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  Recensione  
06 Settembre 2024


“Cosa giudicata e confisca di prevenzione”: un’interessante nuova prospettiva per rilanciare la costruzione del “giusto processo al patrimonio”

Recensione a D. Albanese, Cosa giudicata e confisca di prevenzione, Giuffrè, 2024



1. Parafrasando le parole del professor Keating nel celebre film “L’attimo fuggente”, è proprio quando si crede di sapere qualcosa che la si deve guardare da un’altra prospettiva. Ebbene, il lavoro monografico di Dario Albanese nasce da un’intuizione che sembra proprio ispirarsi a queste parole. L’autore, infatti, si occupa di un tema – quello delle misure di prevenzione – senz’altro già conosciuto e oggetto di una letteratura ormai piuttosto ampia, che viene però affrontato da una prospettiva originale, rivelatasi infine un punto di osservazione privilegiato: il rapporto tra giudicato e confisca di prevenzione.

Diverse le ragioni per le quali l’autore sceglie di soffermarsi su questa singola “tessera” di quello che lui stesso definisce un “complesso mosaico”: tra queste, il peso dogmatico di tale istituto, da sempre legato a doppio filo con la stessa idea di giurisdizione, lo spessore degli interessiindividuali e pubblicistici – che esso è proteso a salvaguardare, nonché la sua pregnanza sistematica.

In effetti, una delle questioni nevralgiche del processo di prevenzione è l’individuazione del suo oggetto, cioè della res iudicanda. Questione alla quale l’autore offre una risposta molto precisa nell’ultimo capitolo, proprio muovendo dal punto di osservazione prescelto, la res iudicata.

Il percorso attraverso il quale vi giunge, articolato e approfondito, si sviluppo lungo sei capitoli che è interessante ripercorrere sinteticamente.

 

2. Il primo capitolo, intitolato “Posizione del problema”, inquadra nelle coordinate teoriche di riferimento l’interrogativo da cui ha preso l’abbrivio l’indagine: cosa succede una volta che il provvedimento con cui si chiude il processo volto all’applicazione della confisca di prevenzione diviene inoppugnabile?

In ogni processo giurisdizionale, l’inoppugnabilità del provvedimento conclusivo fa sì che il risultato del processo divenga “incontrovertibile” e “irretrattabile”, e ciò grazie all’“autorità di cosa giudicata” assunta dal provvedimento stesso[1].

L’autore si domanda dunque se e in quale misura anche il risultato del processo volto all’applicazione della confisca di prevenzione divenga “irretrattabile” e “incontrovertibile”. Del resto, tale è il legame tra giudicato e giurisdizione che secondo autorevole dottrina tra l’uno e l’altra sussisterebbe «una correlazione necessaria e indissolubile»[2], e da più parti si mette in luce il fondamento costituzionale del primo, anche al di fuori della materia penale[3].

Si tratta di una problematica giovane, in quanto le misure di prevenzione si sono affrancate dal diritto amministrativo – di per sé incompatibile col concetto di giudicato – a partire dalla metà degli anni Cinquanta, e la confisca è stata innestata solo nel 1982 in un rito giovane e per molti aspetti lacunoso. Ma è una problematica che oggi può – e merita di – essere affrontata, data la ormai pacifica natura giurisdizionale del processo di prevenzione[4].

L’autore lo fa anzitutto chiarendo che lo strumento tecnico mediante il quale la cosa giudicata dovrebbe assicurare l’incontrovertibilità del risultato del processo nel rito preventivo è il divieto di un secondo giudizio sul medesimo oggetto del primo processo (ne bis in idem), presente sia nella fisionomia della cosa giudicata penale, di cui rappresenta l’effetto “tipico”[5], sia in quella della cosa giudicata civile, di cui rappresenta un effetto “insufficiente”, essendo affiancato da un “effetto positivo” per i casi in cui il secondo processo verta su una lite non identica, bensì dipendente da quella già giudicata[6]. Dal momento che la contrapposizione tra Stato e individuo che anima il rito preventivo somiglia ontologicamente più a quella del processo penale che a quella del processo civile, l’autore individua proprio nel ne bis in idem l’effetto “naturale” della relativa cosa giudicata[7].

