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28 Marzo 2020


Alle Sezioni Unite il compito di chiarire il confine tra i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione

Cass., Sez. II, ord. 25 settembre 2019 (dep. 16 dicembre 2019), n. 50696, Pres. Rago, rel. Recchione, ric. Filardo e a.



1. Segnaliamo ai lettori che il prossimo 16 luglio le Sezioni Unite penali della Cassazione, interpellate dalla Seconda sezione della Corte con l’ordinanza di cui in epigrafe, saranno chiamate a decidere in ordine ai rapporti tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone di cui all’art. 393 c.p. e il delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p.

A fronte dei molteplici contrasti giurisprudenziali che da anni interessano questa materia, la Suprema Corte ha infatti chiesto al massimo organo di nomofiliachia del nostro ordinamento di chiarire:

a) se la differenza tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione vada rintracciata nell’elemento materiale del reato o, piuttosto, nell’elemento psicologico;

b) se, qualora si riconosca quale elemento differenziale quello soggettivo, occorra comunque attribuire rilevanza anche all’entità della violenza o della minaccia esercitate;

c) se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia o meno un reato proprio “di mano propria” e, dunque, se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo nel fatto di reato.

 

2. Nel caso di specie, la Cassazione si trovava a valutare il ricorso presentato da tre soggetti condannati in primo e in secondo grado per il reato – realizzato in concorso tra di loro – di tentata estorsione aggravata dall’uso del metodo mafioso.

Nel procedimento era in particolare emerso che G.N., uno degli imputati, aveva concluso con una società di costruzioni un contratto mediante il quale il primo trasferiva un terreno di sua proprietà in permuta alla seconda, che si impegnava a ritrasferirgli la proprietà di alcuni degli immobili che avrebbe realizzato sul medesimo terreno; la seconda parte dell’accordo, tuttavia, non veniva prontamente eseguita, in quanto la sorella di G.N. avviava un contenzioso civile con la società in questione, vantando alcuni diritti sul terreno oggetto di permuta. Desideroso di ottenere il trasferimento degli immobili promessi nonostante la pendenza della causa, G.N. si faceva allora accompagnare presso il cantiere della società dagli altri due imputati, i quali si presentavano come “calabresi di Rosarno”: tutti e tre, rivolgendosi ad alcuni dei soci ivi presenti, intimavano agli imprenditori di procedere al trasferimento dei beni in questione, minacciando che in caso contrario qualcuno si sarebbe “fatto male”; i due accompagnatori di G.N., inoltre, ostentavano a fini intimidatori i propri collegamenti con la ‘ndrangheta.

 

3. Come già anticipato, i giudici di merito qualificavano tali fatti in termini di tentata estorsione aggravata ex art. 416-bis.1 c. 1 c.p. (in precedenza art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152). Gli imputati ricorrevano allora in Cassazione contestando tale qualificazione giuridica, sostenendo che il caso di specie dovesse piuttosto essere inquadrato nel delitto di cui all’art. 393 c.p., considerato che G.N. vantava nei confronti delle persone offese un credito giuridicamente tutelato e che la condotta illecita appariva unicamente preordinata alla soddisfazione di tale credito.

Come immediatamente chiarito anche nell’ordinanza qui in commento, in effetti, nel procedimento in questione non era in alcun modo contestato che G.N. fosse titolare nei confronti della società di costruzioni di una pretesa tutelabile in giudizio ai sensi dell’art. 2932 c.c., che l’imputato aveva però cercato di soddisfare mediante il ricorso alla minaccia; ciò nondimeno, la Suprema Corte solleva dei dubbi circa la corretta qualificazione giuridica dei fatti di specie, stante l’esistenza di diversi orientamenti giurisprudenziali volti a delineare in maniera differente il confine tra il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione.

Due sono in particolare i macro-indirizzi rintracciati dalla Seconda sezione della Corte, l’adesione all’uno o all’altro dei quali avrebbe imposto di fornire al caso in esame soluzioni differenti in termini di inquadramento giuridico.

 

3.1. Un primo orientamento individua la differenza tra le due fattispecie nell’elemento oggettivo del reato, avuto riguardo al livello di gravità della violenza o della minaccia esercitate: in presenza di una gravità particolarmente elevata, infatti, la condotta violenta o minacciosa – anche se diretta a far valere una pretesa giuridicamente tutelata – dovrebbe univocamente essere inquadrata nel delitto di estorsione.

