Entro il 20 febbraio[1] prossimo la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità – tra gli altri[2] – di quattro quesiti referendari in materia di ordinamento giudiziario, con i quali i promotori[3] cercano di riportare nel dibattito pubblico temi particolarmente cari a chi opera nel “sistema giustizia”. Nel frattempo il Governo, secondo quanto si apprende dalla stampa, si appresta a presentare emendamenti al disegno di legge AC 2681, attualmente all’esame della Commissione Giustizia, i quali potrebbero, se approvati, determinare l’interruzione del procedimento referendario. È infatti appena il caso di ricordare che, secondo l’art. 39 della legge n. 352 del 1970, se le disposizioni oggetto di referendum sono abrogate, l’Ufficio centrale per il referendum istituito presso la Corte di Cassazione dichiara che le operazioni non hanno più corso, salvo che l’abrogazione sia accompagnata da altra disciplina della stessa materia che non modifica né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente, né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti. In tali ipotesi il referendum si effettua sulle nuove disposizioni legislative (così Corte costituzionale, sentenza n. 68 del 1978).
Con queste brevi note si intende svolgere qualche riflessione sul probabile esito del giudizio di ammissibilità e interrogarsi su ciò che potrebbe accadere se fossero approvate, prima o dopo il giudizio della Corte, modifiche alle disposizioni oggetto di referendum.
1. Il primo dei quattro quesiti che qui si esamina è intitolato Separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati ordinari[4].
Si tratta di denominazione corretta, poiché ciò che si otterrebbe in caso di esito positivo del referendum è di rendere irreversibile la scelta fatta dal magistrato, al termine del tirocinio, in ordine alla funzione, giudicante o requirente, che intende svolgere, mentre oggi quella scelta può essere modificata quattro volte nel corso della carriera, pur con l’obbligo di cambiare sede (v. art. 13, comma 3, d.lgs. 160 del 2006). Separazione “delle funzioni”, dunque, e non “delle carriere”, in quanto la disciplina della carriera resterebbe la medesima per i giudici e i pubblici ministeri (stesso concorso iniziale, stessa progressione economica, stesse valutazioni di professionalità, ecc.). La Corte costituzionale, nella sentenza n. 37 del 2000, stigmatizzò invece il titolo Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti allora assegnato ad analogo quesito dall’Ufficio centrale, evidenziandone inadeguatezza, in quanto «in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte».
La sentenza da ultimo menzionata costituisce precedente “in termini” a favore dell’ammissibilità del quesito. Anche allora i promotori vollero chiedere ai cittadini di esprimersi sull’opportunità di distinguere più nettamente la funzione di giudice da quella di pubblico ministero e la Corte ammise il quesito osservando che la disciplina in oggetto non rientra nella categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, in quanto la Costituzione, pur considerando la magistratura come un unico ordine, non impone una carriera unica o carriere separate, né impedisce di limitare il passaggio da una funzione ad un’altra.
In quell’occasione, il quesito non raggiunse il quorum di partecipazione costituzionalmente previsto e ora i promotori riprovano a sollecitare un pronunciamento popolare.
Rispetto ad allora, però, la disciplina del tramutamento delle funzioni è cambiata: se, a quel tempo, per ottenere l’obiettivo era sufficiente chiedere l’abrogazione di quattro disposizioni contenute nel r.d. n. 12 del 1941, oggi i proponenti hanno dovuto formulare un quesito ben più complesso, che coinvolge più disposizioni normative (ben undici) contenute in fonti diverse (r.d. n. 12 del 1941, legge n. 1 del 1963, d.lgs. n. 26 del 2006, d.lgs. n. 160 del 2006, d.l. n. 193 del 2009).
