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24 Giugno 2025


Tre momenti di parresia di fronte al fine-vita


Pubblichiamo di seguito il testo di un contributo del prof. M. Donini pubblicato nella Riv. it. med. leg. n. 1/2025. Si ringrazia la Direzione della Rivista per l’autorizzazione alla pubblicazione.

***

 

1. Non si può più attendere: il nuovo “tipo” dell’aiuto a morire.

Si è da poco svolta l’udienza pubblica di discussione di due nuovi casi di rimessione alla Corte della illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui esclude(rebbe) dalle ipotesi disciplinate di suicidio assistito alcune modalità di trattamenti di sostegno vitale, per come interpretati alla luce della sentenza n. 242 del 2019 della Corte, quale quarto requisito per l’accesso alle procedure di interruzione della vita, autorizzata mediante aiuto sanitario attivo. Erano due casi sollevati prima che si potesse conoscere la decisione, nel frattempo intervenuta, di cui alla sentenza n. 135 del 2024, che ha ampiamente liberalizzato le modalità di accesso estendendo il significato del requisito dei trattamenti di sostegno vitale. Una sorta di interpretazione autentica (giurisprudenziale) da parte della stessa Consulta[1]. I casi all’attenzione della Corte nell’udienza pubblica del 26 marzo 2025 erano di una tragicità scorticante. Ometto i dettagli, che però sono ben descritti nella parte in fatto della sentenza, letta in anticipo dagli appunti del giudice relatore prof. Viganò. Anime lacerate da corpi in disfacimento progressivo e senza speranza. Persone alle quali era, in un caso, stata negata anche la via di uscita della sedazione continuativa profonda.

Ora, nel giudizio appena celebrato, la Corte ha avuto gioco facile nel rilevare che l’eccezione doveva essere riconsiderata ai sensi della sua precedente decisione, la 135 del 2024, anche se l’oggetto del giudizio di legittimità riguardava profili distinti dall’estensione delle ipotesi di suicidio assistito[2].

Infatti, i due casi ora sub iudice sarebbero dovuti rientrare nei nuovi parametri, se i ricorrenti avessero “atteso”, soffrendo ingiustamente, il maturare della giurisprudenza costituzionale. Però non hanno atteso, e recandosi in Svizzera hanno eluso (sic) la normativa italiana che avrebbe potuto consentire loro l’accesso a un fine vita attivamente aiutato dal servizio sanitario. Tuttavia, proprio questi due processi a quibus dimostrano il contrario, perché, instaurati dopo i viaggi liberatori in Svizzera, i due processi penali nei confronti di chi aiutò a morire i due pazienti terribilmente malati e sofferenti, sono stati sospesi sul presupposto che i pazienti non potessero beneficiare della procedura autorizzata dalla riscrittura dell’art. 580 c.p. da parte della Corte, in quanto tale procedura continuava a essere letta secondo un requisito di trattamento di sostegno vitale che, per come allora inteso, esigeva l’impiego di macchine salvavita, come i respiratori automatici, che nei casi di specie non ricorrevano. Una diversa lettura da ritenersi applicabile de plano era del tutto esclusa e ritenuta non prevedibile, comunque non prevista come interpretazione costituzionalmente conforme. Gli stessi giudici remittenti ritengono incostituzionale il requisito introdotto dalla Corte.

Sennonché, medio tempore, la Corte ha disatteso la sua originaria lettura con un revirement di rilievo. Con la sentenza 242 del 2019 era chiaro a tutti che si era introdotto un requisito molto, troppo restrittivo, che la Corte aveva “inventato” per legittimare la propria decisione al limite della riserva di legge, ritenendo di giustificare una sentenza così manipolativa, a rime non obbligate, solo al prezzo di un self-restraint. L’apertura ai “diritti infelici” dei malati poteva giustificare quell’intrusione paralegislativa con un limite che nessun legislatore si era mai immaginato di inventare. Era una norma-paradosso, un sacrificio di Origene del giudice-legislatore. Certo, era possibile la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., ma si è pensato di evitare un terremoto politico, e il costo di questa scelta politica è stato addebitato alle persone ammalate. Da un lato, i diritti fondamentali giustificavano la riscrittura giurisdizionale di un articolo del codice penale: non era un problema di uguaglianza qualsiasi quello del rifiuto immediatamente letale o no di terapie, con compromissione della dignità ma anche con aumento dello strazio finale della malattia in caso di intervento puramente omissivo del medico, senza un aiuto positivo a morire tempestivamente. Era una disuguaglianza afferente a un diritto finale, non a un mero trattamento della facoltà di rifiuto. Ci sono diritti finali e diritti temporali e strumentali. Il rifiuto di cure esprime temporalmente una scelta strumentale, sostituibile con altre. Ma se diventa una opzione esistenziale definitiva non è più un diritto strumentale e temporale. È un diritto finale.