Più precisamente, secondo la giurisprudenza che si è fatta portatrice di questo indirizzo[1] nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la condotta violenta o minacciosa deve essere strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il proprio preteso diritto, sicché ogni manifestazione intimidatoria sproporzionata o gratuita che appaia eccedere tale intento si tradurrebbe automaticamente in una coartazione dell’altrui volontà finalizzata a conseguire un profitto ingiusto, rilevante ex art. 629 c.p. La pretesa, cioè, qualora fatta valere mediante violenza o minaccia di ingiustificata gravità, si tramuterebbe necessariamente in “ingiusta”, anche laddove correlata a un diritto tutelabile in via giudiziaria.

Un filone interpretativo più recente sempre riconducibile a tale orientamento ha invece valorizzato quale discrimen tra le fattispecie in questione non tanto l’intensità della violenza o della minaccia utilizzate, quanto piuttosto l’efficacia costrittiva della condotta[2]. Viene in proposito messo in luce che sotto il profilo della condotta gli artt. 393 e 629 c.p. non presentano differenze e che, anzi, lo stesso delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sembrerebbe ammettere che l’intimidazione possa raggiungere anche livelli elevati di gravità, prevedendo una specifica fattispecie aggravante (ex art. 393 c. 3 c.p.) per il caso in cui la condotta sia posta in essere mediante armi. La vera differenza risiederebbe, allora, nell’evento del reato, che nel caso del delitto di esercizio arbitrario consiste nella soddisfazione di una pretesa legittima (il “farsi ragione da sé”), mentre nel delitto di estorsione è integrato dalla costrizione della vittima a fare od omettere qualcosa da cui l’agente ricava un ingiusto profitto con altrui danno; a tale distinzione corrisponde, tra l’altro, una diversa identificazione del bene giuridico protetto dalle norme incriminatrici in questione: mentre il delitto di cui all’art. 393 c.p. – incluso nel capo del Titolo XIII dedicato ai delitti contro l’amministrazione della giustizia – tutela il monopolio statale nella risoluzione delle controversie, il delitto di estorsione tutela direttamente l’individuo, in relazione alla libertà di disporre del proprio patrimonio in assenza di coartazione altrui.

Detto in altri termini, la soddisfazione di un preteso diritto attraverso la coazione alla persona sarebbe di per sé “ingiusta”, anche laddove esso sia tutelabile per via giudiziaria. Ai fini di un corretto inquadramento nell’una o nell’altra fattispecie, dunque, secondo questa impostazione il giudice dovrebbe svolgere un’accurata valutazione di merito volta ad accertare, attraverso l’analisi delle emergenze processuali, se la condotta abbia in concreto prodotto un effetto costrittivo.

 

3.2. Un orientamento contrapposto a quello appena esaminato attribuisce invece rilevanza all’elemento soggettivo. A prescindere dalla gravità della violenza o della minaccia esercitate, cioè, l’elemento differenziale tra i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. risiederebbe nell’atteggiamento psicologico dell’agente, potendo sussistere il delitto di estorsione esclusivamente laddove questi «abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all’autorità giudiziaria»[3].

In questo senso, l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni sarebbe caratterizzato non dalla volontà di realizzare un profitto ingiusto, bensì «dal fine di esercitare un (…) preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile»[4]. A fronte dunque della volontà di realizzare, pur con mezzi illegittimi, una pretesa legittima, secondo questo orientamento il delitto di estorsione non sarebbe mai configurabile, potendosi al più rintracciare – laddove la violenza o la minaccia siano particolarmente gravi – il concorso tra il delitto di cui all’art. 393 c.p. e altri reati contro la persona (lesioni, omicidio, sequestro di persona…).

A sostegno di quest’interpretazione viene richiamato il già citato comma 3 dell’art. 393 c.p., che ammette la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni anche nel caso in cui la violenza o la minaccia siano poste in essere con armi, comminando in tal caso un aumento di pena; viene peraltro messo in luce che attribuire rilevanza alla gravità della violenza o della minaccia in sede di ricostruzione delle fattispecie in questione si porrebbe inevitabilmente in contrasto con il principio di legalità di cui all’art. 25 c. 2 Cost., poiché affiderebbe al giudice il compito di individuare la soglia di gravità oltre alla quale la condotta volta a realizzare una pretesa legittima andrebbe comunque qualificata come estorsiva, in assenza di criteri legali certi per compiere una simile operazione.

Nell’ordinanza in esame la Suprema Corte evidenzia, tuttavia, che tra le pronunce che pure hanno valorizzato l’elemento soggettivo quale fondamentale elemento di distinzione tra le fattispecie de quibus si è sviluppato un ulteriore sotto-orientamento, il quale, di fatto, riassegna rilievo decisivo all’elemento materiale, ossia alla condotta di violenza o minaccia[5]. Secondo le sentenze che aderiscono a questa particolare impostazione, perché possa rintracciarsi un fatto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è necessario che la pretesa coercitivamente attuata dall’agente corrisponda perfettamente all’oggetto della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico ai suoi legittimi interessi e non sia eccedente rispetto a questa; una particolare gravità della condotta violenta o minacciosa, pertanto, apparirebbe sintomatica della volontà di eccedere la legittima pretesa e di realizzare, con ciò, un ingiusto profitto. Una simile condotta, quindi, sarebbe di per sé indicativa del dolo di estorsione: essa, infatti, permetterebbe di evincere l’esistenza in capo all’agente di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che della mera volontà di soddisfare la propria pretesa legittima.