Eppure, nonostante la maggiore ampiezza e complessità del quesito, non pare che la richiesta possa andare incontro ad una decisione di inammissibilità. Se si leggono con attenzione le disposizioni incluse del quesito, si comprende infatti immediatamente che il nucleo essenziale è costituito dall’abrogazione di molte delle norme contenute nell’art. 13 del d.lgs. n. 160 del 2006, che oggi regola nel dettaglio l’attribuzione delle funzioni e il passaggio dalle quelle giudicanti a quelle requirenti e viceversa; e che tutte le altre disposizioni sono coinvolte al solo scopo di non creare dubbi interpretativi o disarmonie normative in caso di abrogazione di larga parte del citato art. 13. Insomma, per usare le parole della Corte, il quesito – pur coinvolgendo plurime disposizioni – ha una matrice razionalmente unitaria, chiaramente comprendendosi l’obiettivo che si otterrebbe votando “sì”. Sarebbe peraltro paradossale che, da un lato, si chiedesse ai promotori di formulare un quesito “completo” (v., ad esempio, sentenza n. 27 del 1981) e, dall’altro, si imputasse loro di aver coinvolto “troppe” disposizioni normative. La discutibile tecnica legislativa (qui mostrata dal sovrapporsi di norme scarsamente coordinate tra loro) produrrebbe ingiustamente un effetto preclusivo sulla domanda dei promotori. Contano l’univocità e la chiarezza della domanda, che qui non difettano.
Certo – come già osservò la Corte costituzionale nella già menzionata sentenza n. 37 del 2000 – l’esito positivo del referendum in oggetto esigerà che il legislatore operi qualche correzione alla disciplina di risulta. Si pensi, ad esempio, all’assegnazione iniziale delle funzioni al neo-magistrato, la quale oggi spesso dipende non da una libera scelta, bensì dalla graduatoria e dalla disponibilità dei posti; sarebbe irragionevole che una decisione, così “casuale”, fosse irreversibile. Ma questo non costituisce motivo di inammissibilità, bensì la naturale conseguenza di un referendum “abrogativo” (e non propositivo).
Argomentata l’ammissibilità del quesito, possiamo ora chiederci se la votazione potrebbe essere preclusa da una riforma delle disposizioni sopramenzionate. È accaduto spesso, infatti, che il legislatore abbia modificato le norme oggetto di referendum, obbligando l’Ufficio centrale del referendum presso la Corte di cassazione a dichiarare la cessazione delle operazioni referendarie.
Nel caso che ci occupa non basterebbe la riduzione a due (rispetto alle attuali quattro) del numero delle possibilità per un magistrato di passare dall’una all’altra funzione. Tale proposta è contenuta nell’art. 10, comma 1, lettera b), del disegno di legge AC 2681. Anche se fosse approvata, il referendum abrogativo manterrebbe la sua validità (non venendo meno i principi ispiratori della disciplina preesistente) e l’Ufficio centrale dovrebbe trasferire il quesito sulla norma nuova. Toccherà poi agli elettori valutare se, nel merito, preferiscono che un magistrato abbia la possibilità di cambiare funzioni due sole volte nel corso della carriera oppure ritengono opportuno impedirlo in radice, soppesando gli argomenti a favore o contro una netta separazione delle funzioni, da tempo oggetto di confronto nel dibattito scientifico e in quello pubblico.
2. Un secondo quesito referendario, di cui tanto si sta discutendo, ha ad oggetto il ruolo della componente “laica” dei Consigli giudiziari e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione. Si tratta di organi che esprimono pareri sui provvedimenti di rilevanza tabellare assunti in ciascun distretto, nonché sui provvedimenti che il Csm è chiamato ad assumere sui magistrati appartenenti a quel distretto (autorizzazione allo svolgimento di incarichi extra-giudiziari, collocamento fuori ruolo, valutazioni di professionalità, conferimento di incarichi direttivi o semi-direttivi, conferme, incompatibilità, ecc.). Nel corso degli anni il ruolo di tali organi è aumentato poiché, conoscendo meglio la realtà del distretto, sono in grado di rappresentare al Csm la situazione reale.
Ne fanno parte magistrati (in larga maggioranza), avvocati e professori universitari. Nessuno di tali soggetti è collocato fuori ruolo, nessuno percepisce alcuna forma di compenso; per i magistrati è prevista una riduzione del carico di lavoro ordinario (che può arrivare sino al 50 per cento).