 

3. Il secondo capitolo è dedicato all’illustrazione di come il (divieto di) bis in idem si atteggi oggi nel processo di prevenzione, attraverso una ricostruzione diacronica dello stato dell’arte giurisprudenziale, scandita in tre tappe essenziali, rappresentate in particolare dalla sentenza Simonelli del 1996, dalla sentenza Madonia del 2001 e dalla sentenza Galdieri del 2009, che hanno di fatto favorito il delinearsi  di un “giudicato di prevenzione” particolarmente “cedevole”, come lo conosciamo oggi[8].

Il capitolo si chiude quindi con un utile riepilogo dello stato dell’arte, che può essere sintetizzato come segue: valorizzando in particolare la previsione che consente la modifica e la revoca del provvedimento applicativo delle misure di prevenzione personali (in passato art. 7, co. 2, l. n. 1423/1956, poi recepito dall’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 159/2011)[9], la giurisprudenza ha iniziato ad ammettere la celebrazione di nuovi processi in presenza di un qualsiasi novum – identificato con una semantica ora “fattuale” (“elementi di fatto”, “fatti nuovi”, etc.), ora “probatoria” (“elementi indiziari”, “prove nuove”, etc.)[10] –  che consenta di effettuare una nuova valutazione della “pericolosità” del soggetto[11], e tale quadro viene argomentato richiamando la clausola “rebus sic stantibus”, la categoria dei provvedimenti “allo stato degli atti” e il principio di “preclusione”, peraltro utilizzati come concetti sinonimici[12].

 

4. Il terzo capitolo è volto a contestualizzare lo stato dell’arte nell’attuale quadro normativo, il quale ha subito importanti modifiche da quando – nel 1996 per la prima volta – le Sezioni unite hanno raggiunto l’approdo poi ripreso tralatiziamente dalle massime degli anni successivi.

Il primo focus è dedicato al concetto di pericolosità, che nell’impostazione giurisprudenziale rappresenta l’oggetto delle “nuove valutazioni” che legittimano l’instaurazione di plurimi processi. Al riguardo, si osserva che la pericolosità in senso stretto – intesa quale prognosi circa la futura commissione di reati[13] – ha giocato un ruolo nella disciplina della confisca di prevenzione soltanto fino al 2008-2009, quando l’ablazione patrimoniale presupponeva l’applicazione di una misura di prevenzione personale[14]. Dall’approvazione dei c.d. pacchetti sicurezza, invece, la confisca può essere disposta «indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto» (art. 18, co. I, d.lgs. n. 159/2011). Di pericolosità, tuttavia, continua ancora a parlarsi nell’elaborazione giurisprudenziale, ma – come sottolinea l’autore – solo impropriamente[15]. Invero, quando si afferma che è tuttora necessario che il proposto fosse “pericoloso” al momento dell’acquisto del bene oggetto di domanda ablatoria, si intende semplicemente che egli deve risultare aver commesso condotte sussumibili in una delle fattispecie-presupposto di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n.159/2011. Soffermandosi su tale presupposto della confisca, e valorizzando in particolare il requisito giurisprudenziale della “correlazione temporale” – che altro non è se non un suo “attributo cronologico” –, l’autore osserva che esso riveste un ruolo essenzialmente probatorio: le condotte delittuose tenute dal proposto servono, cioè, a corroborare la presunzione di origine illecita dei beni acquistati nel medesimo periodo[16].

Il secondo focus riguarda l’art. 7, co. II, l. n. 1423/1956 (oggi art. 11, co. 2, d.lgs. n. 159/2011) che ha in passato legittimato – mediante uno sforzo interpretativo della giurisprudenza – una revoca ex tunc “in funzione di revisione”, al fine di assicurare la riparazione degli errori giudiziari[17].

Con l’approvazione del c.d. codice antimafia, però, il legislatore ha predisposto un rimedio ad hoc per la revoca delle confische ab origine illegittime: si tratta della revocazione di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159/2011, individuato quale referente normativo da cui emerge l’esistenza di un vero e proprio “giudicato di prevenzione”, locuzione che compare anche nella più recente giurisprudenza di legittimità[18]. Un giudicato che peraltro si presenta particolarmente resistente, per certi versi simile a quello civile: il riferimento corre alla recente sentenza con cui le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affermato che può considerarsi “prova nuova” rilevante ai fini della revocazione della confisca (art. 28, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011) soltanto «quella deducibile e non dedotta nell’ambito del [...] procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore»[19]. Sul privato graverebbe dunque un severo onere dimostrativo: una vera e propria probatio diabolica, secondo la dottrina[20].

