Pubblichiamo di seguito il testo di un articolo del Prof. Giovanni Fiandaca apparso su Il Foglio venerdì 18 giungo 2021.
La commissione ministeriale di studio nominata dalla ministra Cartabia nello scorso marzo, e presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, ha già elaborato un insieme di proposte di riforma della giustizia penale che meritano grande attenzione.
1. La prima parte della relazione della commissione contiene le proposte di revisione del processo penale, sulle quali è destinato a concentrarsi gran parte dell’interesse dei commentatori, considerato che in questa contingenza storica il problema dell’efficienza della macchina giudiziaria è divenuto – a torto o a ragione – preoccupazione prioritaria (mentre è forse sottovalutato l’altro versante del problema, relativo cioè al tipo di cultura giudiziale che tende a predominare tra i magistrati penali, come ho più volte rilevato anche su queste colonne). Nelle linee ispiratrici, le innovazioni progettate appaiono accomunate dall’obiettivo di ridurre i tempi di durata del processo grazie ad un articolato spettro di modifiche che – nella scia di indicazioni provenienti dalle fonti europee e dall’evoluzione sia della giurisprudenza costituzionale sia della dottrina processualistica – mirano a coniugare recupero di efficienza, maggiore adeguamento delle strutture processuali alla logica del processo accusatorio e potenziamento delle garanzie individuali.
Questa apprezzabile ispirazione di fondo sfocia – tentando una sintesi pur sommaria dei punti più qualificanti – in proposte volte, innanzitutto, a disciplinare con maggiore rigore i tempi e a rafforzare la dimensione garantistica delle indagini preliminari, prevedendo in proposito un adeguato controllo giurisdizionale e definendo meglio i presupposti dell’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato. Inoltre, è in linea di principio meritevole di molta considerazione la proposta (già avversata, non a caso, per preconcetta rigidità ideologica dal Movimento 5 Stelle) di garantire maggiore trasparenza alla gestione delle notizie di reato, affidando al Parlamento il potere di stabilire periodicamente i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale.
Degna della massima attenzione appare, poi, la previsione innovativa di una “archiviazione meritata” (applicabile alla fascia dei reati sanzionati con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni) quale strumento di desistenza dall’azione penale, nei casi in cui l’indagato scelga liberamente di compensare gli interessi lesi dal reato mediante prestazioni a favore della vittima o della collettività: il pregio di questo modello archiviatorio consiste, a ben vedere, nel combinare la funzione deflattiva con quella riparativa.
Coerente con le finalità di politica processuale prese di mira è, altresì, il novero di proposte tendenti in vario modo ad ampliare l’accesso ai cosiddetti riti alternativi (patteggiamento e giudizio abbreviato), fino ad oggi purtroppo largamente sottoutilizzati a smentita della ottimistica previsione del legislatore del 1988, così da potere ripuntare all’obiettivo di destinare al dibattimento un numero il più possibile circoscritto di casi. In questa prospettiva, ad esempio la disciplina del patteggiamento viene riveduta anche nei termini di una più ampia negoziabilità, tra la difesa e il pubblico ministero, del trattamento sanzionatorio complessivo (incluse le pene accessorie e le ipotesi non obbligatorie di confisca). Molto innovativa la revisione del giudizio abbreviato, imperniata su di una distinzione netta tra l’abbreviato cosiddetto secco (richiesta di definizione allo stato degli atti) e l’abbreviato cosiddetto condizionato (richiesta subordinata cioè all’integrazione probatoria), con corrispondente differenziazione dei giudici destinatari della richiesta e altresì degli sconti di pena. Proposte tutte meritevoli di considerazione, queste, a prescindere da eventuali riserve su singoli punti passibili di correzione.