Vi è però una profonda differenza nel ruolo svolto dalle due componenti, in quanto il d.lgs. 25 del 2006 stabilisce che il Consiglio giudiziario si riunisca in composizione “ordinaria” in alcuni casi e in composizione “ristretta” – ossia senza la presenza della componente laica – in altri. In estrema sintesi, all’“ordinaria” sono assegnate tutte le pratiche che riguardano questioni tabellari o più latamente organizzative, alla “ristretta” le pratiche che incidono sullo status dei singoli magistrati.
Dato questo contesto, l’obiettivo dei promotori è quello di equiparare la posizione dei togati e dei laici e, dunque, eliminare la distinzione tra convocazioni in “ordinaria” e in “ristretta”: tutti i componenti del Consiglio giudiziario si occuperebbero di tutte le pratiche di competenza del Consiglio giudiziario. Ad esempio, anche avvocati e professori universitari potrebbero esprimersi sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, sul modo in cui un dirigente ha gestito l’ufficio, sulla sussistenza di una causa di incompatibilità, ecc.
La denominazione attribuita al quesito segnala chiaramente l’obiettivo della richiesta: Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte.
Nel dettaglio, i promotori chiedono di abrogare le parole, contenute negli artt. 8, comma 1, e 16, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2006, che determinano una limitazione della competenza dei laici. Il medesimo risultato si sarebbe ottenuto – forse in modo più lineare – chiedendo l’abrogazione degli “interi” artt. 8 e 16 del d.lgs. n. 25 del 2006. Si produrrebbe comunque il medesimo effetto, ossia il venir meno del diverso peso della componente togata e di quella laica, che oggi caratterizza i lavori del Consiglio e che si riflette indirettamente anche sul modo di lavorare in composizione ordinaria. Insomma, un cambiamento radicale del modo in cui oggi operano tali organi.
A prescindere da come è stato formulato il quesito, esso non pare incontrare ostacoli in punto di ammissibilità. Si tratta di norme che non hanno un contenuto costituzionalmente vincolato, rientrando nella piena discrezionalità legislativa le decisioni in ordine all’istituzione di tali organi, alla loro composizione e all’estensione dei compiti di natura istruttoria e consultiva. Il quesito è chiaro e ha una matrice razionalmente unitaria.
Di maggiore interesse è valutare se una eventuale riforma delle norme in parola potrebbe determinare la cessazione del procedimento referendario. Se fosse approvato il già citato disegni di legge AC 2681, la risposta potrebbe essere negativa. È vero che cambierebbe il contenuto normativo essenziale delle disposizioni interessate dal referendum, ma non cambierebbe il loro principio ispiratore: infatti il disegno di legge AC 2681 intende assicurare alla componente laica solo il “diritto di tribuna” (diritto che alcuni regolamenti di Consigli giudiziari hanno già concesso, senza peraltro determinarne i contenuti: diritto ad assistere o anche ad intervenire nelle discussioni?). Inoltre, si tratta di norma di delega, per sua natura non immediatamente precettiva.
A diverso esito potrebbe giungere l’Ufficio centrale se fosse approvata una disposizione che equiparasse pienamente il ruolo delle due componenti.
In questi giorni, sulla stampa si legge che ci sarebbe la volontà politica di attribuire ai laici il “diritto di voto”. È necessario tuttavia attendere il testo dell’emendamento prima di svolgere delle considerazioni sulla satisfattività di tale soluzione rispetto al quesito referendario. L’espressione “diritto di voto” infatti risulta imprecisa: non è la possibilità di votare che i promotori vorrebbero ottenere (raramente si arriva, in tali organi, a “votare” su proposte alternative), bensì la possibilità che la componente laica partecipi in una posizione di parità ai lavori del Consiglio giudiziario istruendo le pratiche e contribuendo a stendere i giudizi e i pareri, con tutte le conseguenze che ciò comporta – e di cui certo il legislatore si dovrebbe fare carico – in termini di organizzazione dei lavori del Consiglio, nonché di impegno di ciascun membro.