Si delinea così un quadro normativo ben diverso da quello cui è abituato il processualpenalista. Nel processo penale, infatti, la sentenza di condanna passata in giudicato può essere scalfita mediante il mezzo di impugnazione straordinario della revisione, mentre quella di proscioglimento resta intangibile. Nel processo di prevenzione, invece, il provvedimento conclusivo passerebbe in giudicato unicamente in caso di applicazione della confisca, e potrebbe essere revocato solo rispettando i limiti – particolarmente rigorosi – di cui all’art. 28 cod. ant. Al contrario, in caso di rigetto della proposta ablatoria non si formerebbe una vera cosa giudicata, ma solo una semplice “preclusione”, superabile in presenza di qualsiasi nuovo “elemento”, senza limitazioni di sorta, né qualitative, né cronologiche[21].

 

5. Nel quarto capitolo l’autore svolge un’analisi critica delle fondamenta teoriche su cui si regge il diritto vivente in precedenza descritto, confrontandosi anche con importanti coordinate di teoria generale del diritto processuale.

Particolarmente incisiva è la censura rivolta alla qualificazione della decisione sulla confisca quale provvedimento “rebus sic stantibus[22]. Nata nel diritto dei contratti, tale clausola è stata concettualizzata anche nel diritto processuale – soprattutto quello civile[23] – per indicare la rilevanza da assegnare alle sopravvenienze in relazione a fattispecie durevoli nel tempo, come può essere la pericolosità personale sottesa alla prevenzione personale: la pericolosità del proposto si proietta nel futuro e può subire mutamenti, i quali a loro volta condizionano la misura applicata dal giudice, potendo giustificare una modifica o la revoca della stessa. Nulla di tutto ciò avviene, invece, quando il giudice accoglie o rigetta la proposta di applicazione della confisca di prevenzione. In questi casi, infatti, l’accertamento compiuto dal giudice è interamente retrospettivo, e nessuno dei presupposti della confisca si proietta nel futuro e può subire mutamenti capaci di condizionare la decisione stessa[24].

Condivisibile è altresì la critica alla qualificazione della decisione sulla confisca quale provvedimento “allo stato degli atti”[25], categoria anch’essa invocata dalla giurisprudenza. E’ infatti vero che si può definire “allo stato degli atti” un accertamento compiuto su materiale cognitivo diverso da quello di cui si potrebbe usufruire una volta conclusosi il normale iter processuale. Ebbene, tale carattere è assente quando il giudice della prevenzione si pronuncia sulla proposta di applicazione della confisca, concludendo non già una “fase” del processo di prevenzione, bensì l’intero processo[26]. E siccome il compendio probatorio – secondo la struttura del processo di prevenzione – è ormai completo e non suscettibile di ulteriore arricchimento, non vi è ragione per affermare che il rigetto della proposta di confisca valga soltanto “allo stato degli atti” e non possa dar luogo a cosa giudicata.

Infine, l’autore critica l’impiego che la giurisprudenza fa del “principio di preclusione”, riconoscibile nel c.d. giudicato cautelare, ma non in quello di prevenzione, con ciò rifiutando ogni parallelismo tra misure cautelari e misure di prevenzione.

 

6. L’indagine prosegue con uno studio comparatistico avente ad oggetto la civil forfeiture degli Stati uniti d’America. Anche in questo caso, la scelta appare quanto mai opportuna, per le numerose ragioni che legittimano un accostamento, per certi versi, tra la confisca di prevenzione e la civil forfeiture dei profitti illeciti[27], con la conseguente possibilità di soffermarsi su come il divieto di double jeopardy sia stato applicato alla civil forfeiture.

