Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. I, Isaia e altri c. Italia, 25 settembre 2025, ric. 36551/22
1. Con la sentenza Isaia e altri c. Italia, depositata il 25 settembre 2025, la Corte europea dei diritti dell’uomo torna a pronunciarsi sulla confisca di prevenzione italiana. In linea con quanto già affermato nella recente sentenza Garofalo c. Italia [1], la Corte ribadisce la compatibilità, in astratto, di questo strumento con la Convenzione, ritenendo che la confisca prevista dal d.lgs. n. 159/2011 non abbia natura punitiva, ma persegua una finalità essenzialmente ripristinatoria, volta a neutralizzare gli effetti economici dell’illecito e a prevenire forme di arricchimento ingiustificato.
Tuttavia, la pronuncia in esame segna un punto di svolta: per la prima volta, in materia di misure di prevenzione patrimoniali, la Corte accerta la violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU, ritenendo che, nel caso concreto, la confisca di prevenzione sia stata applicata in modo «arbitrario e manifestamente irragionevole», traducendosi in un’ingerenza non proporzionata nel diritto di proprietà dei ricorrenti.
La Corte sottolinea, in particolare, che perché la misura possa ritenersi compatibile con i diritti garantiti dalla Convenzione è necessario accertare l’esistenza di un nesso («link») tra i beni oggetto di ablazione e l’attività illecita del proposto, tale da rendere ragionevole la presunzione della loro origine illecita. Non può invece ritenersi sufficiente, come hanno fatto le autorità nazionali nel caso di specie, il solo rilievo della sproporzione tra il valore dei beni e i redditi leciti, senza una verifica ulteriore sull’effettiva riconducibilità dei beni a un’attività criminale.
2. Conviene innanzitutto ripercorrere, in estrema sintesi, il caso da cui ha origine la decisione: un caso le cui peculiarità – come si dirà – hanno avuto un peso determinante nel condurre la Corte EDU a riconoscere la violazione del diritto tutelato dall’art. 1 Prot. n. 1 CEDU.
Nel dicembre del 2018, il questore di Palermo propone l’applicazione del sequestro e della successiva confisca di una serie di beni, direttamente o indirettamente, nella disponibilità del primo ricorrente, ritenuto soggetto portatore di “pericolosità generica” ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. a) e b), del d.lgs. n. 159/2011 (nella versione allora vigente anteriore all’intervento operato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24/2019[2]), in quanto persona che, sulla base di elementi di fatto, doveva ritenersi abitualmente dedita a traffici delittuosi e vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di reati. Il giudizio di pericolosità generica si fondava in particolare sulle numerose condanne riportate dal proposto per reati contro il patrimonio (rapine, tentate rapine, furti, estorsioni e ricettazione) commessi prevalentemente nel periodo compreso tra il 1980 e il 1998, con un solo episodio – peraltro qualificato come tentato furto – successivo al periodo in cui il proposto era stato in carcere (1999-2006) e risalente al 2008.
I beni oggetto del provvedimento erano per lo più formalmente intestati alla moglie (seconda ricorrente) e al figlio del proposto (terzo ricorrente), ed erano stati acquistati tra il 2010 e il 2018, e pertanto dopo il periodo considerato ai fini del giudizio di pericolosità: in particolare, si trattava di un appartamento in un complesso di edilizia popolare e un magazzino acquistati dalla moglie del proposto – rispettivamente – nel 2010 e nel 2016; un terreno, una casa di civile abitazione e un’automobile acquistati dal figlio – rispettivamente – nel 2016 e nel 2018; nonché le somme depositate su conti correnti aperti dal proposto nel 1994 e 2014, dalla moglie nel 1999 e 2016, e dal figlio nel 2016.
Nel 2020, il Tribunale di Palermo accoglie la richiesta e dispone la misura di prevenzione patrimoniale. Nel motivare la decisione, i giudici valorizzano, da un lato, le pregresse condanne penali del proposto, senza tuttavia considerare che in diversi casi le sentenze avevano già disposto la confisca penale dei proventi del reato, che alcuni episodi erano meri tentativi (quindi privi di effettivo arricchimento) e che in un’occasione era stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p. per avere l’imputato, prima del giudizio, provveduto alle restituzioni e al risarcimento del danno. Dall’altro lato, il Tribunale evidenzia la sproporzione tra i redditi leciti del nucleo familiare e il valore dei beni acquisiti, ritenendo che i ricorrenti non fossero in grado di giustificarne la legittima provenienza, come non erano stati in grado di giustificare la provenienza delle somme giacenti sui loro conti correnti.
Nel 2021, la Corte d’appello conferma integralmente la decisione di primo grado, ritenendo che la sproporzione patrimoniale costituisca, da sola, un indice sufficiente per presumere l’origine illecita dei beni, a condizione che il soggetto appartenga a una delle categorie di soggetti pericolosi indicate agli artt. 1, 4 e 16 d.lgs. n. 159/2011. La Corte di cassazione, nel 2022, rigetta il ricorso proposto dai ricorrenti, escludendo che vi siano state violazioni di legge nell’applicazione della misura da parte dei giudici di merito.