Di qui, a nostro avviso, la legittimazione a un intervento come quello adottato, che una qualsiasi decisione in tema di eguaglianza non consentirebbe, dovendo essere assunta con una declaratoria di incostituzionalità o con una interpretazione conforme. Ma si poteva sperare che sotto la scelta tecnica della non punibilità sorgesse l’alba di un nuovo diritto all’orizzonte del fine vita. Un diritto infelice, ma vero, che consentirebbe oggi, nella sua rinnovata definizione dopo la sentenza 135 del 2024, di assolvere nel giudizio ad quem chi avesse violato solo le forme della scriminante procedurale, protetto tuttavia dal diritto del malato che ha aiutato a morire e che è di fatto oggi riempito di nuovi contenuti non prevedibili ex ante, come subito si dirà.

Dall’altro lato, la redazione paralegislativa della scriminante procedurale era regolativa di un diritto, non di una mera esimente, ma proprio per questo il neo-legislatore si è preoccupato di introdurre un limite gestorio al diritto azionabile.

Sennonché, il quarto requisito dei trattamenti di sostegno vitale in atto è stata una inventio davvero troppo discutibile: ti riconosco un diritto, ma poi rendo impraticabile il suo esercizio in troppe situazioni che sono espressione di quel medesimo diritto infelice. Se la terapia è diventata il male, perché per liberarmene devo attendere una situazione di estrema urgenza? O ti riconosco il diritto oppure no. Tutti quei meccanismi intermedi tra un clistere e un respiratore automatico, tra un farmaco salvavita e una manovra intestinale introducono distinzioni senza senso. Già così la lettura delle sentenze del giudice delle leggi è incomprensibile al cittadino, ma ora siamo giunti al bisogno di rivoltarsi contro i nuovi tecnici.

C’era l’attesa di una diversa sensibilità parlamentare, che uscendo dal perimetro costrittivo delle macchine salvavita, aprisse il contesto a tutti i vari interventi terapeutici opprimenti, così da introdurre una disciplina nuova, espressione in un vaglio politico e non causidico.

La Corte ha compreso che la perdurante inerzia legislativa non era più gestibile con sentenze di mera competenza decisoria: il braccio di ferro Parlamento vs. Corte costituzionale rimaneva in stallo.

È accaduto così che il giudice delle leggi, in modo a mio avviso non del tutto prevedibile, abbia rivisto profondamente il contenuto di quel requisito preclusivo dell’accesso all’aiuto a morire. Perché tutti pensavano che, per quanto inopinatamente, l’accesso fosse riservato a malati tenuti in vita da macchine o apparati di analogo significato salvifico immediato e come tale “estremo”, capace di essere rifiutato con effetti subitanei, e in caso di effetti non rapidi di essere sostituito da un intervento attivo di “analoga” efficacia finale (era il caso di Fabiano Antoniani). Proprio questa efficacia definitiva era alla base del riconoscimento implicito di un diritto finale, non strumentale: il diritto di morire che la Corte non ha mai voluto esplicitare, ma che rimbalzava nella coscienza dei giudici.

Tale diritto di accesso a una morte assistita da condotta attiva del sistema sanitario era stato limitato in modo così rigoroso, in apparenza, dalla Corte, che mentre col suo operare si autolegittimava come « giudice-legislatore con self-restraint », alla fine non ha retto alle critiche. Non alle critiche di violazione della riserva di legge, ma alle critiche di giustizia sostanziale. La Corte ha dovuto ascoltare queste voci disperate che la magistratura ha continuato a diffondere nel palazzo della Consulta. Erano grida che risuonavano la notte nelle stanze dei giudici. Non si potevano più zittire, al punto da richiedere il soccorso di due estensori, intervenuti nella sentenza n. 135.

