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  Scheda  
06 Dicembre 2023


Il ritardo diagnostico che aggrava o allunga la malattia del paziente: c’è responsabilità penale?


1. L’ampliamento giurisprudenziale della nozione di malattia. Il medico ritarda per colpa le cure al paziente. È responsabile di lesioni personali colpose quando il ritardo:

  • ha causato un aggravamento della malattia del paziente?
  • o non ha causato un aggravamento, ma ha comunque causato un allungamento del tempo necessario per la guarigione o stabilizzazione del quadro?

Aprendo il codice penale e leggendo l’art. 590 c.p. viene da rispondere: no, il medico non è responsabile, perché la malattia è l’evento del reato ed è questa che deve essere causata. Se la si aggrava o la si allunga non la si causa: già esiste, ha un’altra causa.

Al contrario la giurisprudenza risponde: sì, il medico è responsabile, perché anche in queste ipotesi il medico causa una malattia rilevante ex art. 590 c.p.

Come è motivata questa giurisprudenza? È condivisibile? O non sta forse ampliando troppo la nozione di malattia, in violazione del principio di legalità?

Analizziamo le decisioni ultime, senza affrettate prese di posizione a favore del medico o del paziente.

Partiamo dal principio tradizionale, per il quale la nozione di malattia non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, ma quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico…[1].

Si può prescindere dalle alterazioni anatomiche, come avviene, ad es., nelle malattie psichiatriche che si manifestano senza un’individuata base organica. Le alterazioni anatomiche risultano quindi ultronee nel principio, perché ciò che è necessario è che siano presenti una limitazione funzionale o significativo processo patologico. Invero, nonostante nel principio si faccia uso della disgiuntiva o, è ormai da tanto tempo fuori discussione che limitazione funzionale e significativo processo patologico siano inscindibili. Infatti la malattia ha natura evolutiva e si accompagna quindi a un processo, perché, come rimarcato anche in giurisprudenza, viene in considerazione una limitazione funzionale non definitiva, ma dovuta a un fatto morboso in evoluzione, a breve o a lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte[2]. Questa precisazione corrisponde a un risalente e solido insegnamento, contenuto in pietre miliari della medicina legale, quali il manuale del Chiodi[3]. E in linea anche con la dottrina penalistica[4].

 

In sintesi, quindi: è malattia una limitazione funzionale non definitiva. A questa limitazione la giurisprudenza in analisi aggiunge l’aggravamento o l’allungamento della malattia.

 

2. Primo ampliamento: il principio dell’aggravamento. Ecco precisamente come avviene un primo ampliamento: alle tradizionali parole la nozione di malattia comprende quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico si aggiunge o l’aggravamento di esso.

La sottolineatura delle parole aggiunte non è presente nel principio, ma è qui necessaria per garantire chiarezza al discorso.

 

Come si motiva il principio dell’aggravamento?

Vediamo un caso di legittimità recentissimo[5]. Un’ecografia evidenzia un nodulo mammario. Il senologo programma l’escissione chirurgica a circa tre mesi dopo, senza approfondire strumentalmente con agoaspirato. Avvenuto l’intervento, l’esame istologico del reperto operatorio segnala che si tratta di un carcinoma duttale infiltrante. Si esegue quindi in urgenza un intervento di mastectomia totale. In sentenza si afferma che il ritardo diagnostico non ha influito sulle cure, perché in ogni caso si sarebbe dovuta eseguire una mastectomia totale anche tre mesi prima. Tuttavia, si prende atto che durante quei tre mesi c’è stato un aumento delle dimensioni del nodulo, si afferma che ciò ha cagionato un aggravamento della malattia e che cagionare un aggravamento equivale a cagionare una malattia. Il senologo è stato quindi ritenuto responsabile di lesioni personali colpose a danno della paziente.

Appare fuori discussione che ci sia stato un aggravamento, dato l’aumento delle dimensioni della massa neoplastica: la maggiore proliferazione cellulare influisce sulla severità della prognosi.