L’approfondimento comparatistico presenta un particolare interesse dogmatico per l’indagine condotta dall’autore in quanto il modello processuale delle actiones in rem sembra rinvenire il suo più autentico tratto distintivo proprio nel modo di operare della res judicata[28]. Questa, infatti, sul piano oggettivo fissa, una volta per tutte, l’esistenza o l’inesistenza del diritto (al di là dei singoli fatti costitutivi fatti valere nel processo) e, sul piano soggettivo, è eccezionalmente opponibile erga omnes[29].

A partire da una sentenza della Corte Suprema del 1818, non si è mai dubitato del fatto che anche in caso di rigetto della domanda di civil forfeiture debba operare la res judicata[30], sebbene la stessa Corte Suprema abbia escluso che la civil forfeiture abbia natura punitiva ai fini dell’applicazione del divieto di double jeopardy di cui al V emendamento della Costituzione[31]. Invero, il lungo dibattito sull’applicabilità del divieto di double jeopardy alla civil forfeiture era essenzialmente volto a stabilire l’ammissibilità o meno di un cumulo tra la pena da irrogarsi nel processo penale e la confisca da disporsi nel processo civile[32], senza interferire con l’operatività della res judicata in una prospettiva “interna” al civil forfeiture proceeding.

L’esperienza statunitense offre dunque supporto a una considerazione svolta dall’autore nella “posizione del problema” di cui al primo capitolo, e cioè che lo studio della cosa giudicata dovrebbe prescindere dalla natura giuridica della confisca[33]. Vero è che, se le si assegnasse una natura sostanzialmente punitiva, l’operatività del ne bis in idem sarebbe indiscussa, data l’applicabilità dell’art. 4, Prot. 7, CEDU, il quale limiterebbe fortemente l’ammissibilità di un doppio binario (penale e di prevenzione) in relazione ai medesimi fatti. Ma in una prospettiva puramente “interna” al rito preventivo, la cosa giudicata dovrebbe operare in ogni caso, in quanto istituto che – non solo nel nostro ordinamento – attraversa ogni espressione della giurisdizione.

 

7. Il volume si chiude con un capitolo intitolato Bis de eadem re ne sit actio”: percorsi e proposte”, in cui è condensata la tesi sostenuta dall’autore.

Dopo un veloce riepilogo dell’indagine svolta[34], l’autore si chiede se – al netto dei deboli argomenti oggi tralatiziamente invocati dalla giurisprudenza, che paiono «il frutto di precomprensioni e arbitrari parallelismi con altre, ben diverse, realtà dell’ordinamento»[35] - non possano essere rinvenute diverse, più pertinenti, ragioni a difesa dell’esistente[36]. A tale interrogativo viene però fornita una risposta fermamente negativa, facendo leva in particolare sulla “funzione costituzionale del giudicato” – istituto legato alla stessa idea di “giusto processo” e alla ragionevole durata di quest’ultimo –, sulle esigenze di certezza soggettiva e dei traffici giuridici che affiorano quando si ha a che fare con la confisca di prevenzione, sul rilievo costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà, nonché sul canone della “parità delle parti”, che oggi non pare rispettato dallo stato dell’arte in materia di giudicato di prevenzione[37]. Di qui l’esigenza di uno sforzo interpretativo teso a colmare una delle tante lacune del c.d. codice antimafia[38].

Tale convinzione, però, lungi dal concludere l’indagine, dà avvio a un “secondo tempo” della stessa. Invero, una volta affermata la necessità che operi il giudicato, bisogna misurarsi anche coi “limiti oggettivi” che lo stesso dovrebbe presentare. Del resto, proprio da tale problematica – di particolare complessità anche nel processo penale[39] e nel processo civile[40] – dipende in larga misura la portata garantistica del giudicato stesso.

Tale tematica porta l’autore a porsi un interrogativo fondamentale: qual è la regiudicanda nel processo di prevenzione patrimoniale? Alla ricerca di una risposta, nell’attuale disarticolato e frammentario quadro normativo, vengono richiamate le notazioni di teoria generale tratteggiate dalla dottrina che più si è occupata di “regiudicanda”, con particolare riferimento al concetto di “equazionalità”, che indica la relazione che corre tra la regiudicanda stessa e la sanzione prevista dall’ordinamento per la violazione di un determinato precetto[41].

