della fattispecie anche le ipotesi di c.d. falso innocuo, pone alcune perplessità in relazione ai principi di ragionevolezza-eguaglianza – poiché verrebbero parificate sul piano sanzionatorio le condotte di falso commesse per ottenere una provvista pubblica di cui non si avrebbe diritto e condotte ai confini dell’inoffensività, ovvero le false dichiarazioni per ottenere un beneficio comunque dovuto – e di sussidiarietà – poiché verrebbe inflitta la più grave delle sanzioni (quella penale) ad un soggetto effettivamente indigente, per il quale la misura è stata prevista e di cui ha in concreto diritto nella misura percepita.
A tali argomenti si aggiunge, da ultimo, un’osservazione di carattere pratico, che conduce, ancora una volta, a ritenere preferibile l’orientamento minoritario più restrittivo, connessa agli effetti che l’adozione di un’interpretazione estensiva delle maglie applicative dell’art.7 citato avrebbe sul proliferare di procedimenti penali nei confronti di soggetti che, in concreto, avevano diritto a ottenere il beneficio (nella misura percepita); procedimenti che, verosimilmente, si concluderebbero con una pronuncia assolutoria: infatti, nel caso considerato, sarebbe molto arduo fornire, in concreto, la prova del dolo specifico richiesto dalla norma, poiché si dovrebbe provare il perseguimento da parte del percettore del RDC della finalità di ottenere indebitamente il beneficio economico, a fronte del mancato conseguimento di alcun vantaggio indebito.
7. Non resta, a questo punto, che svolgere alcune considerazioni sui rapporti tra l’art. 7 d.l. 4/2019 e le fattispecie di truffa. Tali riflessioni sono, anzitutto, imposte dalla qualificazione giuridica delle condotte tenute dall’imputato, condannato, come sopra precisato, per i reati previsti agli artt. 640, comma 2, c.p. e 7 d.l. 4/2019 (la maggior gravità della fattispecie prevista dal primo comma dell’art. 7 impedisce evidentemente l’operatività della clausola di riserva in esso contenuta e impone la contestazione di entrambi i reati in concorso tra loro).
Tale qualificazione riflette la tendenza, diffusa a livello della giurisprudenza di merito, di ritenere configurabile, in luogo o in aggiunta della fattispecie prevista dall’art. 7, anche le fattispecie di truffa aggravata (l’art. 640, comma 2, n. 1 c.p. o, in alternativa, l’art. 640bis c.p.); soluzione che ha il vantaggio di consentire l’operatività dell’art. 640quater c.p., che prevede la possibilità di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente per il recupero delle somme percepite indebitamente a titolo di RDC[17].
Deve, tuttavia, per prima cosa rilevarsi come la natura del Reddito di cittadinanza quale contributo erogato dallo Stato porti ad escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, in favore della (più grave) ipotesi di truffa aggravata prevista dall’art. 640-bis c.p.[18] E il riconoscimento dell’astratta configurabilità dell’art. 640bis c.p. (in luogo dell’art. 640, comma 2, n. 1 c.p.) comporta significative conseguenze dal punto di vista sanzionatorio: come si preciserà a breve, infatti, laddove si ritengano integrati tanto gli estremi della fattispecie prevista dall’art. 7 d.l. 4/2019, quanto quelli della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, l’imputato dovrebbe essere condannato solo per quest’ultimo reato, secondo il criterio di sussidiarietà espressa.
Tanto premesso, si deve evidenziare, come si è sopra già messo in luce, che nell’ordinanza di rimessione qui commentata, la Corte affermi che, seguendo l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo, le condotte di falso finalizzate ad ottenere indebitamente il beneficio dovrebbero sempre considerarsi alla stregua di un tentativo di truffa, e sarebbe necessario, ai fini della configurazione del reato, che la condotta tenuta dal richiedente - e consistita nell’aver reso false dichiarazioni o omesso informazioni dovute – sia atta ad ingenerare l’errore dell'ente erogatore. Aggiunge la Corte che, nell’ipotesi in cui l’erogazione del beneficio sia automatica e non successiva ad un controllo della veridicità dei requisiti dichiarati da parte dell’ente erogatore, allora l’idoneità decettiva della condotta sarebbe sempre in re ipsa, rendendo inutile la previsione del dolo specifico.