3. Nel ricostruire i principi di diritto applicabili al caso, la Corte europea richiama in larga parte affermazioni già consolidate nella propria giurisprudenza, mostrando di muoversi nel solco di un orientamento interpretativo ormai ben delineato che negli ultimi anni ha riconosciuto la compatibilità, in via di principio, delle misure di confisca senza condanna con i diritti tutelati dalla Convenzione[3].
In premessa, la Corte ribadisce che ogni interferenza nel godimento del diritto di proprietà può considerarsi compatibile con l’art. 1 Prot. n. 1 CEDU a condizione che (1) sia prevista dalla legge, (2) sia finalizzata al perseguimento di un legittimo interesse di carattere generale, e (3) risulti proporzionata rispetto al perseguimento di tale interesse (cfr. § 43 della sentenza in commento).
3.1. Per quanto concerne il requisito della “previsione per legge”, la Corte osserva che, nel caso di specie, non è in discussione l’esistenza di una base legale della misura: la confisca di prevenzione è prevista dall’art. 24 del d.lgs. n. 159/2011, norma considerata dai giudici europei sufficientemente accessibile (cfr. § 62). Il nodo interpretativo riguarda piuttosto il rispetto, nel caso concreto, delle condizioni e dei limiti stabiliti dal diritto interno – e dalla relativa giurisprudenza nazionale – per l’applicazione della misura in esame (cfr. § 63). Secondo la Corte EDU, questa verifica non può essere scissa da quella relativa alla proporzionalità dell’interferenza e va dunque svolta congiuntamente a quest’ultima (cfr. § 64).
3.2. Quanto all’esistenza di un interesse generale, la Corte conferma che misure di ablazione patrimoniale applicate in assenza di condanna – e fondate sulla presunzione che determinati beni siano stati acquisiti illecitamente – perseguono indubbiamente un fine legittimo. In particolare, richiamando i propri precedenti, la Corte ribadisce che tali misure in generale – e la confisca di prevenzione italiana in particolare – mirano a far sì che il crimine non paghi e a contrastare l’arricchimento ingiustificato derivante da reati, mediante la sottrazione dei profitti illeciti a chi ne abbia beneficiato[4]. Pertanto, queste ipotesi di confisca hanno natura essenzialmente ripristinatoria e non punitiva[5] (cfr. §§ 66-67).
3.3. Quanto al requisito della proporzionalità, che riveste un ruolo decisivo nella valutazione di legittimità di una misura ablativa, la Corte sottolinea che, per garantire un giusto equilibrio tra l’interesse generale perseguito e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, è essenziale che al soggetto interessato sia assicurata un’equa opportunità di opporsi alla misura limitativa del diritto di proprietà. Qualora la disciplina applicabile imponga all’interessato un onere eccessivo, tale da compromettere la concreta possibilità di difendersi, la misura non può ritenersi proporzionata e si traduce in una violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU (cfr. § 68).
In linea di principio, la Corte ha già affermato nella propria giurisprudenza la compatibilità delle misure di confisca senza condanna con la Convenzione a condizione che siano rispettate alcune condizioni fondamentali.
In primo luogo, tra i presupposti per l’applicazione della confisca deve annoverarsi la commissione – o sospetta commissione – di reati gravi e potenzialmente idonei a generare per il loro autore un ingente arricchimento illecito. La Corte ha ritenuto, in particolare, che la compatibilità con l’art. 1 Prot. n. 1 CEDU ricorra nei casi in cui la misura patrimoniale trova fondamento nella commissione di reati quali il traffico di stupefacenti[6], la corruzione[7], il riciclaggio[8], nonché reati realizzati nel contesto della criminalità organizzata, in particolare quella di stampo mafioso[9]. Con riferimento a tali ipotesi, la Corte rileva l’esistenza di un ampio consenso, a livello europeo e internazionale, non solo sulla legittimità, ma anche sull’opportunità di prevedere strumenti di confisca che prescindano da una sentenza di condanna, si fondino su standard probatori meno rigorosi rispetto a quelli del processo penale, si estendano a beni acquistati indirettamente con proventi illeciti, e siano applicabili anche nei confronti di terzi che abbiano tratto vantaggio non in buona fede (cfr. §§ 70-72).