Oggi non si può più attendere. Non solo la Corte ha concesso ampie aperture di fatto al suicidio assistito anche in caso di trattamenti di sostegno quali un catetere o una evacuazione manualmente indotta, ma ha reso evidente quanto fosse precario quel requisito, al punto che ogni nuovo caso prospettato dalla magistratura avrebbe reso disuguale il diniego di accesso al trattamento di fine vita.

Il passaggio alla legittimazione di un intervento attivo che entri nel campo dell’omicidio del consenziente non è evitabile, ma non perché esso realizzi un temuto “passo successivo” verso una china pericolosa: è che non c’è differenza nella solidarietà, la quale se vale per Fabiano Antoniani, non può non valere per chi non abbia la possibilità fisica di accedere al medesimo risultato di cessazione delle sofferenze a causa di una limitazione dei movimenti.

Sono solo questi i casi analoghi, chiarissimi fin dall’inizio.

Di questo in effetti si tratta: non di suicidio, ma di autorizzazione a morire a favore di malati affetti da sofferenze insopportabili, che supplicano consapevolmente la cessazione del dolore. Le modalità attive o passive di ricezione di una sostanza letale sono a questo punto secondarie per il senso comune e di fronte alle tipologie di casi in discussione: se in generale Letting die e killing continuano a esprimere il senso di due fattispecie diverse (art. 580 c.p. e 579 c.p.), rispetto al diritto di essere liberati dal male le condotte confondono il loro significato[3]. Che sarebbe il medesimo anche adottando la modalità della sedazione continua e profonda, la quale “equivale” all’iniezione letale. L’intero universo dell’aiuto al suicidio come paradigma radicalmente differente dall’omicidio del consenziente appare qui unico, la stessa galassia dei casi di aiuto a morire non per mano propria, ma per mano altrui. Ognuno comprende, a questo punto, che non c’entra nulla tutto ciò con la tematica classica dell’eutanasia, né con i programmi bioetici di eliminazione delle “vite che non meritano di essere vissute”, dal modello di Binding in poi.

La prima premessa, dunque, è che l’aiuto nel morire e l’aiuto a morire si confondono nel significato misericordioso dei gesti che il malato richiede, il cui ‘senso’ è la cessazione del dolore: non è, come “Typus”, né un suicidio né un omicidio del consenziente. L’aiuto tecnico è sempre più desiderabile dell’abbandono. Non ci sono “passi successivi”, perché non è questa l’eutanasia come bioetica di Stato e cultura dello scarto, mentre il vero rischio è che le vecchie forme giuridiche facciano perdere di vista il valore unificante di condotte solidali.

 

2. Perché dichiarare la prospettiva ideologica del bioeticista.

Forse, però, ci siamo spinti troppo in avanti, perché abbiamo espresso ciò che molti non sono disposti a riconoscere. Il fatto è che queste materie non sono ad evidenza probatoria. Troppe persone sono condizionate da premesse ideologiche, che producono una “costruzione della realtà” opaca e alterata.

Nessuno in effetti è immune da queste distorsioni, ma appunto per questo è importante una pubblica dichiarazione di intenti. E per avvicinare il lettore ai fatti vorrei premettere il ricordo di un’esperienza personale, un outing che ritengo importante.

Mi è toccato di assistere per oltre vent’anni una mia zia materna, alla quale ero legatissimo dall’infanzia, e che dopo il pensionamento da maestra elementare ha cominciato a sviluppare i sintomi di quella che progressivamente si è rivelata una forma di demenza. La demenza può cominciare con disturbi quasi esclusivamente fisici: vertigini, difficoltà di deambulazione, paura di cadere etc. Il logoramento progressivo delle facoltà psichiche e mentali, ma non di tutte, è un processo lentissimo. Come se si spegnessero col tempo alcuni files della mente, alcune aree cerebrali. È peraltro accaduto che col progredire della malattia siano scomparsi tutta una serie di disturbi psichici del passato che erano motivo di infelicità e che sia molto migliorato l’equilibrio psichico, l’umore, sì che per molti anni l’accompagnamento, la visita, la presenza familiare con altri parenti, sono stati motivo di crescita personale, di ricordi, di affetto. Poteva continuare così a svolgersi una “storia” della persona, anche se progressivamente la persona non sarebbe più stata completamente la stessa. E tuttavia, fino alla fine, quella identità essenziale di lei fu sempre presente e fu importante il dato che c’era riconoscimento personale, e anche il fatto che non ci fosse dolore, neppure fisico, fin quasi al termine della vita. Tutto ciò ha reso pienamente accettabile quel lungo calvario verso la conclusione della vita. Era peraltro estranea alla persona ogni iniziativa e direi cultura di disposizioni anticipate di trattamento, anche dopo che fu costretta praticamente a smettere la deambulazione, via via sino alla progressiva perdita anche dell’uso degli arti superiori, e poi a quella della parola, ma solo in conclusione del processo degenerativo, che a lungo ha mantenuto integra una memoria di sé e degli altri, della storia passata, capace di arricchire e in ogni caso di mantenere i rapporti. In tal caso, come unico parente e gestore della situazione mi sarei preoccupato di adempiere alle disposizioni che fossero state date nei tempi in cui si poteva ancora ritenere pienamente capace di farlo. Devo dire, tuttavia, che mai mi è passato per la mente il desiderio che si abbreviasse quella vita per effetto di un intervento non naturale. Ciò che invece, del tutto prevedibilmente, avrei chiesto che avvenisse se si fosse trattato della mia persona in quelle condizioni, soprattutto nel prosieguo, negli ultimissimi due o tre anni della malattia.