In virtù di queste considerazioni, quella parte della giurisprudenza che ha fatto proprio questo indirizzo è giunta ad affermare – al pari delle sentenze riconducibili al primo orientamento sopra riportato – che laddove si sia in presenza di manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza deve automaticamente ritenersi che la coartazione dell’altrui volontà sia finalizzata a conseguire un profitto in sé ingiusto, così configurandosi il più grave delitto di estorsione in luogo di quello di cui all’art. 393 c.p.

 

4.  Tutti questi indirizzi interpretativi, osserva con l’ordinanza annotata la Seconda sezione della Cassazione, presuppongono che tra il delitto di cui all’art. 393 c.p. e quello di cui all’art. 629 c.p. sussista un concorso apparente di norme, che secondo la Suprema Corte deve essere necessariamente ricondotto al criterio della specialità di cui all’art. 15 c.p., non essendosi in presenza di “clausole di riserva”. La Corte, nondimeno, mette in luce che entrambe le fattispecie posseggono degli elementi specializzanti l’una rispetto all’altra (c.d. specialità bilaterale o reciproca) e che valorizzare la differenza dei beni giuridici tutelati dalla due norme incriminatrici potrebbe persino portare alla soluzione opposta a quella accolta in giurisprudenza, ossia a ipotizzare l’esistenza di un concorso formale di reati[6].

 

5. A tali questioni si aggiunge, secondo l’ordinanza qui in commento, quella inerente alla configurabilità del concorso dell’extraneus nel delitto di cui all’art. 393 c.p.

La prevalente giurisprudenza di legittimità include il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni tra i cc.dd. reati propri esclusivi o di mano propria, che si caratterizzano per il fatto che la condotta tipica debba essere compiuta necessariamente dal soggetto qualificato, in questo caso dal titolare della pretesa giudizialmente tutelabile[7]. Di conseguenza, ogniqualvolta la condotta di violenza o minaccia sia attuata da un soggetto terzo, benché su mandato del titolare del diritto, dovrebbe trovare applicazione il delitto di estorsione: autore del fatto tipico di cui all’art. 393 c.p., infatti, potrebbe essere solo il soggetto qualificato, mentre il terzo potrebbe concorrere unicamente mediante condotte atipiche ex art. 110 c.p.

Questa posizione è ritenuta coerente con l’indirizzo che attribuisce rilevanza dirimente all’oggetto materiale del reato, in quanto si è affermato che quando il mandato alla riscossione del credito sia conferito a terzi estranei dotati di una più spiccata capacità di intimidazione (specialmente se appartenenti a organismi criminali) l’azione violenta appare di per sé idonea a produrre l’effetto costrittivo tipico dell’estorsione.

Parte della giurisprudenza, aderendo al contrario indirizzo che fa leva sulla differente caratterizzazione dell’elemento soggettivo, ritiene invece che nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo estraneo al diritto giudizialmente tutelabile vada accertato se costui sia o meno portatore di un interesse proprio autonomo rispetto all’interesse del mandante: qualora ciò avvenga, infatti, il fatto sarebbe sicuramente qualificabile in termini di estorsione, non potendo sussistere dubbi in ordine all’esistenza in capo all’autore del reato della volontà di realizzare un ingiusto profitto. Solo laddove il terzo agisca nell’interesse esclusivo del mandante, allora, potrebbe riscontrarsi il delitto di cui all’art. 393 c.p.[8].

Secondo la Seconda sezione della Corte, l’inquadramento del delitto di cui all’art. 393 c.p. tra i reati propri di mano propria appare tuttavia contestabile. Si osserva che tale tesi fa leva principalmente su due argomenti: un argomento letterale, ossia il fatto che la norma indichi che l’autore del fatto debba “farsi giustizia da se medesimo”; e un argomento sistematico, che, partendo dal presupposto che il bene tutelato dalla norma incriminatrice sia il c.d. monopolio giurisdizionale dello Stato nella risoluzione delle controversie e che lo stesso legislatore abbia scelto di “tollerare” in taluni casi la lesione a questo bene giuridico, prevedendo la procedibilità a querela, considera tale “tolleranza” inammissibile in presenza di un’intromissione di terzi estranei che si sostituiscano allo Stato nella propria funzione di amministrazione della giustizia. Secondo  l’ordinanza in commento, entrambi questi argomenti sono però confutabili. Dal punto di vista letterale, infatti, si osserva che al contempo la norma sembra deporre verso la configurabilità del delitto ex art. 393 c.p. in termini di reato comune, esordendo con il pronome “chiunque” e comunque non connettendo espressamente la titolarità del preteso diritto all’autore del fatto tipico; l’argomento di natura sistematica, invece, non appare di per sé sufficiente a giustificare la contrazione dell’area di operatività dell’art. 110 c.p. in materia di concorso di persone.