In secondo luogo, è necessario che le autorità nazionali accertino – anche in via presuntiva, ma con argomentazioni specifiche e circostanziate – un nesso tra i beni da sottoporre a confisca e le attività illecite poste in essere dal destinatario della misura («it [is] necessary that the domestic authorities establish a link between the assets to be confiscated and the predicate offences which had presumably been committed by the person in question»). Ciò implica, in concreto, che i giudici nazionali debbano indicare con sufficiente precisione l’attività illecita da cui si presume siano originati i beni e dimostrare, con una motivazione ragionevole, che quegli stessi beni possano costituire il provento di condotte delittuose accertate o presunte. La Corte ribadisce che una violazione delle garanzie convenzionali è stata riconosciuta in tutti quei casi in cui le autorità nazionali non abbiano dimostrato che i beni confiscati rappresentassero il prodotto di attività illecite, né abbiano svolto una valutazione adeguata rispetto alla provenienza dei singoli beni da tali attività[10] (cfr. §§ 73-74).
In terzo luogo, con riferimento alle garanzie procedurali, e in particolare allo standard probatorio applicabile, la Corte chiarisce che nei procedimenti finalizzati alla confisca senza condanna non è necessario che l’origine illecita dei beni sia dimostrata “oltre ogni ragionevole dubbio”. In questi casi, è ritenuto sufficiente il ricorso a standard probatori meno rigorosi rispetto a quelli richiesti per una condanna penale, come la “preponderance of the evidence” o un “elevato grado di probabilità” circa l’origine illecita dei beni, purché combinati con l’incapacità, da parte dell’interessato, di fornire una spiegazione plausibile in ordine alla lecita provenienza dei beni[11] (§ 76).
Tuttavia – ed è una precisazione particolarmente rilevante – l’applicazione di uno standard probatorio meno rigoroso non può tradursi in un sacrificio eccessivo dei diritti della difesa. Pertanto, in questo caso, il diritto nazionale dovrebbe prevedere limiti temporali ragionevoli entro i quali i beni possono essere sottoposti a confisca, al fine di non rendere eccessivamente gravoso per il soggetto interessato fornire la prova della legittima provenienza di beni acquisiti molti anni prima dell’avvio del procedimento. In altre parole, quanto più lungo è il tempo trascorso tra il presunto arricchimento illecito e la misura, tanto più puntuale e rigorosa deve essere la dimostrazione del nesso tra i beni e l’attività delittuosa (cfr. § 76).
Infine, la Corte ribadisce che, nell’ambito della disciplina delle confische senza condanna, gli Stati possono legittimamente prevedere che la misura si estenda a soggetti terzi (come familiari, conviventi o prestanome) qualora vi siano elementi che rendano ragionevole presumere che i beni siano stati fittiziamente intestati a tali soggetti al solo fine di sottrarli alla misura ablativa[12]. In questi casi, può ritenersi conforme alla Convenzione un meccanismo che ponga in capo al terzo l’onere di dimostrare la legittima provenienza del bene o l’assenza di legami con l’attività illecita. Resta tuttavia fermo – precisa la Corte – che la presunzione di origine illecita non può fondarsi esclusivamente sulla sproporzione tra valore dei beni e redditi leciti, ma è sempre necessaria una valutazione in concreto e individualizzata, che dia conto del collegamento tra i beni e specifiche condotte delittuose (cfr. § 77).
3.4. Nel ricostruire i principi di diritto applicabili al caso in esame, la Corte riserva ampio spazio alla propria recente decisione nel caso Garofalo e altri c. Italia [13], richiamandola testualmente in più passaggi e dichiarando di voler aderire alle conclusioni già raggiunte in quella sede. In quella pronuncia, la Corte aveva individuato quattro condizioni la cui sussistenza consente di escludere la natura punitiva della confisca di prevenzione: (i) il fatto che essa possa colpire solo beni di sospetta origine illecita; (ii) la necessaria proporzionalità tra il valore dei beni confiscati e i proventi dei reati ipotizzati; (iii) la circostanza che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza interna, la misura sia limitata ai beni acquisiti nel periodo in cui l’interessato è stato ritenuto coinvolto in attività criminose idonee a generare profitti illeciti; (iv) e, infine, il fatto che la confisca si applichi ai soli profitti e non al mero “prodotto” del reato (cfr., in particolare, § 75 della sentenza in commento).
Solo in presenza di queste condizioni – sottolinea la Corte – la misura può ritenersi finalizzata a neutralizzare l’arricchimento illecito e, in quanto tale, compatibile con l’art. 1 Prot. n. 1 CEDU. In difetto, essa perde il suo carattere meramente ripristinatorio e si traduce in un’ingerenza non giustificata nel diritto di proprietà.
4. Ricostruito in questi termini il quadro dei principi applicabili, la Corte conclude che, nel caso concreto, l’ingerenza sul diritto di proprietà dei ricorrenti non ha rispettato il requisito della proporzionalità e che la confisca si sia risolta in una limitazione arbitraria del loro diritto fondamentale di proprietà in violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU.
Innanzitutto, la Corte rileva che i giudici nazionali non hanno dimostrato in modo adeguato che il primo ricorrente avesse preso parte ad attività delittuose idonee a generare profitti illeciti. I giudici interni si sono limitati a constatare che l’interessato era stato condannato, nell’arco di oltre due decenni, per una serie di reati contro il patrimonio, senza tuttavia fornire alcuna plausibile spiegazione sul motivo per cui il procedimento finalizzato alla confisca fosse stato avviato solo nel 2018, dieci anni dopo la cessazione del periodo di pericolosità (1980-2008), e senza neppure argomentare in ordine all’effettiva idoneità delle condotte contestate a produrre un arricchimento illecito.