Infine, è disegnata una organica riforma del sistema delle impugnazioni mirante a ristrutturarne la disciplina alla stregua delle fonti europee e di un’interpretazione costituzionale evolutiva del principio del contraddittorio, quale architrave del processo accusatorio. Richiamando le proposte principali, va subito evidenziata la previsione della inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero, cioè una proposta che può peraltro risollecitare la non nuova obiezione che finisce in questo modo con l’essere violato il principio della “parità delle armi” tra accusa e difesa quale presupposto di un giusto processo (cfr. ad esempio le obiezioni di Gustavo Zagrebelsky, su Repubblica 14 maggio 2021). Senonché, come è disposto a riconoscere anche un valoroso ex magistrato d’accusa (cfr. l’articolo di Nello Rossi ne Il dubbio 29 maggio 2021), la stessa giurisprudenza costituzionale ha di recente sempre più sottolineato la “diversa quotazione costituzionale” del rispettivo potere di impugnazione della parte pubblica e della parte privata. Nel senso che, mentre l’appello dell’imputato funge da strumento di esercizio del diritto costituzionale di difesa, il potere di impugnazione del p.m. è da concepire come finalizzato soprattutto ad assicurare la corretta applicazione della legge nel caso concreto: per cui – secondo l’orientamento prevalente dei commissari – esso può essere adeguatamente esercitato con un mezzo diverso dall’appello, vale a dire con il ricorso in Cassazione. Si tratta, invero, di una tesi che non ha mancato di ricevere condivisioni autorevoli, anche all’interno dell’ordine giudiziario.
L’altra proposta degna di nota, che presta il fianco però a comprensibili riserve critiche in particolare da parte dell’avvocatura, consiste nella concomitante introduzione di limiti e vincoli alla facoltà di appellare della stessa pare privata: per un verso, precludendo l’appellabilità delle sentenze di condanna a pena di attenuata afflittività; per altro verso, trasformando il giudizio di appello in uno “strumento a critica vincolata” della pronuncia di primo grado, e ciò grazie alla previsione legislativa dei motivi per i quali – a pena di inammissibilità – l’appello stesso può essere proposto.
Ad uno sguardo d’insieme, tutte le ipotesi di riforma in materia processuale sopra accennate – al di là della maggiore o minore condivisibilità del contenuto specifico di ciascuna – appaiono frutto di una elaborazione propositiva di livello tecnico sempre notevole.
2. La seconda parte della relazione Lattanzi è dedicata al tema controverso, e anche politicamente molto divisivo, della prescrizione. Forse non è inutile premettere, a beneficio del lettore comune, che si tratta di un istituto giuridico incentrato sui rapporti tra il reato e il decorso del tempo, il quale è presente in pressoché tutti gli ordinamenti moderni, ma che riceve discipline differenziate da paese a paese nonostante esso abbia sempre alla base fondamenti giustificativi analoghi: rilevanti da un lato sul piano del diritto penale cosiddetto sostanziale – cioè del sistema dei delitti e delle pene – e, dall’altro, sul piano processuale (tra i giuristi, il rispettivo peso dei fondamenti riconducibili all’uno e all’altro dei due versanti è soggetto a variazioni connesse alle mutevoli contingenze storiche e all’evoluzione della riflessione dottrinale, per cui non sorprende troppo che oggi in Italia venga in primo piano il nesso tra prescrizione e durata del processo). In sintesi, le ragioni sostanziali si basano sul duplice rilievo che, più tempo decorre dalla commissione del reato, più la memoria sociale del fatto criminoso tende a sbiadire e, nello stesso tempo, una pena ritardata rischia di perdere senso e di risultare superflua in conseguenza dei possibili cambiamenti positivi sopravvenuti nella persona dell’autore. Mentre le ragioni processuali poggiano sulla presa d’atto che, più tempo passa, oggettivamente più difficile diventa l’accertamento probatorio di un reato ormai lontano, nonché sulla ineludibile esigenza di garantire al cittadino la tutela del suo diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo. Orbene, una equilibrata disciplina o (riforma) della prescrizione dovrebbe in ogni caso misurarsi con l’insieme complessivo delle giustificazioni adducibili a suo fondamento; ragion per cui un legislatore saggio dovrebbe guardarsi dalla tentazione di privilegiare unilaterali estremismi, spiegabili magari nel quadro di politiche penali contingentemente orientate ad assecondare pulsioni repressive diffuse, ma poco compatibili in realtà con i principi costituzionali che dovrebbero in teoria presiedere alla regolamentazione dell’istituto in discorso.
