1. L’opinione circa l’abrogazione della fattispecie.
Operiamo preliminarmente un richiamo a quanto si è già avuto modo di scrivere[1]. Giungendo al punto, personalmente, abbiamo manifestato, anche per iscritto, la contrarietà all’abolizione dell’abuso d’ufficio, e ne vengono qui spiegate le motivazioni. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad abolire l’abuso d’ufficio sono così sintetizzabili: un carico giurisprudenziale esiguo e questo perché l’abuso d’ufficio ha subìto diverse riforme che sono il sintomo di un contrasto fra il legislatore e la giurisprudenza che si è ampiamente dimostrata come “giuscreativa”, nel senso che l’abuso d’ufficio, che originariamente nel 1930 era un abuso innominato, era una norma residuale rispetto all'interesse privato in atti d'ufficio. Una volta abolito l’interesse privato in atti d’ufficio è assurto, invece, a nuova vita, e negli anni '90 vi è stata la suddivisione tra abuso “per finalità patrimoniali” e abuso “per finalità non patrimoniali”. Giunti a questo punto, però, il problema fondamentale era diventato quello della descrizione della fattispecie, che si è pian piano ristretta sempre più perché, proprio a causa di questo contrasto fra il legislatore e la giurisprudenza, il legislatore ha, appunto, inteso restringere progressivamente i confini della fattispecie. Di converso, la giurisprudenza cercava in tutti modi di inserirvi il vizio dell’”eccesso di potere”, soprattutto sotto il profilo del “conflitto di interessi”. Il legislatore, nell’ultima elaborazione della fattispecie di abuso di ufficio, fa infatti riferimento alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge – e questo è il punto più rilevante – “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Quest’ultima locuzione è strumentale a far fuoriuscire dal perimetro applicativo della norma incriminatrice l’eccesso di potere. È ovvio, però, che a questo restringimento consegua una espansione degli esiti assolutori, divenendo molto arduo il condannare.
2. Rapporti tra potere politico e giudiziario.
È molto probabile che quanto sinora rilevato sia frutto anche di ciò: costituisce, infatti, un problema molto attuale, quello dei confini tra potere legislativo e potere giurisprudenziale, basti pensare a quanto sta avvenendo in questi giorni in tema di migranti, a seguito della pronuncia del Tribunale di Roma; è evidente quindi che questa è la preoccupazione del legislatore. Detto ciò, però, dobbiamo verificare le conseguenze dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il collega Gian Luigi Gatta[2] ha operato un resoconto specifico, dal quale è venuto fuori che in Italia vi sono state oltre tremila sentenze di condanna passate in giudicato dal 1930 ad oggi. Con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio tutte queste sentenze dovranno essere revocate e sostituite con una pronuncia perché il fatto non è più preveduto dalla legge come reato. Questo è il rovescio della medaglia. Non si è tenuto conto che poteva esistere una strada intermedia, riformare, cioè, la fattispecie criminosa, prendendo spunto delle indicazioni frutto del lavoro della Commissione Morbidelli, che è stata istituita nel febbraio del 1996 dall’allora Ministro della Giustizia, Caianiello[3]. A nostro avviso, infatti, l’abuso d’ufficio non è una norma di scarso rilievo, poiché al suo interno è ricompresa, in primo luogo, la “prevaricazione” del pubblico agente nei confronti del cittadino, che è il modello ottocentesco del codice penale Zanardelli, in secondo luogo lo “sfruttamento privato dell’ufficio” e, soprattutto, il “favoritismo affaristico”. Ecco perché si doveva partire dal lavoro della Commissione Morbidelli per creare una fattispecie di abuso d’ufficio che avesse come base il “conflitto di interessi”, sul modello dell’art. 2634 del c.c. Sussisteva, dunque, una strada alternativa per rendere efficace l’abuso d’ufficio, senza sterilizzarlo.