La Corte sottolinea, in particolare, che molte di queste condanne riguardavano reati solo tentati – e dunque, per definizione, privi di un effettivo profitto –, che in diversi casi era già stata disposta la confisca dei proventi del reato in sede penale e che, in almeno un’occasione, era stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62, co. 1, n. 6, c.p., per avere il primo ricorrente integralmente risarcito il danno prima del giudizio, mediante restituzioni e risarcimento. Nel loro insieme, questi elementi minano la premessa – decisiva per la legittimità della misura – secondo cui il primo ricorrente avrebbe effettivamente tratto un arricchimento illecito dalle attività delittuose cui ha preso parte (cfr. §§ 82-83).
In secondo luogo, la Corte osserva che i beni oggetto della misura sono stati acquistati tra il 2010 e il 2018, dunque non solo dopo la cessazione del periodo di pericolosità (collocato, come si è detto, tra il 1980 e il 2008), ma a distanza di moltissimi anni dall’ultima condotta – risalente al 1998 – per la quale il proposto era stato condannato e che poteva ritenersi astrattamente idonea a generare profitti illeciti (dopo quella data, l’unico ulteriore episodio risulta essere un tentato furto, commesso nel 2008).
Nonostante ciò, i giudici nazionali hanno ritenuto sufficiente fondare la misura sulla sola sproporzione tra redditi leciti e valore dei beni acquistati, senza offrire alcuna plausibile dimostrazione del nesso tra tali beni e la risalente attività delittuosa del primo ricorrente. In questo modo, secondo la Corte, le autorità nazionali non solo hanno imposto una limitazione del diritto di proprietà non proporzionata ai sensi dell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU, ma non hanno rispettato neppure i limiti posti dal diritto interno per l’applicazione della misura. In base a un orientamento consolidato della giurisprudenza italiana, infatti, la confisca di prevenzione può essere disposta solo con riferimento a beni acquisiti nel periodo in cui si è manifestata la pericolosità del proposto, oppure a beni acquistati successivamente, ma con risorse generate in quel medesimo periodo[14] (cfr. §§ 86-88).
Infine, la Corte rileva che la confisca ha colpito in prevalenza beni formalmente intestati a terzi (la moglie e il figlio del proposto), senza che i giudici abbiano tuttavia spiegato perché quei beni potessero considerarsi nella disponibilità effettiva del primo ricorrente. Non solo: nessuna argomentazione è stata spesa in ordine alla eventuale provenienza illecita delle risorse utilizzate per l’acquisto di quei beni, né è stato accertato alcun legame con l’attività illecita del proposto. I giudici si sono limitati a constatare che i soggetti cui i beni risultavano formalmente intestati non disponevano di redditi leciti sufficienti a giustificare l’acquisto di tali beni. Secondo la Corte, una simile motivazione è del tutto insufficiente a consentire l’applicazione della misura nei confronti di terzi, in violazione, anche sotto questo profilo, non solo della Convenzione, ma degli stessi principi fissati dal diritto interno[15] (cfr. §§ 89-90)
Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte conclude che le decisioni dei giudici nazionali presentano carenze motivazionali «così gravi e manifestamente incompatibili con le limitazioni e le garanzie previste dal diritto interno» da dover considerare la misura adottata in modo arbitrario e manifestamente irragionevole (cfr. § 91).
In ogni caso, anche a voler prescindere da tali violazioni – che da sole sarebbero già sufficienti a escludere la sussistenza di un’adeguata base legale –, la Corte ritiene comunque decisivo rilevare che due elementi, da soli, bastano a far ritenere non proporzionata l’ingerenza nel diritto al pacifico godimento dei beni riconosciuto dall’art. 1 Prot. n. 1 CEDU: il notevole intervallo di tempo trascorso tra il periodo di pericolosità e l’adozione della misura e la mancata dimostrazione di un nesso tra i beni oggetto di ablazione e l’attività illecita del proposto. Tali circostanze, già prese singolarmente, escludono che la misura abbia rispettato il “giusto equilibrio” tra interesse generale e diritti individuali che l’art. 1 Prot. n. 1 esige affinché una limitazione del diritto di proprietà possa dirsi legittima (cfr. § 92).
La Corte giunge così a constatare che la confisca disposta nei confronti dei ricorrenti ha comportato una violazione dell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU.
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5. Rinviando a più ampi e approfonditi commenti che questa pronuncia certamente è destinata a suscitare, ci limitiamo in questa sede a formulare tre cursorie osservazioni “a caldo”.