Questa, almeno, era la posizione che ritenevo mi appartenesse. Ho sempre pensato di tenere separato il piano dell’etica laica del giurista da quello della morale individuale. E tuttavia, col moltiplicarsi delle esperienze esistenziali la mia stessa posizione personale ha cominciato a modificarsi. Non sono più certo di quello che ritengo davvero intollerabile per me. Anche assistere una persona profondamente diversa ormai ma capace di affetto, di umanità, è fonte di impegno morale, e restituisce il senso della solidarietà. Sono invece sempre più persuaso dell’importanza di dichiarare le radici di ciò in cui si crede, mentre si esprime in pubblico una posizione in materia di bioetica e di biodiritto, perché avverto in molti interventori il peso e il condizionamento delle loro diverse fedi. È opportuno che il lettore sappia se l’autore di uno scritto in questa materia esprime una visione con ispirazioni religiose o del tutto agnostiche o atee. È un fatto di piena trasparenza, verso sé stessi e gli altri.

Nel mio caso, per esempio, è importante che sia palesato il fatto che l’atteggiamento verso le persone malate che vivono in modo intollerabile una patologia clinica senza speranza, è ispirato a una forma di compassione che ha radici cristiane. Questa premessa direi fattuale si esprime ormai all’esterno con il convincimento che sia del tutto anticristiano un atteggiamento di chiusura, se non perfino di condanna, verso l’aiuto positivo a morire, in alcune, ben definite situazioni. C’è ormai una distanza che mi addolora. Dunque, non solo l’aiuto a vivere il fine vita, ma anche l’aiuto nel morire o a morire costituisce una forma di compassione che può avere radici cristiane. Viceversa, avverto come condizionata da precostituite opzioni ideologiche di tipo cattolico la chiusura di principio a soluzioni di aiuto a morire. Cristianesimo come modo di vivere la misericordia e cattolicesimo come ideologia etico-sociale sono due forme di moralità pubblica molto presenti e profondamente radicate nelle coscienze. Io non dico affatto che chi segue uno o l’altro indirizzo debba necessariamente adottare una posizione coerente con queste premesse. Si può sempre preferire per sé stessi una sedazione continuativa profonda, ma mai imporla a un terzo contro il suo volere. Il pluralismo etico è un valore dentro a ogni confessione religiosa, oltre a definire le migliori filosofie laiche del dialogo[4]. Ma nel cattolicesimo è presente una “politica della morale” capace di spegnere la misericordia di Gesù. Luca, 11,46: « Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! ».

È peraltro importante che quelle premesse soggettive, di qualunque tipo siano, vengano rese note ai terzi e siano a loro volta lucidamente presenti nelle persone che si esprimono in questa materia. Che si sappia chiaramente se si fa ideologia e si accetta di vulnerare il malato col pretesto di tutelare altri vulnerabili. È un problema di parresia: il coraggio di dire il vero sulle premesse etico-religiose, presenti o assenti, nel dichiararsi a favore o contro una certa prospettiva che ha una dimensione metafisica. Nel confessare ciò, mi metto in discussione. Ma se non lo facessi verrei meno all’impegno civile che sostiene alcune prese di posizione pubbliche.