In sintesi, la Suprema Corte ritiene che «nel caso previsto dall’art. 393 c.p. non vi siano ragioni “ontologiche”, correlate alla natura della condotta di esazione violenta del credito, che impediscono che l’azione materiale descritta dall’art. 393 c.p. sia posta in essere da terzi esecutori che agiscono per soddisfare le ragioni del mandante»[9].

 

* * *

 

6. Posta di fronte a tante questioni tuttora aperte, la Cassazione ha perciò deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite, esplicitando i propri dubbi interpretativi nei tre quesiti di cui si è detto in premessa.

È di immediata evidenza quale sia la radice del problema, oltre che la ragione per cui da diversi anni parte della giurisprudenza ha preferito un’interpretazione volta a restringere il campo di applicazione del delitto di cui all’art 393 c.p. in favore del delitto di estorsione. La pena comminata per il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alla persona (reclusione fino a un anno) è infatti nettamente più lieve rispetto a quella prevista per il delitto di estorsione (reclusione da cinque a dieci anni e multa da euro 1.000 a 4.000) e sostanzialmente “bagatellare”; per il delitto di cui all’art. 393 c.p. è inoltre prevista la procedibilità a querela, elemento che rischia di precludere la tutela penale proprio in quei casi in cui la violenza intimidatrice esercitata sulla vittima sia più grave e pervasiva.

Tali significative differenze, d’altro canto, rendono imprescindibile delimitare chiaramente gli ambiti applicativi delle due diverse fattispecie, nel rispetto dei principi di legalità e tassatività della legge penale: operazione che ci auguriamo possa essere finalmente compiuta dalle Sezioni Unite. In attesa del loro intervento, dunque, in questa sede vogliamo limitarci ad alcune riflessioni conclusive, al fine di meglio illustrare al lettore quelli che, a nostro giudizio, sono i nodi fondamentali dei complessi problemi ermeneutici in questione.

 

7. In primo luogo, ci pare che – prima ancora di entrare nel merito del contrasto giurisprudenziale rintracciato dalla Seconda sezione della Suprema Corte – le Sezioni Unite siano chiamate a fare chiarezza in ordine a una questione preliminare, affrontata solo en passant nell’ordinanza di rimessione, ma rispetto alla quale devono parimenti essere eliminati eventuali dubbi interpretativi tuttora esistenti: quella concernente il rapporto intercorrente, a livello strutturale, tra le fattispecie di cui agli artt. 393 e 629 c.p.

Nell’ordinanza in commento la Cassazione, come si è detto, ha ritenuto che tale questione debba essere risolta in termini di specialità tra i reati, riscontrando un caso di concorso apparente di norme; la stessa, tuttavia, sembra altresì lasciare aperta la strada del concorso formale di reati, che a suo giudizio potrebbe essere seguita laddove si valorizzasse la differenza tra i beni giuridici tutelati dai delitti in questione, la quale di per sé escluderebbe il rapporto di specialità[10]. Impostato in questi termini, tuttavia, il discorso ci sembra fuorviante. Il confronto strutturale tra le fattispecie criminose, invero, ci permette di rilevare che, nonostante l’identità sotto il profilo della condotta violenta o minacciosa, sul piano dell’elemento materiale i due reati sono chiaramente distinti tra loro, senza lasciare adito a sovrapposizioni: in un caso, infatti, la violenza o la minaccia sono i mezzi mediante i quali l’agente – il quale agisce “al fine di esercitare un preteso diritto” e “potendo ricorrere al giudice” – si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, nell’altro esse sono usate per costringere la persona offesa a fare o a omettere qualche cosa, da cui derivano un ingiusto profitto (per l’agente o altri) con altrui danno.