3. Il terzo quesito referendario in tema di ordinamento giudiziario ha ad oggetto una disposizione contenuta nella legge n. 195 del 1958 e riguarda il sistema elettorale per la componente togata del Consiglio superiore della magistratura. Si intende chiedere agli elettori di abrogare l’art. 25, comma 3, nella parte in cui prevede che ciascuna candidatura debba essere accompagnata da un elenco di firme di numero non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. La denominazione data a tale quesito - Abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura - è piuttosto generica e non riesce ad esplicitare l’oggetto specifico della richiesta. A differenza di quelli precedentemente illustrati, il quesito in parola risulta infatti piuttosto limitato nella sua portata normativa, mentre ha un chiaro significato politico.
Più precisamente, l’abrogazione avrebbe l’effetto di consentire a ciascun magistrato di presentare la propria candidatura per il Consiglio superiore della magistratura senza dover ottenere le firme di colleghi “presentatori”. Poiché è ormai noto che l’elezione dei componenti del Csm è gestita dalla magistratura associata e da tempo molti lamentano che le candidature siano “pre”-determinate dai gruppi associativi rendendo quasi inutile il voto, i promotori assumono che la possibilità per ciascun magistrato di candidarsi senza raccogliere le firme ovvierebbe a tale criticabile prassi e amplierebbe il numero dei candidati “indipendenti”.
In realtà, chi studia questi temi sa benissimo che, anche eliminando l’onere di raccogliere le firme, difficilmente i singoli magistrati si candiderebbero senza avere un consenso ampio (che rende facile raccogliere le firme) o l’appoggio di un gruppo associativo. Altra è invece la necessità di indurre i gruppi associativi a favorire la presentazione di un numero di candidati maggiore rispetto a quanto fatto sinora, così da ampliare la scelta dei magistrati elettori. Ma, per ottenere questo risultato, la riduzione del numero delle firme non è sufficiente.
Cionondimeno, il quesito referendario appare ammissibile, poiché – pur in materia elettorale – esso mira ad abrogare una norma che, nel sistema dell’elezione del Csm, non ha la natura di disposizione costituzionalmente necessaria. Infatti, anche qualora l’art. 25, comma 3, fosse abrogato, il sistema elettorale funzionerebbe egualmente (a differenza di ciò che sarebbe avvenuto qualora la Corte avesse ammesso il referendum proposto sugli artt. 25, 26 e 27 della l. n. 195 del 1987: v. sentenza n. 29 del 1987).
Né, infine, quella che impone la raccolta delle firme a sostegno delle candidature al Csm dovrebbe essere considerata norma a contenuto costituzionalmente vincolato. Il dubbio potrebbe forse sorgere se si vertesse in tema di sistema elettorale per il rinnovo di un organo politico dove tale onere risponde all’«interesse istituzionale ed obiettivo al regolare svolgimento della competizione elettorale» (sentenza n. 48 del 2021); ma la disposizione oggetto della richiesta referendaria regola l’elezione di un organo a composizione ristretta, a candidatura individuale e, soprattutto, con un elettorato relativamente ridotto. Pertanto, il legislatore può certo avere interesse ad evitare candidature fuorvianti o poco serie e imporre la raccolta delle firme anche nel procedimento di composizione del Csm, tuttavia sarebbe forse eccessivo, in una elezione di questa natura, affermare che tale onere è costituzionalmente obbligatorio.
Per quanto limitato nella sua portata normativa, indubbio è, invece, il significato politico della richiesta referendaria in esame: sollecitare una riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura capace di restituire ai magistrati elettori la libertà di scegliere fra più candidati senza vincoli di appartenenza.
Difficile però che tale quesito possa giungere al voto, se, come sembra, il sistema elettorale per la componente togata verrà prossimamente riformato, e soprattutto se – come si legge – verranno introdotti anche meccanismi capaci di garantire un ampio numero di candidature, non solo abbassando il numero delle firme necessarie, ma anche prevedendo, nel caso in cui i candidati “spontanei” fossero troppo pochi, un sorteggio o altro procedimento capace di assicurare un numero adeguato di candidati.