So perfettamente che qualcuno potrebbe indignarsi di fronte a una tale richiesta di verità. Ma non si tratta di una richiesta, quanto di un auspicio. Potrebbe essere l’inizio di una polemica nuova. Vorrebbe dire, almeno, che le coscienze sono ancora vive, e non dissimulano le ragioni vere di un discorso che attiene alla verità pubblica, alla ragione pubblica.

La seconda premessa di franchezza intellettuale riguarda pertanto la trasparente dichiarazione del campo di valori nei quali si inserisce la posizione del bioeticista, se di matrice religiosa, oppure di matrice atea o agnostica; con l’avvertenza che la semplice dicotomia laico/cattolico, come detto, rimane ancora fuorviante e opaca. È ingannevole dichiararsi laici o cattolici: occorre dichiarare se il senso della propria posizione è ideologico, se si protegge una morale (alla quale si deve piegare la libertà del singolo), oppure se viene prima di tutto la persona (alla quale va orientata la solidarietà, nel rispetto della autodeterminazione di terzi).

Per comprendere fino in fondo queste premesse nascoste dietro alle convenzioni consolidate dobbiamo ancora fare un passo importante e illustrare di nuovo la differenza tra la prospettiva di Enea e quella di Zarathustra.

 

3. Fraternité vs. liberté. La compassione di Enea e l’hybris di Zarathustra.

La dignità e la sofferenza dei malati estremi, messe alla prova dalle possibilità invasive della tecnica, hanno reso attuale la costruzione della categoria dei diritti infelici[5], di essere aiutati alla liberazione, nella dignità di chi non vuole l’istupidimento della narcosi perpetua, e in un quadro di umana solidarietà. La pietas di Enea non era una virtù debole, era portatrice di valori familiari e della polis, di un’etica pubblica e privata di aiuto costruito su una compassion che nobilita l’attivarsi della società e dello Stato non per riconoscere diritti individuali solipsistici. Non c’è la hybris dell’uomo che dispone della propria vita senza limiti che non siano quelli della capacità di intendere e di volere, della maggiore età e dell’assenza di vizi del proprio consenso. Non è Zarathustra, l’oltre-uomo (Übermensch) quello che vediamo nelle scene tragiche di questi processi penali: quello che supera i confini delle sacre leggi diventando egli stesso non solo misura di tutte le cose, ma anche del proprio destino. Una diversa cultura individualistica e liberal potrebbe inserirsi in questo dibattito per rivendicare la pienezza di scelte antistatuali o contrarie al verbo cattolico ufficiale. Forse siamo più adesivi al valore della tolleranza nella versione del Nathan il saggio (1779) di Lessing, che sarebbe così istruttivo per ricostruire un dialogo tra stranieri morali. Ma l’antidogmatismo come religione civile non ha mai attecchito pienamente nell’illuminismo giuridico italiano.

Quella diversa cultura individualistica, invece, l’abbiamo sentita riecheggiare nella voce potente di alcuni difensori nella nota vicenda del referendum abrogativo dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), non ammesso dalla Corte costituzionale, ma l’abbiamo vista ancor più affermata nella famosa sentenza della Corte costituzionale tedesca, espressiva di un sostegno liberale al diritto al suicidio[6]. Le ragioni del cuore, tuttavia, prevalgono e ci inducono a sostenere la solidarietà verso la persona che chiede di morire, piuttosto che il sostegno “virile” a un momento normalmente di debolezza estrema. C’è più fraternité nell’aiuto, che liberté nell’autoaffermazione. Infatti, chi abbia avuto esperienza del suicidio anche solo condizionato da una malattia depressiva grave, sa bene che un evento come questo – normalmente legato a malattie depressive – può colpire una persona, un familiare, al punto da non riprendersi più, trafitto per sempre da un male irreparabile che resta nell’anima. Il suicidio colpisce duramente i parenti, gli amici, i figli, i genitori: non è un atto di autonomia contro sé stessi, ma oggettivamente contro la vita degli altri, contro il mondo, contro tutti, con effetti permanenti. E anche qui, di fronte a queste situazioni, si sente il bisogno della cultura di Enea, della sua paideia, della sua Bildung, più che del grido violento di Zarathustra, espressione della follia del suo creatore esaltato da un volere che si fa potere più che amorevole diritto. Diritto amorevole cerchiamo. Ancora più terribile, nei processi che danno origine a queste vicende, è il calvario delle patologie che gli atti giudiziari degli aspiranti suicidi restituiscono visivamente alla lettura o all’ascolto. Il giudice che condanna chi ha sostenuto il gesto ultimo contro di sé del malato che ha amato tanto la vita deve sentirsi Caino e non sappiamo come possa celare un senso di rivolta contro un legislatore imbelle e insensibile, privo di giustificazioni per la sua ignavia.