Le maggiori difficoltà ermeneutiche sembrano connesse all’uso nel delitto di cui all’art. 393 c.p. dell’espressione “farsi giustizia da sé medesimo”, che appare in grado di ricomprendere tanto i casi in cui la violenza o minaccia contro la persona siano utilizzate per consentire all’agente di conseguire autonomamente lo scopo prefissato[11] (si pensi a Tizio che, torcendo il braccio di Caio, gli sottragga dal polso l’orologio che ritenga essere di sua proprietà e che questi si rifiutava di restituire), quanto i casi in cui tali mezzi siano utilizzati per ottenere la cooperazione del soggetto passivo, ossia per costringerlo a porre in essere un atto di disposizione patrimoniale. In ogni caso, il reato è integrato dalla soddisfazione coattiva di un proprio preteso diritto che sia potenzialmente tutelabile in via giudiziaria[12]: situazione che appare radicalmente incompatibile con quella contemplata dal delitto di estorsione, che, al contrario, richiede che l’agente consegua un profitto ingiusto, ossia indebito perché fondato su una pretesa non riconosciuta dal diritto[13]. Piuttosto che di concorso apparente di norme, allora, ci sembra opportuno parlare di due fattispecie di reato strutturalmente autonome l’una dall’altra e tra di loro incompatibili[14].

 

8. In secondo luogo, le Sezioni Unite dovranno cercare di fornire delle indicazioni utili su come determinare, in concreto, quando un fatto rientri nel campo di applicazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quando, invece, esso configuri il più grave reato di estorsione.

In ordine a tale profilo, l’ordinanza della Seconda sezione della Cassazione ha chiaramente ricostruito i termini essenziali del contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità; da parte nostra, ci sembra di poter condividere le critiche mosse – in giurisprudenza come in dottrina – all’orientamento che attribuisce rilevanza alla gravità della violenza o della minaccia usate da chi agisca per esercitare un proprio preteso diritto: accogliere un simile indirizzo, infatti, non solo significherebbe introdurre surrettiziamente un elemento estraneo al delitto di cui all’art. 393 c.p., con buona pace del principio di legalità, ma attribuirebbe altresì alla sola discrezionalità del giudice il compito di individuare la non meglio specificata “soglia di gravità” oltre la quale il fatto integrerebbe, automaticamente, il delitto di estorsione. Del resto, come opportunamente messo in luce dalla Suprema Corte nella sentenza Fusco, l’esistenza del comma 3 dell’art. 393 c.p. sembra in radice escludere una simile interpretazione; quando il legislatore ha invece voluto attribuire rilevanza alla gravità della condotta, d’altra parte, lo ha sempre fatto espressamente (come nel caso del delitto di cui all’art. 612 comma 2 c.p.)[15].

Criticabile ci pare, però, anche quella tesi che – sempre nell’ambito dell’orientamento materialista – rintraccia la linea di confine tra i delitti in questione valorizzando il c.d. effetto costrittivo dell’azione, in cui si riconosce una sorta di “segno distintivo” del delitto di estorsione. Questa tesi ci sembra, infatti, poggiare su un equivoco di fondo, ossia che nell’ambito del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza o la minaccia esercitate dall’agente non determinino la costrizione del soggetto passivo; al contrario, come abbiamo già rilevato sopra, a nostro giudizio tale fattispecie ricomprende anche i casi in cui detti mezzi siano utilizzati per ottenere coercitivamente la cooperazione del soggetto passivo, con la differenza che mentre nel delitto di estorsione la costrizione ha a oggetto una pretesa illegittima, in questo caso essa concerne una pretesa giudizialmente tutelabile. Non può pertanto condividersi l’assunto secondo cui «la soddisfazione di un preteso diritto attraverso la coazione alla persona non possa che essere “ingiusta”»[16], posto che l’utilizzo della violenza e della minaccia quali mezzi del reato nel delitto di cui all’art. 393 c.p. di per sé implica l’esistenza altresì di un’offesa alla libertà di autodeterminazione dell’individuo[17], a prescindere dalla scelta compiuta dal legislatore del 1930 di collocare tale fattispecie tra quelle offensive della corretta amministrazione della giustizia (sicché il reato dovrebbe comunque ritenersi plurioffensivo).

Ciò nondimeno, anche la tesi che vuole distinguere tra i reati in questione tenendo conto solo dell’atteggiamento psicologico dell’agente non ci sembra pienamente soddisfacente; si tratta, per la verità, dell’orientamento largamente prevalente in passato nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha per lungo tempo incontestatamente sostenuto che «la differenza tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni consiste nella diversità dell'elemento psicologico, in quanto nel primo reato l'agente vuol conseguire un profitto pur avendo la scienza e la coscienza di non avere diritto alcuno, nel secondo invece, egli ha la coscienza di esercitare un diritto nella ragionevole, anche se errata, opinione della sua sussistenza, pur sapendo che il diritto stesso e contestato o contestabile, ma comunque azionabile»[18]. Ancorare il discrimen tra le due fattispecie al solo elemento soggettivo, tuttavia, rende il confine tra i reati in questione ancora più sottile di quanto sia in realtà, rischiando peraltro di ingenerare ulteriori equivoci: come testimoniano, ci pare, quelle sentenze che hanno attribuito rilevanza alla gravità della violenza o della minaccia usate dall’agente in punto di prova del dolo di estorsione, le quali finiscono a loro volta per ancorare – contra legem – l’ingiustizia del profitto alla sola particolare gravità della condotta[19].