Fatte queste premesse, va detto subito che la commissione Lattanzi lascia immutata la norma del codice penale (art. 157) che fissa per così dire le soglie temporali dell’oblio, ricollegando il tempo prescrizionale – per effetto della nota quanto criticabile riforma nel 2005 – al massimo della pena edittale legislativamente prevista per ogni reato. Tuttavia, nella relazione i commissari rilevano giustamente che una riforma di più ampio respiro dovrebbe, in linea teorica, includere anche una revisione razionalizzatrice degli attuali termini prescrizionali, in modo da rimediare ai più volte segnalati effetti negativi derivantidalla cosiddetta legge ex Cirielli.
Il punto su cui invece la commissione ministeriale interviene riguarda la sospensione del decorso della prescrizione durante lo svolgimento del processo: è questo il versante cruciale che ha dato luogo ai maggiori problemi pratici a causa della diffusa patologia della lungaggine dei processi, che ha in non pochi casi appunto come conseguenza la maturazione del termine prescrizionale del reato prima che la verifica processuale giunga a compimento. Non a caso, in proposito il legislatore è intervenuto più di una volta e, da ultimo, con la radicale e contestatissima riforma Bonafede di cui alla l. n. 3/2019, che ha com’è noto bloccato in via definitiva il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ispirata a un estremismo punitivista foriero del rischio concreto di futuri processi senza fine (qualcuno è giunto, non a torto, a evocare icasticamente l’angosciante fantasma di un “ergastolo processuale”!), questa drastica soluzione è andata comprensibilmente incontro fuori dall’area pentastellata a un coro crescente di voci critiche, di fonte sia politica che tecnica.
Orbene, in luogo del blocco dopo la sentenza di primo grado la commissione Lattanzi prospetta due proposte di riforma della prescrizione formulate in alternativa (e destinate a riscrivere l’art. 14 d.d.l. A.C. 2435): la prima incide sulla sospensione del termine prescrizionale, ponendosi fondamentalmente in linea di continuità con le precedenti riforme Orlando del 2017 e Bonafede del 2019; la seconda proposta si colloca invece in una prospettiva di più radicale innovazione, delineando un modello di disciplina che riecheggia quello di altri ordinamenti (ad esempio statunitense).
a) Più in particolare, l’ipotesi di riforma A riscrive il secondo comma dell’art. 159 del codice penale, prevedendo che dopo la sentenza di condanna di primo grado, e dopo la sentenza di appello che conferma la condanna, la prescrizione rimane sospesa – rispettivamente – per due anni e per un anno. Se entro i periodi suddetti non sopravviene la pubblicazione della sentenza di appello o di quella della Corte di Cassazione, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione viene computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere.
Considerata nell’insieme, la previsione di questa “sospensione condizionata” alla definizione in tempo utile del processo tende a contemperare l’esigenza di ridurre l’impatto negativo della prescrizione con quella di prevenire il rischio di processi irragionevolmente lunghi.
b) L’ipotesi alternativa di riforma B è, invece, più radicale e innovativa perché spezza il collegamento tra il tempo entro cui lo Stato mantiene in vita la sua pretesa punitiva e i tempi del processo: consentendo così che l’accertamento processuale segua tutto il suo corso, indipendentemente dallo scadere del termine prescrizionale del reato (tempo c.d. dell’oblio). Pertanto, la commissione ministeriale propone di aggiungere all’art. 158 del codice penale un terzo comma del seguente tenore: “Il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente, in ogni caso, con l’esercizio dell’azione penale”. Ma, per scongiurare anche questa volta il rischio di processi senza fine, ecco che vengono predeterminati i tempi di durata considerati ragionevoli per ciascuna fase processuale (4 anni per il primo grado, 3 anni per l’appello e 1 anno per la Cassazione), il cui superamento determina l’improcedibilità dell’azione penale.