Il terzo momento di parresia è la scelta di campo verso la solidarietà. L’aiuto al malato comprende e sostiene la sua libertà di scelta. Non deve limitarla mediante opzioni costrittive, che alla fine non sono mai solidali, scivolando sempre verso forme di vita obbligatorie. La libertà rimane protetta, e non elusa, dalla solidarietà.

La scelta obbligata, per la Corte, è stata finora conservativa di valori di solidarietà verso persone vulnerabili, ma alla fine i diritti delle stesse persone vulnerabili, perché non diventino vulnerate e vittime della stessa legge, hanno dovuto emergere ed esplodere sotto i ricorsi.

 

4. La legge della Regione Toscana (14 marzo 2025, n. 16) appartiene alla storia delle leggi costituzionalmente conformi o della lotta per i diritti?

La compassion è una categoria da tempo ritornata anche alla consapevolezza culturale filosofica grazie alle ricerche di Martha Nussbaum[7]. Ma non è una virtù del Parlamento italiano (della sua maggioranza) in questa materia. Noi subiamo le sue leggi e le sue non leggi. Obbediamo alla forza, che sta distruggendo il diritto. E allora, viene da chiedersi: se un parlamento regionale, cioè una assemblea regionale, interviene un po’ extra moenia per disciplinare il fine vita, questo suo eccesso di zelo rispetto al carattere nazionale della territorialità del versante penalistico della sua osservanza/inosservanza ex art. 3 c.p.[8], come deve essere valutato?

La legge regionale 14 marzo 2025, n. 16 della Regione Toscana ha una premessa storica ineludibile enunciata già dalla intitolazione: « Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024 ». Ci sono sentenze inattuate: se lo Stato centrale nulla fa, può lo Stato regionale intervenire a sostegno dei diritti vulnerati dal vuoto legislativo? Diritti? E quali mai? Chiede il giurista atarassico. Non esistono diritti di morire in questo Stato. Ma esistono i diritti di essere liberati da un male intollerabile, risponde il giurista sensitive: la pretesa etico-giuridica che il rifiuto di una terapia salvavita non aumenti le sofferenze, ma le interrompa veramente, con un intervento attivo. Lo chiamano suicidio assistito, ma il malato chiede solo un aiuto a morire, non è un suicida, mentre è la terapia che, continuando, gli risulta crudele e ingiusta. È la povertà culturale del penalista che continua a usare le vecchie fattispecie, mentre ne inventa sempre di nuove quando si tratta di accrescere pene e responsabilità. Siamo stanchi di sopportare queste tristi liturgie.

Nella legge della Regione Toscana, invece, si respira aria nuova. I cieli soprattutto, sembrano nuovi, magari venendo da Nord e sorvolando l’Appennino.

Più in particolare, i commi 6, 7 e 8 del Preambolo precisano ambito e scopo pratico della disciplina introdotta:

 

« 6. con questa legge la Regione, nell’esercizio delle proprie competenze in materia di tutela della salute, e in attuazione di una sentenza immediatamente esecutiva, detta norme a carattere organizzativo e procedurale per disciplinare in modo uniforme sul proprio territorio l’esercizio delle funzioni che la giurisprudenza costituzionale attribuisce alle aziende sanitarie nella materia di cui trattasi;

7. l’introduzione della presente disciplina serve a definire i tempi e le modalità inerenti alla procedura indicata dalla Corte costituzionale e, dunque, ad eliminare eventuali residui di incertezza e problematicità rispetto all’erogazione di una prestazione sanitaria suddivisa in più fasi, dalla verifica delle condizioni alla verifica delle modalità di autosomministrazione del farmaco che possa garantire una morte rapida, indolore e dignitosa. I tempi e le procedure rappresentano, infatti, elementi fondamentali affinché la facoltà riconosciuta dalla Corte costituzionale sia efficacemente fruibile, accedendo a condizioni di malattia, sofferenza ed estrema urgenza;

8. la presente legge riconosce in ogni caso la propria cedevolezza rispetto ad una successiva normativa statale che regoli la materia, fissandone i principi fondamentali ».