5.1. La prima riguarda la portata del principio di fondo affermato dai giudici di Strasburgo con questa decisione. A prescindere da ogni valutazione sull’effettiva sussistenza delle carenze motivazionali rilevate dalla Corte nel caso oggetto del ricorso – e va segnalato, per inciso, che in un’ampia e articolata opinione dissenziente il giudice Sabato ne ha contestato in radice l’esistenza[16] –, la sentenza merita attenzione perché contribuisce a fissare con rigore i contorni di un limite fondamentale all’uso delle presunzioni e delle inversioni dell’onere della prova nei procedimenti di prevenzione patrimoniale.
Per quanto la Convenzione non precluda al legislatore nazionale di adottare simili meccanismi nei procedimenti volti alla confisca di proventi illeciti al di fuori del processo penale, tali strumenti non possono tradursi in automatismi che consentano di colpire un intero patrimonio sproporzionato. Non è compatibile con la Convenzione un meccanismo presuntivo che assuma come regola generale che ogni bene nella disponibilità di un soggetto “pericoloso”, quando sia sproporzionato rispetto al suo reddito lecito, debba presumersi di origine illecita.
Troppo spesso, nella prassi applicativa delle misure di prevenzione patrimoniali, i giudici si affidano a scorciatoie presuntive, e l’accertamento si risolve nella semplice constatazione di una sproporzione patrimoniale che si assume, per ciò solo, rivelatrice dell’origine illecita dei beni. La sentenza della Corte EDU rappresenta, in questo senso, un monito severo rivolto ai giudici nazionali affinché i limiti e i requisiti imposti dalla stessa giurisprudenza di legittimità – in primo luogo, la necessaria correlazione temporale tra l’epoca di acquisizione dei beni e il periodo in cui si è manifestata la pericolosità – siano presi davvero sul serio.
Prendere sul serio questi limiti significa – tra l’altro – accertare, sulla base di un quadro probatorio chiaro e convincente, che il soggetto ha partecipato a un’attività delittuosa tipicamente idonea a generare un arricchimento illecito e che i beni oggetto della misura costituiscono, con ragionevole probabilità, il frutto di tale attività. E, nel caso di beni formalmente intestati a terzi, è necessario dimostrare, sulla base di un analogo standard, che tali beni erano in realtà nella disponibilità del soggetto coinvolto nell’attività illecita, e che il loro acquisto sia avvenuto in un periodo temporalmente contiguo a quello in cui tale attività si è svolta o comunque risulti causalmente riconducibile ai proventi dell’attività criminosa.
5.2. La seconda osservazione riguarda il rilievo che assume, anche in assenza di una qualificazione della confisca in termini di sanzione penale, lo statuto garantistico ricavabile dall’art. 1 Prot. n. 1 CEDU che presiede ogni misura che incide su diritti patrimoniali. Il fatto che la confisca di prevenzione sia qualificata – anche dalla giurisprudenza di Strasburgo – come misura a carattere non penale, sottratta dunque al perimetro applicativo degli artt. 6 § 2 e 7 CEDU, non implica affatto un arretramento delle garanzie[17]. Al contrario, come la pronuncia in commento dimostra in modo plastico, il riconoscimento della natura essenzialmente ripristinatoria della confisca e la sua riconduzione all’ambito di applicazione dell’art. 1 Prot. n. 1 CEDU comportano l’applicazione di vincoli e garanzie che, in termini di tutela dei diritti individuali, non sono meno rigorosi di quelli che deriverebbero dal riconoscimento della natura penale della misura.
In particolare, la confisca soggiace al principio di legalità al pari delle sanzioni penali. L’art. 1 Prot. n. 1 CEDU esige infatti che qualsiasi ingerenza nel diritto di proprietà sia prevista dalla legge: ciò implica che un provvedimento ablativo disposto in assenza di un’adeguata base legale – o in difformità rispetto ai presupposti dalla stessa stabiliti – rappresenterebbe, di per sé, una violazione della Convenzione.
Inoltre, in forza del secondo paragrafo della norma, ogni misura che comporti una limitazione del diritto di proprietà deve perseguire uno scopo legittimo e rispettare un “giusto equilibrio”. Ne consegue che anche la confisca di prevenzione, pur non avendo natura sanzionatorio-punitiva, deve essere applicata nel rispetto di questi limiti: non può tradursi in una compressione arbitraria del diritto di proprietà, né può essere adottata senza che sia verificato il raggiungimento di un equilibrio ragionevole tra l’interesse pubblico perseguito dalla misura (in particolare, quello di impedire che il crimine produca vantaggi economici) e l’esigenza di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (compreso il diritto al pacifico godimento dei propri beni).