Piuttosto, ci sembra più corretto sostenere che, prima ancora che sul piano dell’elemento soggettivo, la differenza tra i due delitti vada apprezzata sul piano dell’elemento oggettivo, alla luce del ben distinto contenuto della pretesa esercitata dall’agente, che solo nel delitto di estorsione determina l’ottenimento di un ingiusto profitto. Tratto caratterizzante del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rispetto al delitto di estorsione, allora, non sarebbe altro che l’utilizzo della violenza o della minaccia quale mezzo di soddisfazione coattiva di una pretesa comunque tutelabile in via giudiziale (pretesa la cui fondatezza non deve essere accertata in sede penale, salvo i casi in cui questa appaia manifestamente infondata o irragionevole); di converso, sussisterà il delitto di cui all’art. 629 c.p. allorché la pretesa attuata coercitivamente sia priva di ogni tutela sul piano del diritto e, pertanto, il profitto che ne derivi all’agente o a terzi debba dirsi ingiusto.

 

9. Da ultimo, le Sezioni Unite dovranno chiarire se e in che termini sia ammissibile il concorso del terzo extraneus nel delitto di cui all’art. 393 c.p.

Dirimente appare, a tal fine, stabilire se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia o meno un reato proprio e, nel caso, se sia un c.d. reato proprio di mano propria: categoria (di origine tedesca) che ricomprenderebbe tutti quei reati che non possono essere commessi “per interposta persona”, ma richiedono, affinché l’offesa al bene giuridico si realizzi, che la condotta tipica sia compiuta dal soggetto qualificato, come ad esempio avviene nei delitti di incesto o falsa testimonianza[20]. Nell’ordinanza in commento, il giudice rimettente ha messo in dubbio che questo sia il caso del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alla persona, facendo leva sull’utilizzo del pronome “chiunque” da parte del legislatore, che deporrebbe piuttosto verso una qualifica in termini di reato comune; tale ricostruzione, accolta anche in dottrina[21], ci pare però scontrarsi con il tenore letterale della norma, da cui sembra chiaramente desumibile la necessità che autore del reato sia chi abbia la possibilità di ricorrere al giudice per esercitare un preteso diritto, ossia un soggetto qualificato.

È evidente che aderendo alla tesi secondo cui l’art. 393 c.p. configura un reato comune la possibilità che la condotta di violenza o minaccia sia realizzata da un soggetto diverso dal titolare della pretesa giudizialmente tutelata non dovrebbe creare problemi sul piano giuridico, allorché questo agisca quale mero esecutore della volontà del mandante, o negotiarum gestor[22]; come messo in luce nell’ordinanza di rimessione, nondimeno, alcune pronunce hanno ritenuto configurabile il più grave delitto di estorsione in quei casi in cui l’agente agisse sì nell’interesse del terzo, ma al fine di perseguire un profitto proprio (per esempio una remunerazione), riconoscendo che in tale situazione sussisterebbe l’ingiustizia del profitto. Siffatta soluzione non ci sembra, però, del tutto convincente: da una parte non va dimenticato che l’ingiusto profitto integra l’evento del reato di cui all’art. 629 c.p., e non il dolo specifico[23]; dall’altra, ci sembra che in una simile ipotesi verrebbe meno il necessario rapporto tra profitto e fatto di reato, in quanto il profitto non deriverebbe direttamente dall’atto di disposizione della vittima e perciò dalla condotta coattiva, ma sarebbe, a ben vedere, una conseguenza indiretta del reato[24]. L’estorsione, allora, potrebbe dirsi integrata solo nel caso in cui l’agente ottenga dal soggetto passivo tanto il pagamento del preesistente credito vantato dal mandante, quanto un ulteriore profitto per sé, ma non nel caso in cui egli consegua profitti di diverso tipo[25].

Qualora, al contrario, le Sezioni Unite qualificassero il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in termini di reato proprio, la possibilità che la condotta tipica venga realizzata dall’extraneus con il concorso dell’intraneus potrebbe essere messa in discussione. Occorre mettere in luce, peraltro, che parte della dottrina esclude tale possibilità con riguardo a tutti i reati propri, in base a un’impostazione orientata al principio di legalità e fondata sull’adesione alla teoria dell’accessorietà in materia di concorso di persone nel reato[26]; altra parte della dottrina e la giurisprudenza pervengono invece a tale conclusione, come già si è detto, solo con riferimento ai richiamati reati propri “esclusivi”[27].

