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09 Maggio 2024


Separate i separati! Unite gli indisciplinati! “Facite ammuina”?


1. Non è affatto casuale, ed è tutt’altro che paradossale, se la proposta di riforma costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati ordinari esibirà come suo ideatore il nome di un Ministro della giustizia che è stato a lungo pubblico ministero.

Infatti solo chi è già separato culturalmente può ambire a una sanzione formale e addirittura costituzionale della separazione.

Sono decenni che i passaggi di ruolo tra pubblico ministero e giudice sono ormai marginali, statisticamente irrilevanti. E la recente riforma Cartabia dell’Ordinamento giudiziario ha ulteriormente ridotto questo ambito di scelta, ammettendo un solo “cambio di gioco” nella vicenda professionale di un magistrato ordinario.

Questa separazione non solo di fatto non è stata priva di conseguenze.

Non v’è dubbio che seri problemi della nostra giustizia penale nascano oggi da una crescente autoreferenzialità di molti magistrati del pubblico ministero, perché l’obbligatorietà dell’azione penale viene frequentemente esibita a giustificazione del plateale fallimento di alcune iniziative processuali, come se l’art. 112 Cost. non presupponesse che l’esercizio dell’azione abbia un plausibile fondamento.

La pretesa è quella di “fare giustizia” indipendentemente da una concreta ed effettiva prospettiva giurisdizionale.

È questo il così detto “giustizialismo”, contro il quale si pretende di operare con la preannunciata riforma costituzionale. Ed è esattamente l’opposto della cultura della giurisdizione e del contraddittorio. Ma diviene inevitabilmente la cultura di un pubblico ministero che non è capace e comunque non si sente più chiamato a “mettersi nei panni del giudice”, perché quello del giudice è un lavoro che non ha mai fatto e neppure aspira a fare mai, per non disperdere le proprie prospettive di “carriera”.

È in realtà inevitabile che il pubblico ministero sia in qualche misura condizionato da una logica strumentale, orientata al perseguimento di un risultato investigativo, piuttosto che al contraddittorio, che è il vero paradigma deontologico di un’etica del giudice. Ma l’art. 112 Cost., rendendo obbligatoria l’azione penale, esclude che le relative determinazioni possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale; e tende così ad attrarre nell’ambito della giurisdizione il ruolo del pubblico ministero.

Nella cultura liberale la giurisdizione è infatti un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono essere giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all'intervento del giudice. E l’art. 112 Cost. estende appunto all’azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione.

Per questa ragione occorrerebbe piuttosto evitare che la crescente separazione delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici finisca per tradursi in un’ulteriore scissione culturale, così profonda da vanificare lo stesso progetto costituzionale.

La proposta separazione ora anche dei consigli superiori di giudici e pubblici ministeri vanificherebbe questa residua possibile prospettiva di tendenziale unificazione culturale di due professioni complementari, oltre a comportare la definitiva rinuncia a un più ambizioso e necessario progetto di coinvolgimento in un unico ceto anche della professione forense.

Non è ancora chiaro se in questo prefigurato contesto dovrebbe rimanere unica la scuola superiore o se al contrario sarebbe anch’essa sdoppiata. Tuttavia è certo che i parametri di professionalità sarebbero comunque sconnessi con la scissione in due del Consiglio superiore.

Si dimentica così che è l’intera cultura giuridica ad avere il compito di custodire i valori della ragione democratica. L’orizzonte dell’autonomia del giudice non può non includere l’effettiva consapevole partecipazione delle altre professioni in cui la sapienza giuridica si esercita. E la giurisdizione può essere un potere effettivamente autonomo e democratico solo in quanto coinvolga i magistrati del pubblico ministero e si presenti come espressione dell'intera cultura giuridica, progredendo sulle gambe di tutti i ceti professionali che la esprimono.

Privati di una cultura unificante, i giudici non potranno tener fede a questo impegno civile.

 

2. A mo’ di contrappeso alla separazione tra giudici e pubblici ministeri viene ora proposta la costituzione di un’unica Alta corte quale giudice disciplinare per tutti i magistrati, anche amministrativi.

Per la magistratura ordinaria è costituzionalmente riconosciuta dall’art. 105 Cost. l’esigenza di una tutela dell’indipendenza anche nella materia disciplinare, esplicitamente attribuita al CSM.

È tuttavia opportuno verificare fino a qual punto l’esigenza di tutelare l’indipendenza della magistratura possa essere salvaguardata senza rinunciare a scongiurare il rischio di una giustizia eccessivamente domestica, incline a indulgenze corporative. E in questa prospettiva è certamente utile la proposta di unificare in un unico organo la giustizia disciplinare di tutte le magistrature[1].

Infatti, questa proposta tende probabilmente a compensare appunto gli effetti della contestuale proposta di separare l’autogoverno della magistratura giudicante dall’autogoverno della magistratura requirente, che ne risulterebbe altrimenti sospinta verso un corporativismo vieppiù dannoso.

Peraltro, se è indiscussa la natura giurisdizionale del procedimento disciplinare della magistratura ordinaria, altrettanto indiscussa è la natura amministrativa, e non giurisdizionale, del procedimento disciplinare a carico dei magistrati sia amministrativi sia contabili[2].

Per quanto riguarda i magistrati del Consiglio di Stato e dei TAR., l’art. 33 della legge n. 186/1982 prevede che «il procedimento disciplinare è promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal presidente del Consiglio di Stato»; e la relativa decisione è adottata dal Consiglio di presidenza di cui fa parte lo stesso Presidente del Consiglio di Stato, anche quando abbia egli stesso esercitato l’azione disciplinare.