5.3. La terza e ultima considerazione muove invece da una possibile ambiguità interpretativa che investe il requisito, posto dalla Corte, del necessario collegamento tra il bene da confiscare e il reato presupposto. Come si è visto, l’intero impianto argomentativo della pronuncia muove dalla premessa secondo cui sarebbero compatibili, in via di principio, con la Convenzione forme di confisca senza condanna a condizione che sia stabilito un collegamento tra i beni oggetto di confisca e i reati presupposto che si assume siano stati commessi dalla persona in questione. Si legge, testualmente, al § 70, che: «The Court has already recognised the compatibility, in principle, with the Convention of procedures for the confiscation of property in the absence of a conviction establishing the guilt of the accused persons, where such property was linked to the alleged commission of various serious offences entailing unjust enrichment». Similmente, al § 73, viene precisato che: «[I]t [is] necessary that the domestic authorities establish a link between the assets to be confiscated and the predicate offences which had presumably been committed by the person in question».
Dietro a queste affermazioni si annida, però, un possibile equivoco interpretativo. A quale tipo di “collegamento” allude la Corte europea? Il giudice nazionale deve dimostrare l’esistenza di un nesso con una specifica condotta delittuosa, individuata nelle sue precise coordinate spazio-temporali, o con una più ampia e articolata attività illecita alla quale si ha motivo di ritenere che il soggetto abbia preso parte?
In più passaggi, la Corte sembra suggerire che il giudice nazionale sia tenuto ad accertare l’esistenza di un collegamento – diretto o indiretto – tra ciascun bene da sottoporre a confisca e una specifica condotta delittuosa, già accertata in sede penale ovvero ricostruita puntualmente nel procedimento di prevenzione[18]. Che questa sia la lettura del requisito proposta dai giudici europei è confermato dalle censure che gli stessi giudici muovono alla decisione adottata dalle autorità italiane nel caso oggetto del ricorso: la Corte, infatti, ritiene che in quel caso non vi fosse alcuna possibilità di ricondurre i beni confiscati ai reati oggetto delle precedenti condanne del proposto perché molte di queste condanne riguardavano reati solo tentati, dai quali nessun profitto poteva essere stato tratto, ovvero reati il cui profitto era già stato oggetto di confisca o di restituzione all’esito del giudizio penale.
Una simile interpretazione, però, finisce per restringere in modo significativo l’ambito di operatività della confisca di prevenzione, riducendola di fatto a mero surrogato della confisca penale, attivabile nei soli casi in cui l’autorità giudiziaria, pur non essendo riuscita a ottenere una condanna, sia comunque in grado di ricostruire in modo preciso uno specifico episodio delittuoso. Tuttavia, una simile lettura, che postula l’individuazione di un nesso diretto con un reato specifico, mal si concilia con la logica propria della confisca di prevenzione – e, più in generale, di tutte le ipotesi di non-conviction-based confiscation e di confisca allargata previste in diverse legislazioni europee e riconosciute anche a livello sovranazionale – che si fonda su un diverso paradigma probatorio. L’elemento qualificante di queste misure non è, infatti, la possibilità di riferire il singolo bene a un episodio criminoso specifico, accertato in sede giudiziale, ma l’esistenza di un quadro indiziario sufficientemente solido che consenta al giudice di affermare, in termini di ragionevole probabilità, che quel bene sia riconducibile a una più ampia e sistematica attività illecita alla quale il soggetto ha effettivamente preso parte.
In questa prospettiva, anche la condanna per uno o più reati determinati dai quali non è derivato alcun arricchimento specifico può costituire un elemento sintomatico della partecipazione del soggetto a un’attività delittuosa più estesa, non interamente emersa in sede giudiziale, ma che ha comunque, verosimilmente, generato un illecito arricchimento patrimoniale[19]. L’onere che si dovrebbe porre a carico del giudice nazionale non è allora quello di “tracciare” ogni bene che si intende confiscare sino a uno specifico fatto di reato, ma di fornire una ricostruzione chiara e convincente del collegamento tra il bene oggetto della misura e un’attività illecita che, pur non accertata secondo gli standard del processo penale, si ha motivo di ritenere sia stata svolta dal soggetto interessato.
Sotto questo profilo, proprio il caso deciso dalla Corte con la sentenza in commento avrebbe potuto prestarsi a rappresentare un esempio paradigmatico di applicazione di tale standard. Le numerose condanne per delitti contro il patrimonio riportate dal primo ricorrente nell’arco di oltre un ventennio avrebbero potuto rappresentare, se valutate nel loro insieme, un indizio significativo della sua partecipazione a un’attività illecita continuativa, non integralmente emersa in sede penale, ma potenzialmente generatrice di ingenti arricchimenti illeciti. Rimaneva naturalmente da dimostrare – e la Corte europea rileva che sul punto nulla è stato detto dai giudici nazionali – che i beni nella disponibilità del ricorrente e dei suoi familiari in misura non proporzionata al loro reddito lecito fossero effettivamente riconducibili a tale attività. Una dimostrazione tutt’altro che agevole, dal momento che l’acquisto di quei beni era avvenuto in un periodo temporalmente distante dalla cessazione della pericolosità, e lontanissimo dai primi indizi della partecipazione del ricorrente a quell’attività illecita sulla quale si fondava il giudizio di pericolosità.