In ogni caso, le Sezioni Unite potrebbero giungere a considerare il delitto di cui all’art. 393 c.p. quale reato “di mano propria” valorizzando l’interpretazione letterale della norma che richiede che l’agente si faccia giustizia da sé medesimo, così escludendo la sussistenza del reato in questione in tutti quei casi in cui il titolare della pretesa giudizialmente tutelabile si avvalga di un soggetto terzo per realizzare coattivamente la propria pretesa. Qualificare il fatto del terzo – in cui concorre il soggetto qualificato – in termini di estorsione richiederebbe, però, di affrontare un’ulteriore questione: ovverosia se sussista in tal caso l’elemento dell’ingiusto profitto, atteso che in una simile ipotesi comunque l’agente eserciterebbe – sebbene per conto di terzi – una pretesa riconosciuta dal diritto. Perché tale soluzione ermeneutica possa essere coerentemente perseguita, pertanto, l’elemento dell’ingiustizia del profitto dovrebbe colorarsi di un significato più complesso, capace di ricomprendere anche quelle ipotesi in cui il vantaggio patrimoniale, sebbene astrattamente correlato all’esercizio di una pretesa giudizialmente tutelata, sia conseguito da un soggetto comunque privo di titolo per agire in giudizio.

 

 

[1] Così a partire da Cass. pen., Sez. I, sentenza del 2 dicembre 2003 (dep. 4 marzo 2004), n. 10336, Preziosi; in questo senso, da ultimo, Cass. pen., Sez. V, sentenza del 15 luglio 2019 (dep. 2 agosto 2019), n. 35563, Russo; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 22 novembre 2018 (dep. 14 dicembre 2018), n. 56400, Iannuzzi.

[2] Cass. pen., Sez. II, sentenza del 4 luglio 2018 (dep. 31 luglio 2018), n. 36928, Maspero; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 3 luglio 2018 (dep. 10 dicembre 2018), n. 55137, Arcifa.

[3] Così recita la massima di Cass. pen., Sez. II, sentenza del 4 dicembre 2013 (dep. 19 dicembre 2013), n. 51433, Fusco, rispetto alla quale può rimandarsi al commento di C. Ubiali, Sui rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone: un revirement giurisprudenziale, in Dir. pen. cont., 13 febbraio 2014; così più recentemente anche Cass. pen., Sez. I, sentenza del 20 luglio 2017 (dep. 13 febbraio 2018), n. 6968, Rottino e a.

[4] Così Cass. pen., Sez. II, sentenza del 4 dicembre 2013 (dep. 19 dicembre 2013), n. 51433, Fusco, § 2.9.

[5] Viene in particolare fatto riferimento a Cass. pen., Sez. II, sentenza del 28 giugno 2016 (dep. 3 novembre 2016), n. 46288, Musa e a.; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 3 luglio 2015 (dep. 4 novembre 2015), n. 44476, Brudetti; Cass. pen., Sez. V, sentenza del 6 marzo 2013 (dep. 3 maggio 2013), n. 19230, Palazzotto.

[6] In questo senso, cfr. pp. 13-14 dell’ordinanza in commento.

[7] Così, chiaramente, Cass. pen., Sez. II, sentenza del 28 giugno 2016 (dep. 3 novembre 2016), n. 46288, Musa e a. Cfr. inoltre; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 4 luglio 2018 (dep. 31 luglio 2018), n. 36928, Maspero; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 3 luglio 2018 (dep. 10 dicembre 2018), n. 55137, Arcifa; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 6 dicembre 2017 (dep. 2 febbraio 2018), n. 5090, Sako e a.

[8] Cass. pen., Sez. II, sentenza del 17 febbraio 2016 (dep. 18 marzo 2016), n. 11453, Guarnieri; Cass. pen., Sez. II, sentenza del 27 aprile 2016 (dep. 4 ottobre 2016), n. 41433, Bifulco. In passato, in questo senso Cass. pen., Sez. II, sentenza del 21 marzo 1997 (dep. 16 maggio 1997), n. 4681.

[9] Cfr. p. 18 dell’ordinanza in commento.

[10] Cfr. § 2.6. dell’ordinanza in commento.

[11] Come osserva F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, XVI ed. (a cura di C.F. Grosso), Milano, 2016, p. 715, l’espressione “farsi ragione da sé medesimo” esprime infatti «la realizzazione dello scopo (di regola, economico) al cui soddisfacimento è preordinato il diritto che si vanta».