 

In dettaglio, la disciplina: Art. 1 - Finalità; Art. 2 - Requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito; Art. 3 - Istituzione della Commissione multidisciplinare permanente; Art. 4 - Modalità di accesso al suicidio medicalmente assistito; Art. 5 - Verifica dei requisiti; Art. 6 - Modalità di attuazione; Art. 7 - Supporto alla realizzazione della procedura di suicidio medicalmente assistito; Art. 8 - Gratuità delle prestazioni; Art. 9 - Norma finanziaria.

È vero che l’art. 117, co. 3, Cost. prevede materie di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, tra le quali compare, come ricordato nel Preambolo, al comma 6 della l.r. 16/2025 della Regione Toscana, la “tutela della salute”.

È nell’ambito di questo obiettivo di tutela della salute che la Regione ha normato in vari articoli l’attuazione delle sentenze della Corte. Mai finalità fu più sincera[9]: perché è in gioco la salute mentale e fisica di persone disperate, che ogni giorno soffrono i dolori intollerabili che giuristi insensibili vogliono continuare a infliggere loro in nome di una politica della morale cattolica che può essere imposta giustamente solo a quelli che la sostengono. Se questo è un braccio di ferro, bisognerà chiarire che è storicamente persa la battaglia di retroguardia sul terreno dei diritti fondamentali del malato. I veterocattolici la perderanno, come tutte le loro battaglie perse.

È così che l’articolato si addensa di regole capaci di riempire finalmente di contenuto attuativo la trama dei tanti diritti infelici. Tempistiche accelerate, commissione multidisciplinare permanente, verifica dei requisiti, gratuità delle prestazioni. Si tratta peraltro di regole organizzativo-procedimentali, che non invadono la sfera dei princìpi fondamentali sul fine vita di competenza statale e costituzionale, già contenuti nelle citate sentenze della Corte. Lo Stato avrebbe potuto disciplinare ulteriormente questo assetto dei princìpi, che appartiene – non lo si dimentichi – al contesto del pluralismo etico-giuridico, in quanto tutte le sentenze della Corte danno atto di questo immanente pluralismo che la stessa Consulta non ha risolto autoritativamente. Eppure, non può il blocco legislativo parlamentare diventare un alibi per negare l’esistenza di una premessa costituzionale già esistente di princìpi consolidati. Al contrario, una legge regionale come questa ha natura di legge costituzionalmente conforme, nei limiti storici della violazione dei propri compiti da parte dell’organo legislativo. Un effetto paradosso sarebbe quello di affermare l’impossibilità di una legge di attuazione per la perdurante carenza di una legge statale sul fine-vita.

Ed è vero, altresì, che la Consulta ha redatto il nuovo art. 580, co. 2, c.p., pensandolo come auto-applicativo, tale da non richiedere, necessariamente, un intervento legislativo o regolamentare di “attuazione”[10]. I residui del pluralismo ideologico nella attuazione resteranno sempre: anche di fronte a una legge statale che faccia da cornice, la giurisprudenza si potrà dividere di nuovo.

Più rilevante, a tale riguardo, è il collegamento di questo tema con quello della territorialità della legge nei suoi aspetti penalistici.

Il problema della territorialità è ineludibile qualora si tratti di legge penale, sottratta alla competenza regionale ex art 117, lett. l, Cost. (“ordinamento civile e penale”).

Ma qui non viene regolata la punibilità: solo l’accesso al diritto liberatorio, che non è, in quanto tale, diritto di morire, come ripetono i vecchi penalisti cattolici.

Noi pensiamo che di fatto ci sia stata un’implicita affermazione del diritto di morire, come più volte argomentato[11]. Ma nelle forme della legalità non valgono i diritti impliciti. Di esplicito c’è solo il libera nos a malo. E in questa laica declinazione possiamo riconoscerci tutti: laici e cattolici, per semplificare al massimo.