Sulla scorta di queste premesse teoriche, l’autore esamina criticamente l’orientamento dottrinale che individua la regiudicanda del processo di prevenzione (e dunque anche l’oggetto della cosa giudicata) nelle singole condotte illecite che integrano le c.d. fattispecie-presupposto di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011, e che conseguentemente ritiene non sia violato il ne bi in idem ogni qualvolta il proponente fonda la richiesta di prevenzione su di una condotta precedentemente non presa in considerazione[42]. Secondo l’autore, tale modo di ragionare risente del paradigma penalistico, ove in effetti il “fatto” costituente reato rappresenta l’oggetto del processo, in quanto è ad esso che si connette il dovere di punire[43]. Esso, però, non può essere acriticamente impiegato in materia di confisca di prevenzione, in quanto quest’ultima non rappresenta la risposta alla mera commissione di condotte sussumibili nelle fattispecie-presupposto. Queste, piuttosto, hanno una funzione eminentemente “probatoria”, funzionale all’accertamento della provenienza illecita della res aggredita, provenienza che rappresenta il vero oggetto del processo, come si ricava da diversi indici normativi e giurisprudenziali[44]. Ciò peraltro vale anche per la confisca “allargata”, in relazione alla quale il procedimento penale è solo l’occasione con cui si permette di svolgere un sotto-giudizio relativo alla provenienza illecita dell’ulteriore patrimonio dell’indagato, dell’imputato o, quando ciò avviene nella fase dell’esecuzione, del condannato[45].

Individuata la regiudicanda nell’origine illecita del bene di volta in volta aggredito, l’autore propone la costruzione di una cosa giudicata ritagliata su di essa e procede a tracciarne i limiti oggettivi[46] e soggettivi[47], a compararla con il giudicato nelle actiones in rem e nei diritti autodeterminati[48], nonché a sviluppare alcune applicazioni particolari[49].

In breve, secondo l’autore, a seguito del rigetto di una proposta ablatoria dovrebbe riscontrarsi violazione del ne bis in idem ogni qualvolta si aggredisca il medesimo bene imputando l’acquisto illecito al medesimo soggetto. Questa conclusione, che potrebbe apparire debole alla luce della previsione legale della possibilità di operare la confisca anche “per equivalente” su beni diversi, di origine lecita, è in realtà conciliabile anche con tale previsione, giacché semplicemente in questi casi si realizza una divergenza tra l’oggetto del cui acquisto si discute e quello su cui la confisca viene eseguita: la regiudicanda “non è rappresentata dall’acquisto dei beni sottoposti a sequestro (la cui legittimità non è messa in discussione[50]), bensì dall’origine di altri beni, specificamente individuati ma non più presenti nel patrimonio del proposto[51]”.

 

8. Nei rilievi finali del volume[52], l’autore – pur ritenendo che il rito preventivo sia ancora lontano dai canoni del giusto processo – si dice convinto che esso sia la sede migliore in cui poter attuare una confisca senza condanna. Le alternative oggi sperimentate – in particolare la c.d. confisca allargata – non rappresentano infatti degli strumenti più raffinati dell’attuale confisca di prevenzione, e non potrebbero assicurare i risultati – in termini di qualità dell’accertamento – che invece potrebbero essere ottenuti intervenendo sul rito preventivo. Qui, infatti, la confisca non rappresenta una sanzione “accessoria” e collaterale, ma è il fine per il quale si mette in moto un processo ad hoc, la cui regiudicanda è proprio l’origine illecita del bene.

Da ciò l’auspicio che la nuova prospettiva offerta dall’autore, incentrata sullo studio della cosa giudicata, possa rilanciare la costruzione del “giusto processo al patrimonio”, sia per gli importanti valori che essa è volta a preservare, sia per i suoi precipitati sistematici, che aiutano a comprendere con maggiore lucidità lo stesso oggetto del processo di prevenzione.

 

 

 

[1] Cfr. Cap. I, par. 2.

[2] Cfr. p. 7, ove vengono riportate le riflessioni di E. Allorio.

[3] Cfr. Cap. I, par. 2.

[4] Cfr. Cap. I, par. 3.3.

[5] Cfr. Cap. I, par. 5.1.

[6] Cfr. Cap. I, par. 5.2.