Non è possibile qui dilungarsi ad argomentare pro o contro ciascuna delle due ipotesi di riforma sopra sintetizzate. Entrambe sono meritevoli di apprezzamento, e la seconda (ipotesi B) può apparire più affascinante proprio per la sua maggiore innovatività. Di contro, può invece sembrare preferibile l’ipotesi A appunto in considerazione del suo porsi più in linea con la concezione della prescrizione radicata nella tradizione penalistica italiana, quale si è finora rispecchiata anche nella giurisprudenza costituzionale.
A completare il quadro concorre un ulteriore e importante elemento di novità, costituito dalla proposta di introdurre – nella scia di quanto già previsto in altri ordinamenti – rimedi compensativi e risarcitori conseguenti al mancato rispetto dei termini di ragionevole durata del processo, e indipendenti in linea di principio dal tempo di prescrizione dei reati. Da segnalare, in particolare, la previsione – apprezzabilissima – di detrarre dalla pena che il condannato deve espiare i periodi di tempo successivi alla ragionevole durata del processo.
3. La terza parte della relazione Lattanzi è infine dedicata alle proposte di riforma del sistema sanzionatorio, orientate nell’insieme a obiettivi di fondo così sintetizzabili: estendere e potenziare, in applicazione del principio della pena detentiva quale extrema ratio, il catalogo delle sanzioni diverse dal carcere, ammodernando nel contempo quelle già esistenti (a cominciare dalla pena pecuniaria, poco valorizzata da noi rispetto ad altri paesi); concepire la riforma delle sanzioni extradetentive anche in funzione di incentivo ai riti processuali alternativi, a loro volta da rendere maggiormente appetibili in vista della deflazione del carico giudiziario e della riduzione dei tempi di durata dei procedimenti penali.
Senza potere qui illustrare il contenuto specifico delle singole proposte, vanno accennate due ulteriori novità rilevanti, l’una dotata di valenza strategica come potenziale strumento deflattivo, l’altra ispirata al lodevole proposito di valorizzare modelli di giustizia diversi dalla tradizionale giustizia punitiva: si allude, da un lato, alla estensione dell’ambito di applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis del codice penale) e, dall’altro, alla introduzione di una disciplina organica in materia di giustizia riparativa che risulti conforme alle indicazioni internazionali.
Concludendo questo ormai lungo – ancorché incompleto – excursus, non può non prendersi atto che il complessivo lavoro svolto dalla commissione Lattanzi, al di là di singoli punti eventualmente suscettibili di correzione o migliore definizione, pone la ministra Cartabia nella condizione di disporre di una ampia, solida e anche raffinata piattaforma progettuale per presentare al Parlamento emendamenti in vista della programmata riforma della giustizia penale. Il merito forse principale da riconoscere ai componenti della commissione ministeriale consiste, ad avviso di chi scrive, nell’avere puntato ad un potenziamento dell’efficienza processuale come valore non disgiunto dal contestuale rafforzamento delle garanzie individuali. Una svolta in una direzione giusta, questa, che l’insieme delle forze politiche dovrebbe far propria, rinunciando finalmente alle pregiudiziali contrapposizioni di parte e tentando di sviluppare una collaborazione la più virtuosa possibile: a vantaggio di un sistema penale che necessita non solo di funzionare più efficacemente, ma anche (e soprattutto) di uniformarsi sempre più ai principi del costituzionalismo nazionale ed europeo.