4. L’unico quesito referendario in materia di ordinamento giudiziario della cui ammissibilità si può nutrire qualche dubbio è quello sulla legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Si chiede di abrogare singole parole (“contro lo Stato”, “non può essere chiamato in causa ma”, “in sede di rivalsa”, “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”) contenute in cinque diverse proposizioni normative della legge n. 117 del 1988, come modificata dalla legge n. 18 del 2015, allo scopo di introdurre la possibilità per la parte che abbia subito un danno da un magistrato nell’esercizio delle funzioni di agire “direttamente” contro quest’ultimo.
Secondo la disciplina vigente, salvo che il danno sia stato causato dal magistrato in conseguenza di un fatto costituente reato, l’azione deve invece essere promossa contro lo Stato, che poi, in caso di condanna al risarcimento dei danni, è obbligato a rivalersi sul magistrato.
Il titolo assegnato al referendum dall’Ufficio centrale, tenuto conto delle osservazioni dei promotori, è Responsabilità civile diretta dei magistrati: abrogazione di norme processuali in tema di responsabilità civile dei magistrati per danni cagionati nell’esercizio di funzioni giudiziarie.
L’oggetto prescelto dai promotori non è nuovo.
Di certo si ricorderà che i cittadini si espressero in materia già nel 1987[5]. In quella prima occasione il quesito aveva ad oggetto tutte le (poche) norme del codice di procedura civile del 1940 che regolavano (limitandola) la responsabilità civile dei magistrati. Esso fu dichiarato ammissibile in quanto omogeneo ed univoco (sentenza n. 26 del 1987[6]). L’abrogazione dell’intera disciplina restituì al legislatore il compito di introdurne una nuova, che fu inserita nella legge n. 117 del 1988.
Vi sono stati poi altri due tentativi di riportare gli elettori ad esprimersi sul tema con l’obiettivo di affermare una responsabilità “diretta” del magistrato, ma sono stati rigettati dalla Corte costituzionale. Nel primo caso, essa rilevò una complessiva assenza di chiarezza nella richiesta referendaria poiché era equivoca la posizione che avrebbe avuto, nella normativa di risulta, lo Stato (sentenza n. 34 del 1997). Nel secondo caso, l’inammissibilità fu determinata dal fatto che la richiesta referendaria non si presentava «come puramente ablativa, bensì come innovativa e sostitutiva di norme» e per mancanza (ancora una volta) di chiarezza, in quanto l’approvazione del quesito avrebbe creato incertezze sulla disciplina applicabile (sentenza n. 38 del 2000).
Il quesito di cui a breve la Corte costituzionale dovrà occuparsi sembra presentare analoghi difetti di formulazione. È vero che, a differenza di quello giudicato inammissibile nel 2000, il quesito qui in esame si propone di abrogare solo poche parole, in modo da eliminare il riferimento all’azione contro lo Stato nei casi in cui viene identificata come l’“unica” azione possibile. Tuttavia, proprio perché resta la possibilità di esercitare l’azione contro lo Stato, non è chiaro quale sarà il rapporto tra quest’ultima azione e quella – desumibile in via interpretativa – contro il magistrato, soprattutto tenuto conto che, con le modifiche apportate alla legge n. 117 del 1988 nel 2015, le ipotesi in cui oggi lo Stato risponde non coincidono con quelle in cui il magistrato deve risarcire i danni in sede di rivalsa.
Inoltre, se è innegabile che l’abrogazione comporta sempre di per sé una modificazione della realtà normativa, tuttavia, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, con la tecnica del ritaglio non può essere perseguito l’effetto, proprio invece di un referendum propositivo, di sostituire la disciplina investita dalla domanda referendaria con un’altra disciplina assolutamente diversa: in questo caso, il limite della manipolatività potrebbe forse dirsi superato.