[7] Cfr. Cap. I, par. 5.3.

[8] Cfr. Cap. II, par. 7 (e in ptc. 7.1). Tra i casi giurisprudenziali passati in rassegna ve ne è uno emblematico dell’attuale cedevolezza del giudicato di prevenzione e dell’incertezza cui, conseguentemente, è esposto il diritto di proprietà. La vicenda riguardava la confisca, disposta nel 2020, di una abitazione costruita all’inizio degli anni Ottanta, dopo che, nel 2004, una precedente proposta era già stata rigettata. Secondo la Cassazione, in tal caso il ne bis in idem non poteva dirsi violato semplicemente perché nel secondo processo erano stati valorizzati dei precedenti giudiziari non presi in considerazione nel primo

[9] Cfr. Cap. II, par. 10.1.

[10] Cfr. Cap. II, par. 10.2.

[11] Cfr. Cap. II, par. 10.3.

[12] Cfr. Cap. II, par. 10.4.

[13] Cfr. Cap. III, par. 2.1.1.

[14] Cfr. Cap. III, par. 2.1.

[15] Cfr. Cap. III, par. 2.3.

[16] Cfr. Cap. III, par. 2.3.2.

[17] Cfr. Cap. III, par. 3.3.2.

[18] Cfr. ad esempio i richiami a Cap. III, par. 4.3.2.

[19] Cass. pen. Sez. un., 26 maggio 2022 (dep. 17 novembre 2022), n. 43668.

[20] Cfr. Cap. III, par. 4.3.1.1.

[21] Cfr. Cap. III, par. 5.

[22] Cfr. Cap. IV, par. 2.

[23] Ma cfr. anche Cap. IV, par. 2.2 per il processo amministrativo e par. 2.3 per il processo penale.

[24] Cfr. Cap. IV, par. 2.4 e 2.5.

[25] Cfr. Cap. IV, par. 3.

[26] Cfr. Cap. IV, par. 3.4.1.

[27] Sia qui consentito il rinvio a S. Finocchiaro, Confisca di prevenzione e civil forfeiture. Alla ricerca di un modello sostenibile di confisca senza condanna, Giuffrè, Milano, 2022.

[28] Cfr. Cap. V, Sez. I, par. 7.

[29] Cfr. Cap. V, Sez. II, par. 3.3.

[30] Cfr. Cap. V, Sez. III, par. 2.2.

[31] Cfr. Cap. V, Sez. III, par. 1.3.

[32] Cfr. Cap. V, Sez. II, par. 4 e Sez. III, par. 1.

[33] Cfr. Cap. I, par. 5.3.1.

[34] Cfr. Cap. VI, par. 1.

[35] Cfr. p. 318.

[36] Cfr. Cap. VI, par. 2.

[37] Cfr. Cap. VI, par. 3.2.

[38] Cfr. Cap. VI, par. 3.1.

[39] Cfr. Cap. I, par. 6.1.

[40] Cfr. Cap. I, par. 6.2.

[41] Cfr. Cap. VI, par. 5.2.

[42] Cfr. Cap. VI, par. 6.

[43] Cfr. Cap. VI, par. 6.1.

[44] Cfr. Cap. VI, par. 7.

[45] Quest’ottica, in relazione alla confisca allargata, traspare, come avevamo già messo in luce in una recente pronuncia delle Sezioni unite relativa al regime intertemporale del divieto di giustificare la sproporzione patrimoniale con l’evasione fiscale per evitare il sequestro e la confisca allargata: Cass. pen., Sez. un., 26 ottobre 2023 (dep. 23 febbraio 2024), n. 8052, già pubblicata in questa Rivista.

[46] Cfr. Cap. VI, par. 8.1.

[47] Cfr. Cap. VI, par. 8.5.

[48] Cfr. Cap. VI, par. 8.2.

[49] Cfr. Cap. VI, par. 8.3 e 8.4.

[50] Cass. pen. Sez. V, 27 settembre 2022 (dep. 26 ottobre 2022), n. 40415.

[51] Cass. pen. Sez. I, 16 dicembre 2021 (dep. 28 aprile 2022), n. 16324.

[52] Cfr. Cap. VI, par. 11.