Ma sorge intuitiva la domanda: perché cagionare un aggravamento della malattia equivale a cagionare una malattia?

La sentenza non dà risposta a questa domanda. Si fa uso della c.d. autoreferenzialità della giurisprudenza di Cassazione. Si scrive infatti che per giurisprudenza costante, cagionare un aggravamento della malattia equivale a cagionare una malattia. In realtà, l’espressa affermazione di questo principio risulta qui avvenuta solo una volta[6], mentre in altri tre precedenti il principio può essere solo indirettamente ricavato[7].

Comunque sia, l’autoreferenzialità non può superare la logica: il medico che cagiona l’aggravamento della malattia non la cagiona. È lapalissiano: non si può cagionare un processo fisiopatologico che già esiste, se lo si aggrava. L’aggravamento non innesca il fattore genetico del processo, ma inserisce un fattore che altera qualitativamente in peius il processo innescato da altro fattore. Vengono cioè in considerazione due diversi fattori: uno che innesca il processo fisiopatologico e che ne è la causa, l’altro che invece s’inserisce nel processo, esacerbandone la clinica. Ad es., la somministrazione di un farmaco contenente glucosio nell’eccipiente a un paziente in scompenso diabetico, non causa lo scompenso, che è già presente, ma lo aggrava. Ma anche in giurisprudenza vale l’aforisma di Alfred Whitehead: «Nella logica formale una contraddizione è il segno della sconfitta, ma nell'evoluzione della vera conoscenza è il primo passo verso la vittoria». Le contraddizioni impongono l’approfondimento.

 

E allora: se si vuole mantenere fedeltà al principio tradizionale, la domanda che bisogna porsi non è se l’aumento di volume del nodulo costituisca o no un aggravamento della malattia neoplastica, bensì: l’aumento di volume ha causato o no una limitazione funzionale?

Se si prescinde dalla limitazione funzionale si smentisce infatti il principio tradizionale.

L’aumento di volume non basta a configurare una malattia rilevante, se non ha prodotto anche una limitazione funzionale. L’aumento di volume di per è sé solo un’alterazione anatomica, in quanto tale insufficiente a configurare una malattia, come ormai da tempo unanimemente accettato[8].

Inoltre l’ampliamento della nozione di malattia non era necessario per motivare l’affermazione di responsabilità. Infatti, risulta dalla sentenza di legittimità e anche dalla sentenza d’appello[9], che oltre alla mastectomia si era resa necessaria anche l’escissione di linfonodi ascellari, verosimile conseguenza dell’aumento di volume del nodulo e quindi della migrazione neoplastica. La necessaria escissione chirurgica certamente importa una limitazione funzionale temporanea, nell’uso dell’arto superiore omolaterale.

 

3. Secondo ampliamento: il principio dell’allungamento. E se il ritardo nelle cure non ha aggravato la malattia?

Ecco come risponde l’ultima giurisprudenza: è rilevante, ex art. 590 c.p., ogni condotta colposa che, anche se non ha determinato un aggravamento della malattia, ha comunque determinato un allungamento del tempo necessario per la guarigione o per la stabilizzazione del quadro.

 

Vediamo un caso[10]. A causa di una macchia d’olio sull’asfalto, il conducente di un motociclo cade e viene condotto in ospedale. Gli accertamenti radiologici evidenziano un’infrazione dell’ipofisi trasversa della quarta vertebra lombare e una frattura della prima vertebra lombare. Il radiologo referta la prima ma non la seconda lesione, che viene diagnosticata dopo trenta giorni da altro medico, con prescrizione di uso di busto e fisioterapia. Il giudizio di merito si conclude con l’assoluzione del radiologo che non ha refertato la frattura: sostengono i giudici che il ritardo nelle cure non ha prodotto alcuna limitazione funzionale. La sentenza viene annullata in Cassazione: si afferma che il ritardo nelle cure ha comunque allungato i tempi di guarigione e ciò assume rilievo penale ex art. 590 c.p.