Se, invece, la Corte dovesse ritenere diversamente – ossia che la normativa di risulta non desti problemi interpretativi insuperabili – non si vedono altri ostacoli al voto. La legge n. 117 del 1988 non rientra in alcuna delle categorie di leggi sottratte al voto referendario ex art. 75 Cost., né dovrebbe essere qualificata legge a contenuto costituzionalmente vincolato. Essa individua un bilanciamento tra responsabilità dei magistrati e loro indipendenza escludendo ogni forma di responsabilità diretta, ma tale soluzione non è l’unica possibile, se è vero che – come la stessa Corte costituzionale ricordò nella sentenza n. 2 del 1968 – la responsabilità “personale” di cui all’art. 28 Cost. certamente si riferisce anche ai magistrati (così anche sentenza n. 385 del 1996).
[1] L’art. 33 della legge n. 352 del 1970 prevede che la Corte costituzionale tenga la camera di consiglio entro il 20 gennaio e decida entro il 10 febbraio. L’art. 3 del decreto-legge n. 132 del 2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 178 del 2021, ha previsto, solo per le richieste presentate nel 2021, la proroga di un mese di tutti i termini previsti dagli artt. 32 e 33 della citata legge n. 352. Nonostante il decreto-legge n. 132 proroghi i termini per il deposito delle firme di cui all’art. 32, è da ritenere che la proroga dei termini per la decisione della Corte di cui all’art. 33 si riferisca a tutte le richieste di referendum, anche a quelle presentate dai Consigli regionali. Non solo, infatti, l’art. 32, comma 1, sembra genericamente riferirsi a tutte le richieste referendarie (non solo a quelle sottoscritte da 500.000 cittadini), ma sarebbe irragionevole che la Corte dovesse decidere entro il 10 febbraio l’ammissibilità dei quesiti presentati dai Consigli regionali ed entro il 10 marzo l’ammissibilità di quelli sottoscritti dai cittadini. A prescindere da chi promuove il referendum, il procedimento di ammissibilità è unitario.
[2] Ben nove sono le richieste referendarie presentate nell’autunno del 2021 e su cui i cittadini italiani potrebbero essere chiamati ad esprimersi entro l’estate 2022. Di queste, sei sono state presentate come referendum “sulla giustizia”. In queste brevi note ci si soffermerà però solo sui quattro quesiti che attengono a temi di ordinamento giudiziario.
[3] Promotori dei referendum “sulla giustizia” sono stati gli esponenti di due partiti (Partito radicale e Lega). Pur avendo raccolto un numero assai ampio di firme, (presumibilmente) per evitare di raccogliere i certificati elettorali e quindi per rendere più agevole il procedimento, è stato deciso di far presentare i medesimi quesiti da alcuni Consigli regionali. Pertanto, promotori risultano i Consigli regionali di Basilicata, Friuli Venezia-Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto. Si tratta di una prassi inedita, che, se ripetuta, rischia di accentuare ancora di più l’uso “partitico” dell’unico strumento di democrazia “diretta” previsto dalla nostra Costituzione. Senza nascondere alcune rilevanti conseguenze pratiche di tale scelta, come, ad esempio, l’impossibilità di concorrere – in caso di raggiungimento del quorum di partecipazione – al fondo destinato al rimborso delle spese sostenute per la raccolta delle firme (previsto dall’art. 1, comma 4, della legge n. 157 del 1999).
[4] Questo è infatti il titolo che l’Ufficio centrale per il referendum, accogliendo le osservazioni dei proponenti, ha assegnato al quesito (v. provvedimento del 19 novembre 2021).
[5] Per una sintetica “storia” della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati sia consentito rinviare a N. Zanon e F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, 2019, 348 ss.
[6] In tale pronuncia si legge: «non appare seriamente contestabile l’omogeneità ed univocità di un quesito con cui si viene a coinvolgere nella sua interezza lo specifico regime che, allo stato attuale della legislazione, contraddistingue la responsabilità civile dei magistrati».