Quanto ai magistrati della Corte dei conti, l’art. 10 della legge n. 117/1988 prevede che le decisioni disciplinari sono adottate dal Consiglio di presidenza su iniziativa del Procuratore generale presso la Corte.

Le decisioni di entrambi i Consigli di presidenza sono impugnabili solo dinanzi al giudice amministrativo[3]. E la relativa questione di legittimità costituzionale è stata dichiarata manifestamente infondata dalla Corte di cassazione[4], mentre la Corte costituzionale ha chiarito che «l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse, che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, in continuità con la tradizione oppure in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia in un ambito molto ampio»[5].

Solo più di recente la Corte costituzionale, modificando un suo precedente orientamento[6], ha riconosciuto ai magistrati sia amministrativi sia contabili la facoltà di farsi assistere anche da un avvocato nel procedimento disciplinare, nel presupposto che sussista «una stretta correlazione tra l'indipendenza del magistrato sottoposto a procedimento disciplinare e la facoltà di scelta del difensore da lui ritenuto più adatto, sicché limitare quest'ultima facoltà significa in definitiva menomare in parte anche il valore dell'indipendenza»[7].

Riguardata dunque nella prospettiva dei magistrati amministrativi e contabili, l’istituzione di un unico giudice disciplinare per tutti i magistrati rappresenterebbe certamente un passo innanzi, quantomeno per la giurisdizionalizzazione del procedimento, oggi riconosciuta solo per i magistrati ordinari.

Considerata in una prospettiva sistematica, tuttavia, una simile riforma non potrebbe non fondarsi su una piena assimilazione tra le garanzie riconosciute a tutti i magistrati. Mentre la Costituzione vigente, com’è noto, attribuisce rango costituzionale solo alle garanzie dettate per la magistratura ordinaria, posto che l’art. 108 Cost. rimette alla legislazione ordinaria le garanzie di indipendenza dei giudici speciali. E la Corte costituzionale non solo ha dichiarato legittime le norme che prevedono la nomina governativa di taluni magistrati amministrativi[8], ma esclude anche che l’art. 107 comma 3 Cost. (per cui i magistrati ordinari si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni), sia applicabile ai giudici speciali[9], nel presupposto che per i giudici speciali il principio dell'indipendenza degli organi giurisdizionali trovi fondamento solo nell'art. 101, comma secondo, Cost. in connessione con l'art. 108 Cost.[10].

Del resto il progetto di riforma costituzionale formulato dalla Commissione bilaterale nella XIII legislatura, che prevedeva appunto l’istituzione di un'unica Corte di giustizia disciplinare, estendeva a tutti i magistrati, anche amministrativi e contabili, le garanzie costituzionali previste oggi per la sola magistratura ordinaria.

Non si conosce ancora il testo dell’attuale proposta di riforma costituzionale. Ma è auspicabile che di questo problema i proponenti si facciano carico.

In una sentenza costituzionale, redatta da uno dei più raffinati giuristi italiani, è scritto: «se è vero che l'indipendenza è, nella materia in esame, forma mentale, costume, coscienza di un'entità professionale, non è men vero che, in mancanza di adeguate, sostanziali garanzie, essa, come è stato rilevato, degrada a velleitaria aspirazione»[11].

 

3. L’imminenza delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo rende inevitabilmente preponderante la prospettiva propagandistica degli annunci generici rispetto alla prospettiva politica del farsi carico dei problemi.

L’annunciata separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri si riduce in definitiva a una moltiplicazione dei consigli superiori, perché, come s’è notato, le due professioni sono purtroppo già dannosamente separate sul piano culturale più di quanto non si voglia ammettere.

In contraddizione con la proposta di unificazione del procedimento disciplinare, avremo così un consiglio superiore dei pubblici ministeri e un consiglio superiore dei giudici che si aggiungeranno ai separati consigli di presidenza dei magistrati amministrativi e dei magistrati contabili: quattro pseudo consigli superiori, a dispetto del rasoio di Occam e del suo «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem». Salva per di più la possibilità che si proponga coerentemente di istituire un quinto consiglio per i pubblici ministeri contabili.

In questo contesto la proposta di unificazione dei giudici disciplinari potrebbe anche rappresentare un tentativo residuale di recupero di razionalità, se non verrà utilizzata per ridurre l’indipendenza non solo dei pubblici ministeri ma anche dei giudici ordinari: come avverrebbe se la unificata Alta corte risultasse composta anche da magistrati amministrativi non pienamente garantiti sul piano dell’indipendenza.

Questo incrocio di moltiplicazioni e unificazioni, questo “fare ammuina” è solo frutto di approssimazione propagandistica o nasconde un disegno di tradimento dei principi della democrazia liberale?

 

 

 

[1] Sul tema si veda AA.VV., Riformare il giudice disciplinare dei magistrati?, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, Anno 2012, Numero 158.

[2] Cass., sez. un., 9 marzo 2020, n. 6690, m. 657416

[3] Cass., sez. un., 10 aprile 2002, n. 5126, m. 553638, Cass., sez. un., 20 aprile 2004, n. 7585, m. 572208.

[4] Cass., sez. un., 29 settembre 2000, n. 1049, m. 540595.

[5] C. cost. n. 71/1995. Si vedano anche C. cost., n. 377/1998, C. cost., n. 161/1999, anche con riferimento alla composizione degli organi disciplinari.

[6] C. cost., n. 182/2008.

[7] C. cost., n. 87/2009.

[8] C. cost.,  n. 177/1973.

[9] C. cost.,  n. 434/2001, C. cost. n. 1/1978.

[10] C. cost.,  n. 433/2000.

[11] C. cost.,  n. 266/1988, redatta da Renato Dell’Andro.