Si motiva così: è sulla durata della malattia (più o meno di quaranta giorni) … che l'ordinamento misura la sanzione penale, con l'introduzione delle aggravanti di cui all'art. 583, commi 1 e 2 cod. pen. L'ordinamento, misurando la durata malattia come tempo necessario alla guarigione o al consolidamento definitivo degli esiti della lesione, assegna al tempo un 'peso' che incide sulla 'quantità della sanzione', palesando una scelta che pone all'interno della reazione penale anche l'intervallo necessario per il raggiungimento di un nuovo stato di benessere.

In realtà, l’aggravante della durata della malattia superiore a quaranta giorni prova esattamente il contrario e cioè la durata assume rilievo solo nella fattispecie circostanziale. Nella fattispecie base dell’art. 590 c.p. la durata non è considerata e assume quindi rilievo non riguardo alla configurazione dell’evento costitutivo del reato, ma solo riguardo alla gravità del reato e quindi solo riguardo al trattamento sanzionatorio ex art. 131 co. n. 2 c.p.

Non solo: questa opinione giurisprudenziale sovrappone due piani che invece sono ben distinti in medicina legale e cioè la malattia e il suo esito. La malattia ha natura evolutiva, l’esito no. E la durata della malattia è l’esito.

 

C’è poco da fare: la contraddizione logica già evidenziata è un’aporia, perché è insuperabile anche per questo principio: se si allunga una malattia, non la si causa. Tuttavia le contraddizioni hanno anch’esse i loro vantaggi. Come disse Jean Rostand: «Uno scrittore che non si contraddice lascia troppo poco da fare ai suoi commentatori».

Il principio dell’allungamento è stato affermato anche in un caso di omessa escissione, durante un intervento per un carcinoma al seno, dei linfonodi infiltrati, con necessità di un ulteriore successivo intervento. Si è ritenuto rilevante il periodo di tempo intercorso fra gli interventi, posto che i linfonodi andavano escissi già durante il primo intervento e che quindi ciò ha dilatato i tempi di guarigione[11].

 

Che cosa si rischia che con questo principio?

È evidente: si rischia che ogni ritardo diagnostico diventi penalmente rilevante, perché al ritardo nelle cure segue l’allungamento della malattia, come il giorno segue alla notte. Si rischia cioè di trasformare il reato di lesioni personali colpose da reato di evento a reato di mera condotta.

Con un’immagine: il principio dell’allungamento appare come una freccia colpevolista che centra sempre il bersaglio, fatta eccezione del caso in cui appunto la malattia non venga allungata, perché le cure potevano essere comunque differite. Come dimostra un precedente recente[12]. Ad un paziente che lamenta dolori a una gamba viene diagnosticato in Pronto Soccorso uno strappo muscolare, senza indagini radiologiche e con prescrizione di antidolorifico. Il giorno dopo, presso un altro ospedale, viene invece diagnosticata frattura scomposta del femore, che impone l’immediata riduzione chirurgica. Il principio dell’allungamento viene richiamato in sentenza, ma nel caso di specie se ne esclude l’applicabilità, sostenendo che non si è modificato, a causa del ritardo, il tempo della guarigione avuto riguardo alla differibile urgenza dell’intervento. E quindi nessun allungamento della malattia.

È probabile che nella decisione abbia semplicemente influito il breve lasso di tempo del ritardo, limitato a un giorno.

 

4. Quali conseguenze? Sul piano pratico-penale, attualmente, chi in argomento vuole provare la responsabilità penale del medico ha in mano tre carte:

- la limitazione funzionale, se fallisce:

- l’aggravamento della malattia, se fallisce:

- l’allungamento della malattia.

Forse è un po’ troppo. Forse l’area di punibilità è stata troppo dilatata. Forse è diagnosticabile una “malattia” al principio di legalità.