In altre parole, sembra che la Corte distingua due ipotesi: 1) il caso in cui il riconoscimento dell’erogazione pubblica sia subordinato all’effettivo accertamento delle relative condizioni ad opera della competente amministrazione, 2) il caso in cui il riconoscimento dell’erogazione avvenga, almeno in via provvisoria, sulla base della mera dichiarazione del soggetto interessato, demandando ad una fase successiva l’espletamento dei necessari controlli. E solo nel primo caso, ove l’erogazione del beneficio è conseguenza di un atto dispositivo dell’ente erogatore, avrebbe senso indagare l’effettiva capacità decettiva delle condotte poste in essere dal richiedente per individuare quelle penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 7 citato. Nell’ipotesi in cui, invece, il controllo della veridicità delle dichiarazioni sia solo successivo all’erogazione (e l’ente si ponga in una situazione di “inerzia”), l’idoneità ingannatoria sarebbe insita nella condotta di mendacio.
A parere di chi scrive tali osservazioni non colgono pienamente nel segno: in realtà, l’eventuale controllo (preventivo o successivo) rispetto alla concessione del beneficio da parte dell’ente erogatore non rileva tanto in funzione selettiva delle condotte penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 7 d.l. 4/2019, quanto piuttosto quale criterio discretivo tra tale reato e la fattispecie di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche[19].
È doveroso anzitutto premettere che il procedimento di erogazione del RDC non impone il preventivo positivo espletamento delle verifiche in ordine alla sussistenza dei necessari presupposti da parte delle autorità competenti, ma lascia spazio alla possibilità di una automatica erogazione del beneficio. Più in particolare, benché l’art. 5, co. 3, d.l. 4/2019 preveda che il beneficio sia riconosciuto “ove ricorrano le condizioni”, la clausola di chiusura “in ogni caso il riconoscimento da parte dell’INPS avviene entro la fine del mese successivo alla trasmissione della domanda dell’istituto” autorizza l’erogazione del beneficio senza la previa verifica della sussistenza di tutti i presupposti di legge: come avviene di frequente nella prassi, infatti, l’INPS si limita ad abbinare i dati anagrafici del richiedente alla correlata attestazione ISEE e ad ulteriori informazioni in suo possesso e procede all’erogazione del beneficio, pur non avendo acquisito le informazioni necessarie in possesso di altre amministrazioni[20]. In questo caso, l’erogazione del beneficio non è determinata da un errore in cui incorre l’ente erogatore conseguente alla falsa dichiarazione del richiedente, poiché l’erogazione è riconosciuta automaticamente ed indipendentemente dall’accertamento della veridicità dei fatti attestati. Conseguentemente non sarà ravvisabile la fattispecie prevista dall’art. 640bis c.p., per carenza di uno dei suoi elementi costitutivi (l’induzione in errore dell’ente erogante)[21]; sarà, piuttosto, configurabile l’art. 7 d.l. 4/2019 che, tra i suoi elementi costitutivi, non annovera l’idoneità della condotta a produrre il concreto verificarsi dell’errore, né la necessità dell’induzione in errore della P.A.
Diversamente, nell’ipotesi in cui l’erogazione sia preceduta dal positivo controllo della veridicità dei requisiti dichiarati da parte della P.A., l’eventuale mendacio integrerebbe gli estremi tanto della fattispecie prevista dall’art. 640bis c.p., tanto dell’art. 7 citato; tuttavia, la clausola di riserva contenuta in quest’ultima disposizione («salvo che il fatto costituisca più grave reato») dirime il concorso tra le due norme richiamate, imponendo l’applicazione della sola truffa aggravata.
Tanto chiarito, si deve da ultimo rilevare come, in entrambi i casi individuati, nell’ipotesi in cui al richiedente, a fronte di false dichiarazioni, venga erogato un beneficio in concreto comunque dovuto, dovrebbe in ogni caso escludersi la rilevanza penale della condotta.
Nel primo caso (erogazione automatica del beneficio) restano ferme le considerazioni in tema di offensività sopra sintetizzate, che conducono a ritenere preferibile l’orientamento restrittivo adottato dalla giurisprudenza di legittimità sul falso penalmente rilevante ai sensi dell’art. 7 d.l. 4/2019 e ad escludere dalla materialità del reato le condotte che non abbiano determinato un’alterazione nella distribuzione delle risorse finanziarie. Nel caso in cui, invece, l’erogazione consegua ad errore in cui sia incorso l’ente erogatore a seguito dell’effettivo accertamento della veridicità delle informazioni dichiarate dal richiedente, l’innocuità in concreto del falso dichiarativo si traduce nell’insussistenza del requisito dell’ingiustizia del profitto con danno dell’ente erogatore previsto dall’art. 640bis c.p.