[1] Corte EDU, Sez. I, Garofalo c. Italia, 13 febbraio 2025, ric. 47269/18, annotata in questa Rivista da S. Finocchiaro, “Garofalo e altri c. Italia”: la Corte EDU afferma la legittimità della confisca di prevenzione e ne riconosce, per la prima volta, la natura ripristinatoria.
[2] Corte cost., sent. 24 gennaio 2019 (dep. 27 febbraio 2019), n. 24, con nota, tra gli altri, di S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza de Tommaso della Corte Edu, in Dir. pen. cont., 4 marzo 2019; V. Maiello, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra legalità costituzionale e interpretazione tassativizzante, in Giur. cost., 2019, 332; Fr. Mazzacuva, L’uno due dalla Consulta alla disciplina delle misure di prevenzione: punto di arrivo o principio di un ricollocamento sui binari costituzionali?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 987.
[3] Per un’analitica ricostruzione di questo orientamento giurisprudenziale sia consentito il rinvio a T. Trinchera, Dalla prevenzione alla restituzione dell’arricchimento illecito. La giurisprudenza della Corte EDU sulla confisca senza condanna, in Dir. pen. proc., 2025, in corso di pubblicazione (ivi anche per puntuali riferimenti alla giurisprudenza pertinente).
[4] In generale, con riferimento a misure di confisca “senza condanna” aventi ad oggetto beni di sospetta provenienza illecita, cfr. Corte EDU, Sez. IV, Gogitidze e altri c. Georgia, 12 maggio 2015, ric. n. 36862/05, §§ 101-103. Con specifico riferimento alla confisca di prevenzione italiana, cfr. la già citata Corte EDU, Garofalo c. Italia, cit., §§ 133-134.
[5] Si tratta peraltro di una soluzione timidamente proposta, in tempi recenti, anche da una parte della dottrina italiana: cfr. S. Finocchiaro, Confisca di prevenzione e civil forfeiture: alla ricerca di un modello sostenibile di confisca senza condanna, Milano, Giuffrè, 2022, 427 ss.; F. Viganò, Riflessioni sullo statuto costituzionale e convenzionale della confisca “di prevenzione” nell’ordinamento italiano, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora. Fra attualità e tradizione – Studi in onore di Emilio Dolcini, II, Milano, Giuffrè, 2018, 903 ss.; nonché, volendo, T. Trinchera, Confiscare senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, Torino, Giappichelli, 2020, 390 ss. Riconosce alla confisca antimafia una “nuova” vocazione ripristinatoria (o, meglio, di recupero dei proventi illeciti) che, tuttavia, conviverebbe anche con l’originaria dimensione preventiva, A. Costantini, La confisca nel diritto della prevenzione, Torino, Giappichelli, 2022, 371 ss.
[6] La Corte richiama in particolare Corte EDU (dec.), Sez. III, Butler c. Regno Unito, 27 giugno 2002, ric. 41661/98, Corte EDU (dec.), Sez. IV, Webb c. Regno Unito, 10 febbraio 2004, ric. 56054/00; Corte EDU, Sez. I, Saccoccia c. Austria, 18 dicembre 2008, ric. 69917/01, §§ 87-91.
[7] La Corte richiama in particolare Corte EDU, Gogitidze e altri c. Georgia, cit., §§ 103-114.
[8] La Corte richiama in particolare Corte EDU, Sez. III, Balsamo c. San Marino, 8 ottobre 2019, ric. 20319/17, §§ 89-95; Corte EDU, Sez. I, Zaghini c. San Marino, 11 maggio 2023, ric. 3405/21, §§ 60-71.
[9] La Corte richiama in particolare Corte EDU, Sez. II, Silickiene c. Lituania, 10 aprile 2012, ric. 20496/02, §§ 60-70; nonché, con riferimento alla criminalità organizzata di stampo mafioso, Corte EDU (dec.), Raimondo c. Italia, 6 dicembre 1991, ric. 12954/87, § 16-30; Corte EDU (dec.), Sez. II, Arcuri e altri c. Italia, 5 luglio 2001, ric. 52024/99; e Corte EDU (dec.), Sez. IV, Morabito e altri c. Italia, 7 giugno 2005, ric. 58572/00.
[10] In questo senso, in particolare, Corte EDU, Sez. IV, Todorov e altri c. Bulgaria, 13 luglio 2021, ric. 50705/11, §§ 212, 215, 217-250, ampiamente richiamata anche dalla sentenza qui in commento.
[11] Si tratta di affermazioni già formulate dai giudici di Strasburgo. Cfr., ad esempio, Corte EDU, Balsamo c. San Marino, cit., § 91; Corte EDU, Sez. IV, Telbis e Viziteu c. Romania, 26 giugno 2018, ric. 47911/15, § 68, entrambe citate anche dalla sentenza qui in commento.