3. L’abuso d’ufficio nelle statistiche giudiziarie
Una norma penale incriminatrice non può però essere giudicata soltanto sotto il profilo della sua efficacia, perché la norma penale ha una funzione non solo, ovviamente, di prevenzione speciale, ma anche di prevenzione generale; nell’ottica, in particolare del collega Pagliaro[4], significa funzione di “orientamento culturale” dei cittadini. Quindi, rispetto ad una formulazione della norma come quella previgente, risulta ovvia l’impossibilità di dimostrare un abuso d’ufficio, ma ciò non significa che la strada dell’abolizione fosse obbligata, poiché sarebbe stato preferibile procedere, come rilevato, ad una riformulazione della stessa.
Un abuso d’ufficio riformato, quindi, con possibilità di essere applicato senza dover sconfinare in “figure sintomatiche” dell’«eccesso di potere», ma prendendo come modello l’infedeltà patrimoniale, con il conflitto di interessi come base, rimane una norma che ha un suo significato in relazione al pubblico agente, che deve agire secondo la disposizione dell’art. 97 Cost., ossia secondo i criteri dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica Amministrazione. Ed è ovvio, come, nel caso del conflitto di interessi, si violi in particolare il principio dell’imparzialità. Dobbiamo, quindi, valutare la norma nell’ottica del suo orientamento costituzionale, che dovrebbe portare ad un obbligo di penalizzazione nel senso qui indicato.
Questa è, però, la critica che il collega Domenico Pulitanò[5] fece al collega Franco Bricola[6], nel senso dell’insussistenza di obblighi costituzionali di penalizzazione. Ciò nonostante, ci si deve chiedere se si possa legittimamente mandare esente da pena il pubblico agente che fa gli interessi propri, o di un prossimo congiunto, anziché quelli della pubblica Amministrazione; a nostro avviso, no. Si potrebbe, però, obiettare che esiste l’ambito del diritto amministrativo, come anche il collega Merlo ha ricordato di recente[7]. La giustizia amministrativa ha, tuttavia, comunque un tempo lungo di gestazione, mediamente tre anni in primo grado, con dei giudici, quali quelli amministrativi, che per di più di diritto penale potrebbero non essere particolarmente esperti. Ecco perché il legislatore, invece di cancellare la norma con un tratto di penna, avrebbe dovuto riflettere maggiormente sul notevole vuoto di tutela provocato.
Esistono altre figure, ma non può restringersi l’intervento della norma penale solo a “casi-limite”, come quello in cui il pubblico agente si faccia dare o promettere “altra utilità” che potrebbe essere utilizzata dalla giurisprudenza “giuscreativa” in futuro per colmare il vuotò di tutela. E la prova del vuoto creato è l’aver fatto “resuscitare” il peculato per distrazione, evidentemente cercando in questa maniera di colmare, seppur parzialmente, il vuoto stesso venutosi a creare. Ciò comporterà un proliferare, appunto, di giurisprudenza “giuscreativa”, poiché i giudici, l’abbiamo già verificato, non si acquieteranno rispetto al legislatore – la questione dei migranti docet – ed allora è ragionevole presupporre che estenderanno il concetto di “altra utilità” fino a far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.
4. Le alternative della giustizia amministrativa e di quella tributaria.
Il limite applicativo della giustizia tributaria, così come di quella amministrativa, consiste inoltre nella non applicabilità di un principio generale che è tipico del solo diritto penale, e cioè che l’ignoranza della legge penale non scusa, tranne l’ipotesi dell’errore o della ignoranza inescusabile, secondo la sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale. Oltretutto, a nostro avviso, la sola minaccia di pena pecuniaria, specialmente se commisurata ancora tradizionalmente “a somma complessiva” e non invece a tassi giornalieri, non dissuaderebbe sufficientemente dalla commissione di condotte illecite. Il privato cittadino che si ritiene vittima di un’ingiustizia, potrebbe, quindi, trovare molte più difficoltà a far valere le sue ragioni dinanzi a queste diverse giurisdizioni.