[1] Per un’analisi più approfondita delle fattispecie di reato previste dall’art. 7 del D.L. 4/2019 si rinvia a: M. Carani, Una prima lettura della disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza, in Cassazione Penale, fasc.4, 2021, pp. 1297 ss; R. Affinito, M.M. Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, in questa Rivista, 13 settembre 2021.
[2] Cfr. Cass., sez. III, 25.10.2019, n. 5289; conformi: Cass. Sez. II, 5.11.2020, n. 2402; Cass. Sez. III, 15.9.2020, n. 30302; Cass., Sez. III, 21.4.2021, n. 33808; Cass., sez. III, 9 settembre 2021, n. 33431; Cass., Sez. III, 24.9.2021, n. 5309; Cass. Sez. III, 25.11.2021, n. 1351.
[3] Cass., Sez. III, ord. 11 ottobre 2022, n. 2588, p. 4.
[4] Cfr. ex multis Cass., SU, 27.11.2008, n. 6591, che ha riconosciuto la sussistenza del reato previsto dall’art. 95 d.p.r. 112/2002 quando vengano rese false indicazioni ovvero vengano omesse informazioni dovute nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio.
[5] Cass., Sez. III, 15.9.2021, n. 44366; conforme: Cass., Sez. II, 8.6.2022, n.29910.
[6] Cass., ord. 11 ottobre 2022, n. 2588, cit., p. 7.
[7] Ibid.
[8] Ibid., p. 8.
[9] P. Brambilla, False dichiarazioni per ottenere il reddito di cittadinanza: profili di illegittimità del requisito soggettivo della residenza decennale in Italia per ottenere il beneficio e conseguenze in sede penale, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2, 2022, p. 249.
[10] In merito all’individuazione della ratio perseguita dal legislatore nella previsione di un apparato sanzionatorio tanto severo cfr.: M. Carani, op. cit., pp. 1297 ss; M. Cinelli – C.A. Nicolini, L'avvio del reddito di cittadinanza. Gli interventi in materia di pensione: non solo «quota 100». La previdenza nel nuovo codice della crisi e dell'insolvenza, in Riv. it. dir. lav., 2019, p. 96
[11] In questo senso: A. Giraldi, Reddito di cittadinanza e simbolismo strumentale: un’auspicabile deframmentazione del diritto penale, in Connessioni di diritto penale, a cura di A. Massaro, Roma, Roma TrE-Press, 2020, p. 86.
[12] Si rinvia per una trattazione più dettagliata del dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, sulla portata, i limiti e i fondamenti normativi del principio di offensività, ex multis, a: C. Fiore, Il reato impossibile, Napoli, Jovene, 1959, pp. 41 ss.; F. Mantovani, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, Giuffrè, 1977, pp. 445 ss.; G. Fiandaca, Considerazioni sul principio di offensività e sul ruolo della teoria del bene giuridico tra elaborazione dottrinale e prassi giudiziaria, in Aa.Vv., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A.M. Stile, Napoli, Jovene, 1991, 61 ss.; F. Palazzo, Meriti e limiti dell’offensività come principio di ricodificazione, Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, Milano, Giuffrè,1996; G. Neppi Modona, Il lungo cammino del principio di offensività, in AaVv, Studi in onore di Marcello Gallo, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 89 ss.; V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale. Criterio ermeneutico. Parametro di ragionevolezza, Torino, Giappichelli, 2005; C. Fiore, Il contributo della giurisprudenza costituzionale all’evoluzione del principio di offensività, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, Napoli, ESI, 2006, pp. 91 ss. E, più recentemente, a A. De Lia, “Ossi di seppia?”. Appunti sul principio di offensività, in Archivio Penale, 2, 2019.
[13] M. Carani, op. cit.., pp. 1297 ss.