[12] Anche in questo caso si tratta di un orientamento ricorrente nella giurisprudenza della Corte europea. Tra i numerosi precedenti citati anche dalla sentenza qui in commento, cfr., ad esempio, Corte EDU, Gogitidze e altri c. Georgia, cit., § 107; Corte EDU, Telbis e Viziteu c. Romania, cit., § 68.
[13] Si tratta della pronuncia già richiamata sopra Corte EDU, Sez. I, Garofalo c. Italia, 13 febbraio 2025, ric. n. 47269/18.
[14] Orientamento consolidato a partire da Cass., Sez. Un. pen., 26 giugno 2014 (dep. 2 febbraio 2015), n. 4880, Spinelli, annotata, tra gli altri, da R. Bartoli, La confisca di prevenzione è una sanzione preventiva, applicabile retroattivamente, in Giur. it., 2015, 971 ss; M. Di Lello Finuoli, «Tutto cambia per restare infine uguale». Le Sezioni Unite confermano la natura preventiva della confisca ante delictum, in Cass. pen., 2015, 3520 ss.; V. Maiello, La confisca di prevenzione dinanzi alle Sezioni Unite: natura e garanzie, in Dir. pen. proc., 2015, 722 ss.; A.M. Maugeri, Una parola definitiva sulla natura della confisca di prevenzione? Dalle Sezioni Unite Spinelli alla sentenza Gogitidze della Corte EDU sul civil forfeiture, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 922 ss.; Fr. Mazzacuva, Le Sezioni Unite sulla natura della confisca di prevenzione: un’altra occasione persa per un chiarimento sulle reali finalità della misura, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 4/2015, 231 ss. Si veda poi Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 2018 (dep. 27 marzo 2018), n. 14165, Alma, con nota di D. Albanese, Confisca di prevenzione: smussato il requisito della “correlazione temporale”, in Dir. pen. cont., 4/2018, 193 ss. (che estende il requisito della “correlazione temporale”, affermando che sono confiscabili non soltanto i beni acquistati nel periodo in cui si è manifestata la pericolosità del proposto, ma anche quelli entrati nel suo patrimonio in un momento successivo, qualora risulti che tali beni siano stati acquisiti con provviste accumulate durante il periodo di pericolosità). Per ulteriori, e più approfondite, considerazioni su tale requisito, cfr. S. Finocchiaro, Confisca di prevenzione, cit., 122 ss.
[15] Sul punto, va tuttavia segnalato che la Corte EDU si limita a richiamare la disciplina positiva dettata dall’art. 26 del d.lgs. n. 159/2011, senza tuttavia considerare che, nella giurisprudenza nazionale, l’onere di dimostrare il carattere fittizio dell’intestazione non opera con eguale rigore nei confronti di tutti i terzi intestatari. Secondo un orientamento consolidato, infatti, nei confronti del coniuge, dei figli e dei conviventi del proposto, la disponibilità dei beni formalmente intestati è legittimamente presunta – anche in assenza di specifici accertamenti – qualora emerga la mancanza di risorse economiche proprie del terzo. Solo nei confronti degli altri soggetti è invece necessario acquisire elementi di prova chiari, precisi e coerenti sul carattere fittizio dell’intestazione. Cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, 11 gennaio 2023 (dep. 9 marzo 2023), n. 10063, Mancuso; Cass. pen., Sez. I, 10 novembre 2015 (dep. 9 febbraio 2016), n. 5184, Trubchaninova.
[16] Cfr., in particolare, §§ 29-42 dell’opinione dissenziente del giudice Raffaele Sabato.
[17] Sia consentito, per una più ampia riflessione sul punto, il rinvio a T. Trinchera, Confiscare senza punire?, cit., 428.
[18] Secondo alcuni autori, una simile lettura sarebbe stata accolta – almeno implicitamente – anche dalla Corte costituzionale italiana nella già citata sentenza n. 24 del 2019, là dove afferma che «l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare». Una tale impostazione, che esigerebbe un accertamento positivo della derivazione dei beni dalle attività criminose che hanno determinato l’inquadramento del proposto in una delle fattispecie di pericolosità previste dalla legge, è stata generalmente valutata in termini critici. Cfr., sia pure con diversità di accenti, F. Basile, Manuale delle misure di prevenzione. Profili sostanziali, II ed., Torino, Giappichelli, 2021, 181; A.M. Maugeri, P. Pinto de Albuquerque, La confisca di prevenzione nella tutela costituzionale multilivello, in questa Rivista, 29 novembre 2019, 40; M. Pelissero, Le misure di prevenzione, in DisCrimen, 13 febbraio 2020, 19.
[19] Sul ruolo “sintomatico” delle condotte ricomprese nella fattispecie di pericolosità generica – e, più in generale, sulla funzione probatoria della fattispecie-presupposto – si vedano le lucide considerazioni di D. Albanese, Cosa giudicata e confisca di prevenzione, Milano, Giuffrè, 2024, 113‑118, 352 ss., in particolare 355.