 

Che fare?

Meglio recuperare la limitazione funzionale come unico elemento caratterizzante l’evento del reato. È in fondo ciò che volevano i compilatori del codice e l’intentio legis va sempre considerata ex art. 12 preleggi. Nella Relazione ministeriale sul Progetto definitivo al codice penale, Arturo Rocco ha scritto in prima persona: «Ho usata l’espressione correttamente scientifica di malattia, anziché quella di danno del corpo o perturbazione della mente, giacché malattia è indistintamente qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali»[13]. Meglio recuperare l’elemento malattia come elemento normativo della fattispecie penale e definirlo nei termini medico legali già analizzati di limitazione funzionale dovuta a un fatto morboso in evoluzione.

Per l’affermazione di responsabilità penale non si dovrebbe quindi prescindere dalla sussistenza della limitazione funzionale.

 

Sul piano della pratica clinica quale può essere la reazione all’ampliamento?

È evidente: medicina difensiva. E cioè praticare in urgenza cure che potrebbero essere praticate in elezione. E questo senza valida giustificazione clinica, ma solo per sciogliere l’ansia del medico dovuta alla paura di un procedimento penale a carico. Ansia che si trasferisce così sul paziente, che comprensibilmente può preoccuparsi per una cura in urgenza, senza che capisca bene il motivo di tanta fretta.

Sono i c.d. costi umani della medicina difensiva, che si aggiungono a quelli economici. Proviamo a restituire serenità al medico e al paziente.

 

 

 

[1] V. per tutte Cass. Sez. Un., 2437-09, Giulini, est. Macchia, Rv 241752 e in Riv. It. Med. Leg., 2009, 3, 519, con nota A. Fiori, Il concetto di malattia in sede penale: riconsiderazioni della Cassazione Penale e considerazioni medico-legali

[2] Cass. Sez. Un., 2437-09, Giulini, cit.

[3] Manuale di Medicina legale, di V. Chiodi e altri, Vallardi, 1976, vol. I, 171 e anche P. Baima Bollone, V. Zagrebelsky, Percosse e lesioni personali, Giuffrè, 1975, 15 e ss.; C. Puccini, Istituzioni di Medicina Legale, Ambrosiana, 1999, 251

[4] F. Mantovani, Diritto Penale, Parte speciale, I, Delitti contro la persona, Wolters Kluwer Cedam, 2016, 142; F. Basile, Commento all’art. 582 c.p., in Dolcini, Marinucci, Gatta, Codice Penale Commentato, Wolters Kluwer, 2015, 2955

[5] Cass. Sez. IV, 40732-23, Portincasa, est. Vignale

[6] Cass. Sez. IV, 17505-08, Pagnani, est. Brusco

[7] Cass. Sez. IV, 3448-04, Perna, est. Galbiati in Cass. Pen. 2006, II, 480, con nota di G. Iadecola, Sul concetto di malattia all’interno delle fattispecie dei delitti contro l’incolumità individuale; Cass. Sez. IV, 46586-04, Ardizzone, est. Romis, Rv 230599; Id, 22156-16, De Santis, est. Gianniti, Rv 267306

[8] L’insufficienza della sola alterazione anatomica era già stata rimarcata dalla dottrina medico legale già all’indomani della pubblicazione del codice penale. V. Leoncini, Appendice a Borri, Cevidalli, Leoncini, Trattato di Medicina Legale, Vallardi, 1932

[9] Corte d’Appello Bologna, 23 giu. 22, Portincasa, est. Di Rienzo

[10] Cass. Sez. IV, 5315-20, Lipari, est. Nardin, Rv 278437

[11] Cass. Sez. IV, 8613-22, Marullo, est. Cappello

[12] Cass. Sez. IV, 29032-22, Palmieri, est. Nardin

[13] Relazione Ministeriale sul progetto del codice penale, vol. II, 379