Tornando, poi, alla ragione ispiratrice della riforma, questa affonda le sue radici nella c.d. “paura della firma”, al fine di non creare situazioni di stallo nella gestione della cosa pubblica. Assistiamo, quindi, ad una sorta di “pubblica Amministrazione difensiva”, al pari della c.d. “medicina difensiva”[8]. Secondo questa impostazione, allora, non si dovrebbero punire neanche i medici, anche dinanzi a casi di “colpa grave”. Rimanendo all’ipotesi effettuata, si sarebbe potuto applicare lo stesso principio che ha condotto a limitare la punibilità ai casi di “colpa grave”, ma non ha certo eliminato del tutto le ipotesi di responsabilità professionale medica. Perché un presidio penale risulta necessario, anche in quanto non dobbiamo mai dimenticare che, accanto agli autori di reato, esistono anche le persone offese, come dimostra il novellato art. 111 Cost.
Il legislatore ha tenuto conto che l’abuso d’ufficio dal 1930 in poi ha trovato sempre più ristretta la strada applicativa sino all’”estensione giurisprudenziale”, che ha introdotto l’eccesso di potere nel suo raggio applicativo. Conseguenza ineludibile è stata l’abrogazione della norma, cui si è giunti per evidente volontà politica, cioè per le istanze pressanti in tal senso dell’elettorato dei sindaci. La consapevolezza della “cattiva coscienza” del legislatore la ritroviamo però nel momento in cui – nella consapevolezza del vuoto di tutela generato – riporta in vita il “peculato per distrazione”.
Ciò ha determinato attualmente la reazione della magistratura che, in vari tribunali italiani, ha eccepito la incostituzionalità della norma abrogatrice.
5. L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la “giurisprudenza giuscreativa”.
Trattasi, quello della giurisprudenza giuscreativa, di un rischio possibile. Ciò nonostante, la magistratura, per il momento, sta tentando di eccepire la incostituzionalità della norma abrogatrice. Se, però, la Corte costituzionale dovesse rispondere negativamente, anche perché diversamente significherebbe far rivivere una norma che è stata abrogata dal legislatore, con ogni conseguente criticità rispetto al principio di stretta legalità e di irretroattività di una norma che certamente non è più favorevole al reo, a nostro avviso, sarà appunto immaginabile un ricorso alla giurisprudenza “giuscreativa”, che potrebbe estendere la littera legis di norme quali, ad esempio, la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, finendo per farvi ricomprendere le condotte prima punite ai sensi dell’art. 323, attraverso il già ricordato concetto di ”altra utilità”.
Che il ricorso alla giurisprudenza giuscreativa rappresenti il rischio maggiore, ce lo ricorda un grande Maestro e filosofo del diritto, quale Luigi Ferrajoli, che in un recente volume[9], ha evidenziato come la stessa contrasti con il principio di stretta legalità e, in particolare, con la tassatività della norma penale, aspetto, del resto, già evidenziato dalla Corte costituzionale con la famosa sentenza redatta dal collega Francesco Viganò, che disquisendo sulla differenza tra il delitto di maltrattamenti e quello di atti persecutori, ha inserito, seppur come obiter dictum, la necessità, in materia penale, di un’interpretazione stricta che tenga, per l’appunto, conto del principio di tassatività[10].
6. Gli artt. 11 e 117 Cost. e la valenza della Convenzione di Merida.
Una prima tesi in argomento era quella dell’impossibilità di far rivivere una norma abolita perché ciò contrasterebbe con il principio di stretta legalità e con il sub corollario del principio di irretroattività della norma penale, che contrasterebbe con la reviviscenza della norma abrogata. Esaminando le ordinanze e le memorie, in particolare quella redatta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia[11], ci siamo, però, resi conto che l’originario riferimento all’art. 25, comma 2, della Costituzione si può superare attraverso il ricorso agli artt. 11 e 117 della medesima, perché entrambi stabiliscono che il sistema giuridico penale deve conformarsi alle Convenzioni, alle Direttive ed alle normative internazionali generalmente riconosciute. E veniamo, quindi, alla Convenzione di Merida, delle Nazioni Unite, del 2003, contro la corruzione, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre dello stesso anno. Tale Convenzione si occupa anche e specificamente dell’abuso d’ufficio, ma sul punto emerge un problema linguistico e, quindi, esegetico, particolarmente delicato. Ciò in quanto nella Convenzione si indica, in riferimento alla criminalizzazione delle condotte, l’espressione “shall consider adopting“ che, letteralmente, significa che il Paese “dovrebbe valutare di adottare” – quindi si esprime al condizionale – una sorta di “raccomandazione”, più che un obbligo di penalizzazione.