[14] Sull’individuazione del bene giuridico tutelato nei reati di falso documentale, anche in relazione al principio di offensività, si rinvia a: S. Fiore, Ratio della tutela e oggetto dell’aggressione nella sistematica dei reati di falso, Napoli, Jovene, 2000, pp. 41 ss.; I. Giacona, La problematica dell’offesa nei reati di falso documentale, Torino, Giappichelli, 2007; G. Cocco, Il falso bene giuridico della fede pubblica, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2010, pp. 68 ss; R. Bartoli, Le falsità documentali, in Reati contro la fede pubblica, a cura di M. Pelissero, R. Bartoli, Torino, Giappichelli. 2011, pp. 58 ss.
[15] Cass. Pen., SU, n. 46982/2007, secondo cui «può parlarsi di falso innocuo in senso stretto, ove si voglia considerare la sua inoffensività non con riferimento al bene fede pubblica, bensì in relazione ad un interesse ulteriore e connesso, tutelato dalla singola fattispecie incriminatrice ove alla stessa si riconosca natura plurioffensiva: l'innocuità del falso, cioè, può risultare anche al di fuori delle ipotesi di falso grossolano, nel caso in cui risulti esclusa – in forza di una valutazione giudiziale in punto di diritto, questa volta, e non di fatto – l'effettiva e concreta esposizione a pericolo di quei beni ulteriori rispetto alla fede pubblica, che, per i sostenitori della tesi della plurioffensività, si assumono oggetto di tutela da parte delle fattispecie de quibus»; cfr. anche ex multis Cass., sez. V, 05.07.2021, n.25492, secondo cui «ricorre il cosiddetto falso innocuo nei casi in cui l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel caso di falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto e del suo valore probatorio e non esplicano effetti sulla sua funzione documentale»
[16] Pone in luce l’opportunità di delimitare l’ambito applicativo dell’art. 7, comma 2 del D.L. 4/2019 alle sole falsità che abbiano un'effettiva incidenza sull'ammontare del reddito di cittadinanza o sulla prosecuzione della sua erogazione: A. Cisterna, La Cassazione punisce l'omessa comunicazione della sopravvenuta custodia in carcere del figlio del percettore del reddito di cittadinanza, nota a Cass., Sez. III, 25.11.2021, n.1351, in Ilpenalista.it, 14 aprile 2022.
[17] M. De Chiara, Brevi note sui rapporti tra il reato di cui all’art. 7, co. 1, d.l. 28.01.2019, n. 4 e la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche alla luce delle prime applicazioni , in Diritto, Giustizia e Costituzione, 11 marzo 2022.
[18] Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 16568 del 27 aprile 2007, risolvendo i contrasti giurisprudenziali sorti in materia, hanno ricondotto i contributi assistenziali alla categoria delle erogazioni pubbliche. Cfr. sul punto: A. Giraldi, Reddito di cittadinanza e simbolismo strumentale: un’auspicabile deframmentazione del diritto penale, cit., pp. 91-92; M. De Chiara, Brevi note sui rapporti tra il reato di cui all’art. 7, co. 1, d.l. 28.01.2019, n. 4 e la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche alla luce delle prime applicazioni , cit.
[19] Per un approfondimento sui rapporti tra le fattispecie previste dagli artt. 7 d.l. 4/2019 e 640bis c.p. si rinvia a: R. Affinito, M.M. Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, cit., pp. 12 ss.; M. De Chiara, Brevi note sui rapporti tra il reato di cui all’art. 7, co. 1, d.l. 28.01.2019, n. 4 e la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche alla luce delle prime applicazioni , cit.
[20] M. De Chiara, Brevi note sui rapporti tra il reato di cui all’art. 7, co. 1, d.l. 28.01.2019, n. 4 e la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche alla luce delle prime applicazioni , cit.
[21] Si rinvia ai principi elaborati dalle Sezioni Unite in relazione ai rapporti tra art. 640bis c.p. e 316ter c.p. In particolare il riferimento è a Cass., SSUU, 27 aprile 2007, n. 16568 e a Cass., SSUU, 25 febbraio 2011, n. 7537, che hanno individuato la linea di demarcazione tra le due fattispecie nella ricorrenza in concreto della induzione in errore dell’ente erogatore, che si dovrebbe escludere in tutte le ipotesi in cui l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei presupposti da parte dell’ente pubblico che si rappresenta solo la formale attestazione del richiedente. Gli stessi principi valgono anche rispetto ai rapporti tra art. 640bis c.p. e art. 7 d.l. 4/2019. Per approfondimenti si rinvia ancora una volta a: R. Affinito, M.M. Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, cit., pp. 13-14.