[12] L’esistenza di una pretesa giudizialmente tutelabile integra un presupposto del delitto in questione; il requisito dell’azionabilità della pretesa deve essere inteso nel senso della necessaria legittimazione formale all’azione, a prescindere dalla fondatezza nel merito della pretesa stessa. L’agente, dunque, deve «operare una valutazione prognostica circa l’ammissibilità e sulla fondatezza del ricorso al giudice, che non devono sussistere oggettivamente, ma è sufficiente siano possibili sulla base di un giudizio sommario purché basato su di una valida “apparentia iuris”»: in questo senso cfr., per tutti, G. Cirillo, I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in M. Catenacci (a cura di), Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, Torino, 2016, p. 670.

[13] In questo senso, l’insegnamento tradizionale della dottrina qualifica come giusto il profitto che corrisponda a una pretesa riconosciuta, direttamente o indirettamente, dal diritto, mentre ingiusto è il profitto correlato all’esercizio di una pretesa non riconosciuta, nemmeno indirettamente, dal diritto: cfr. per tutti F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, XV ed. (a cura di C.F. Grosso), Milano, 2008, p. 292; F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, II, Delitti contro il patrimonio, V ed., Padova, 2014, pp. 44-45.

[14] Così G. Cirillo, I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, cit., p. 686; cfr. anche F. Giannelli – M.G. Maglio, Questioni in tema di rapporti tra i delitti di rapina, estorsione, violenza privata ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona, in Riv. pen., 2/2014, p. 141. Vale la pena mettere in luce che, invece, la fattispecie di cui all’art. 393 c.p. si configura come speciale rispetto al delitto di violenza privata ex art. 610 c.p.; si segnala, sul punto, l’opinione di F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, II, cit., p. 719, secondo il quale l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona integrerebbe precisamente una “forma attenuata” di violenza privata.

[15] Cfr. Cass. pen., Sez. II, sentenza del 4 dicembre 2013 (dep. 19 dicembre 2013), n. 51433, Fusco, § 2.7.; tale passaggio è in particolare evidenziato da C. Ubiali, Sui rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone: un revirement giurisprudenziale, cit. Critica nei confronti dell’orientamento di tipo “materialista” è anche A. Verri, Un'interessante pronuncia sui criteri di distinzione tra delitto di estorsione e delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in Dir. pen. cont., 11 marzo 2011.

[16] Così Cass. pen., Sez. II, sentenza del 4 luglio 2018 (dep. 31 luglio 2018), n. 36928, Maspero, § 1.4.

[17] Cfr. in particolare G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, p. 20 ss. (anche in punto di distinzione tra minaccia-fine e minaccia-mezzo) e p. 66 ss.

[18] In questo senso, a titolo di esempio, la massima di Cass. pen., Sez. 3, sentenza del 24 marzo 1969 (dep. 4 luglio 1969), n. 637, Arabia.

[19] Come la richiamata Cass. pen., Sez. II, sentenza del 28 giugno 2016 (dep. 3 novembre 2016), n. 46288, Musa e a.; condividiamo, peraltro, la critica espressa da A. Cappellini, Tra esercizio arbitrario ed estorsione: una “innovativa” riconferma della Cassazione, in Giur. ita., 2017, p. 1978, il quale ha osservato che attraverso la tesi che attribuiva rilevanza al quantum della violenza o della minaccia a livello probatorio – quale “elemento sintomatico del dolo di estorsione” – il criterio della gravità della condotta accolto dall’orientamento materialista, scacciato “dalla porta”, rientrava “dalla finestra”.

[20] Cfr. in proposito F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, X ed., Milano, 2017, p. 533, il quale parla di reati propri esclusivi, contrapposti ai non esclusivi, che ammettono la realizzazione per mano di terzi.

[21] Cfr. G. Cirillo, I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, cit., p. 673; I. Mannucci Pacini, sub Art. 392. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, in E. Dolcini – G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, IV ed., Milano, 2015, p. 1413.

[22] In questo senso in passato si esprimeva pacificamente anche la giurisprudenza di legittimità: cfr. sul punto I. Mannucci Pacini, sub Art. 392. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, cit., ibidem, e i riferimenti giurisprudenziali ivi indicati.

[23] Si pensi al caso in cui Tizio ponga in essere una condotta di minaccia nei confronti di Caio per costringerlo a pagare il credito vantato da Sempronio, dietro promessa di remunerazione da parte di quest’ultimo; seguendo questa impostazione, qualora Tizio ottenesse il pagamento del credito ma non venisse effettivamente remunerato da Sempronio, il delitto di estorsione non potrebbe dirsi consumato.

[24] Cfr., in questo senso, F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, II, cit., p. 43.

[25] In questi termini C. Baccaredda Boy – S. Lalomia, I delitti contro il patrimonio mediante violenza, Padova, 2010, pp. 636-637.

[26] In questo senso G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano, 2019, pp. 536-537.

[27] Tra gli altri F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 533.