Quindi, se da un lato la Convenzione non violerebbe il principio di irretroattività in materia penale, in quanto norma ratificata in Italia in un momento in cui il delitto di abuso d’ufficio già esisteva, dall’altro non risulterebbe vincolante, in quando, dal punto di vista lessicale, si esprime in termini di discrezionalità e non di imposizione.
Diversamente, nel Progetto di Direttiva comunitaria ancora non varata, si afferma, quale imperativo, che l’Italia “deve” prevedere la rilevanza penale della fattispecie in discorso.
Ne consegue che le questioni sollevate con le ordinanze richiamate[12] dimostrano come la magistratura non abbia accolto di buon grado la riforma, ma, allo stato, sussistono non poche difficoltà a che le stesse siano accolte dalla Corte costituzionale.
Chiaramente la questione cambierebbe radicalmente se, nelle more, venisse varata la Proposta di Direttiva comunitaria, poiché imponendo questa, come osservato, un obbligo di penalizzazione, a quel punto la Corte costituzionale dovrebbe tenerne conto, facendo rivivere l’abuso d’ufficio, pur se tale operazione sembrerebbe apparire in contrasto con il principio di legalità e di irretroattività, ma sussiste già giurisprudenza costituzionale che ammette tale intervento riconoscendo la prevalenza della norma sovranazionale, rispetto al principio di stretta legalità[13].
Argomentiamo, da ultimo, con riferimento al c.d. “diritto penale minimo”, da sempre teorizzato e sostenuto dal collega Ferrajoli – e, da ultimo, richiamato, nell’ottica, però, del diritto penale come extrema ratio, nell’intervento conclusivo al Congresso straordinario dell’UCPI di Reggio Calabria dal Presidente avv. Francesco Petrelli[14] – per cui ci permettiamo di dissentire. Invero il collega Ferrajoli[15] sostiene che diritto penale minimo significhi che la norma debba tutelare beni giuridici che riguardino “cittadini in carne e ossa”. La critica avanzata a questa tesi prende le mosse dalla circostanza che, se ciò fosse accettabile, dovrebbero divenire illeciti amministrativi tutte le residue fattispecie nella quali il bene giuridico tutelato non riguardi l’individuo e, tra queste, anche tutti i reati contro la pubblica Amministrazione, oppure i delitti ambientali, e così via, laddove la prassi ci dimostra che l’Autorità amministrativa non è, di per sé, in grado di tutelare adeguatamente tali beni.
Siamo, al contrario, propensi a giungere, come ammoniva il collega Enzo Musco, ad un diritto penale comunque “ridotto”[16], inteso quale extrema ratio, anche se l’impressione è che l’attuale Governo opti per un diritto penale “massimo”, poiché si è criminalizzata anche una serie di modi di essere degli individui, o i loro “atteggiamenti interiori”, come nell’ipotesi della incriminazione della resistenza passiva nel DDL sicurezza, cioè una sorta di “diritto penale totale”, per dirla con il collega Filippo Sgubbi[17].
Si potrebbe, invece, ulteriormente ripensare al codice penale, trasformando in illeciti amministrativi, in genere le contravvenzioni, e mutando in delitti quelle sole ritenute necessarie al “passaggio di grado”. Non ci sembra, però, che si sia intenzionati a procedere in questa direzione.
7. Il contrario pronunciamento del luglio 2024 del Consiglio d’Europa. Conclusioni.
Potrà, però, certamente avere influenza sulla proposta di Direttiva - perché ciò potrebbe comportare una revisione della proposta stessa - il senso diverso cui si dirige il pronunciamento, del luglio 2024, del Consiglio dell’Unione Europea. La Corte costituzionale potrebbe, comunque, come avvenuto anche in un recente passato, “ripassare la palla” al legislatore, il quale, però, a differenza che nel passato, si è già espresso sul punto.
Concludiamo specificando che il vero problema, però, consiste in una mancata codificazione penale sostanziale, disattesa, nonostante tutti gli interventi in tal senso portati avanti negli anni dalle varie Commissioni ministeriali succedutesi. Invero, l’unico intervento concreto è stato quello di riforma del codice di procedura penale, che ha portato alla transizione da un sistema inquisitorio ad uno “tendenzialmente accusatorio”, come si espresse ufficialmente a suo tempo il Ministro della Giustizia, prof. Giuliano Vassalli. Il codice penale, invece, è rimasto quello del 1930, così favorendo una serie di integrazioni eterogenee e non coordinate fra loro, né con la parte generale, né con quella speciale[18]. Tra l’altro, con il continuo ricorso al decreto-legge, si evidenzia come il potere dello Stato in crisi, sia, purtroppo, quello parlamentare.
In tale contesto, si favorisce, pertanto, l’incremento di un diritto penale di carattere “populistico-securitario”, teso a calmare – illusoriamente – i bisogni emotivi di pena e di sicurezza della popolazione. Difatti, ogni qualvolta sussistono situazioni emergenziali, ecco che interviene subito il diritto penale, con la creazione di nuove fattispecie, oppure con l’inasprimento penologico di quelle preesistenti, e ciò in netto contrasto con il diritto penale liberale, orientato alla Costituzione.
[1] MANNA, Abolizione dell’abuso d’ufficio e gli ulteriori interventi in tema di delitti contro la P.A.: note critiche, in questa Rivista 6 agosto 2024; MANNA-SALCUNI, Dalla “burocrazia difensiva” alla “difesa della burocrazia”? Gli itinerari incontrollati della riforma dell’abuso d’ufficio, in LP, 17.12.2020.
[2] GATTA, Abuso d’ufficio e traffico di influenze dopo la l. 114/2024: il quadro dei problemi di diritto intertemporale e le possibili questioni di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 2024, n. 7 - 8, 187 ss.
[3] Cfr. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, 25 ss. e, quivi, 27 ss.
[4] PAGLIARO, Pluridimensionalità della pena, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, Padova, 1964, 327, nonché, quivi, ID, Il diritto penale fra norma e società, Scritti 1956-2008, III, I, Milano, 2009, 861 ss. e, spec., 862-863.
[5] PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in RIDPP, 1983, 484 ss.
[6] BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIX, 1973, 7 ss., nonché in ID, Scritti di diritto penale, I, I, Milano, 1997, 539 ss.
[7] Cfr. MERLO, La felicità di Sisifo: a proposito dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, in DPP, 2024, 1113 ss.
[8] Sia consentito, in argomento, il rinvio a MANNA, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014.
[9] FERRAJOLI, Giustizia e Politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Bari, 2024, 80 ss.
[10] Corte cost. 21/98, in FORTI-RIONDATO-SEMINARA, Commentario breve al codice penale, 7ᵃ, Milano, 2024, 2507. V. anche ora l’intervista a Luigi Ferrajoli di P. Pallone, in Ante Litteram, 2024, n. 2, 8 ss.
[11] Cfr. Abolizione parziale del traffico di influenze illecite: la Procura di Foggia chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 1.10.2024.
[12] Da ultimo e tuttavia nel senso della sussistenza di un vero e proprio obbligo di penalizzazione dell’abuso d’ufficio derivante dalla Convenzione di Merida, tenendo conto anche della correlativa “Legislative Guide”, Trib. Firenze, ord. 25.10.2024, Pres. Belsito, Est. Innocenti, in questa Rivista, 28 ottobre 2024.
[13] Cfr. Trib. Busto Arsizio, ord. 21.10.2024, Pres. Fazio, Giud. Ferrazzi e Montanari, in questa Rivista, 25 ottobre 2024.
[14] Dello stesso v. ora, da ultimo, ID, Ogni modello ha bisogno del suo interprete, in Diritto di Difesa, 2023, 449 ss.
[15] FERRAJOLI, Sul diritto penale minimo (risposta a Giorgio Marinucci e a Emilio Dolcini), in Foro it., 2000, V, 125 ss.
[16] Cfr. MUSCO, A proposito del diritto penale «comunque ridotto», in PEPINO (a cura di), La riforma del diritto penale, Milano, 1993, 170 ss.
[17] SGUBBI, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019.
[18] Cfr. già FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in RIDPP, 1993, 16 ss.