Le modalità di attuazione delle forme di congedo che riguardino l’applicazione dell’art. 580 c.p., nella parte che determina la non punibilità, o l’esclusione della pena prevista per l’aiuto al suicidio, sono certamente di estensione generale, statale e non regionale. Ma sono tutte già contenute nella legge sulle DAT e nelle sentenze della Corte, oltre che della giurisprudenza penale. Invece, i profili attuativi di tipo procedimentale regolati dalla Regione non impattano direttamente sulla non punibilità. Ma impattano sul processo di attuazione sociale del libera nos a malo. Questo sì che è di primario rilievo e potrà infastidire chi in realtà si oppone a quel diritto. Per tale motivo può ben dirsi che la legge regionale attua il dettato costituzionale, ma al medesimo tempo costituisce una tappa importante nella lotta storica per i diritti fondamentali del malato.

 

 

 

 

[1] Mi limito qui a ricordare i commenti di M. Donini, Cerchiobottismo sui princìpi e aperture di fatto per le anime prigioniere. Note a C. cost. n. 135/2024, in Giur. Cost., 2024, 1812 ss.; F. Consulich, La morte medicalmente assistita e la tentazione dell’overruling: il significato ambiguo del trattamento di sostegno vitale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, 1071 ss., con altri richiami. E poi l’istruttivo quadro comparato descritto in M. Albore, L. Sorace, S. Del Prete, G. Bolino, Il vincolo della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale: un paradosso nella legittimità della morte volontgaria medicalmente assistita? Dichiarazione bioetica e panoramica della letteratura alla luce dell’ultima pronuncia della Corte costituzionale, in Riv. it. med. leg., 2024, 7 ss

[2] Di tale giudizio non conoscevamo l’esito durante la redazione di questo scritto. Nelle more è stata pubblicata la sentenza C. cost., 20 maggio 2025, n. 66, che ha dichiarato l’infondatezza delle eccezioni di illegittimità dell’art. 580 c.p. sollevate relative al quarto requisito dei trattamenti di sostegno vitale, pur ribadendo la necessità di interventi legislativi di esecuzione delle prescrizioni statuite dalla Corte nella sentenza n. 135 del 2024. Nel bilanciamento fra la tutela delle persone vulnerabili e i diritti di essere liberati dal male (« il cosiddetto “diritto di morire”» ivi, § 7.2 del Considerato), la Corte vede qui soprattutto la chance delle cure palliative di cui garantire l’effettiva disponibilità e praticabilità. Ogni apertura a più ampie applicazioni del suicidio assistito è affidata a soluzioni parlamentari. Ma vedremo quali altri ricorsi arriveranno a giudizio. I casi concreti esaminati, peraltro, secondo la lettura della Corte avevano un oggetto limitato, relativo alla possibilità di accedere a forme di suicidio assistito anche dopo aver rifiutato trattamenti di sostegno vitale: quesito che ha avuto risposta positiva da parte del Giudice delle leggi. Questa “processualizzazione” dell’oggetto (circoscritto a un petitum originario limitato) ha evidentemente sacrificato la disamina sostanziale, che aveva invece occupato parti significative della discussione.

[3] Se uno ricorda la vicenda paradigmatica del dott. Kevorkian, un leading case di tutto il biodiritto, ben comprende che ci siamo nutriti di fantasmi, che per troppo tempo non abbiamo capito, insistendo a punire entrambe le forme di aiuto a morire, oppure punendo solo una (l’omicidio del consenziente) e non l’altra (l’aiuto al suicidio), quando entrambe avevano lo stesso significato salvifico e fraterno rispetto ai casi di liberazione dal male estremo. Non abbiamo capito nulla. Per troppo tempo. V. brevi richiami comparati in Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male. Note a margine delle “procedure legittimanti l’aiuto a morire” imposte da Corte cost. n. 242/2019, in Sist. pen., 10 febbraio 2020, 1-25, poi in G. D’Alessandro, O. di Giovine (a cura di), La Corte costituzionale e il fine vita. Un confronto interdisciplinare sul caso Cappato-Antoniani, Torino, Giappichelli, 2020.

[4] G. Calogero, Filosofia del dialogo, Ed. di Comunità, Milano, 1962.

[5] Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Riv. it. med. Leg., 2016, 547-572.

[6] BVerfG, 26.2.2020, Rn. 210 ss. Breve illustrazione in Libera nos a malo, cit., 12 s., § 12, con richiami. Anche la più ampia ricostruzione filosofica recente delle tesi di apertura a nuove discipline liberali sul fine vita, quella dei libri di  G. Fornero, Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico-giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, Utet, Torino, 2020; Id., Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro, Utet, Torino, 2023, mi sembra più orientata alla libertà che non alla solidarietà, e dunque all’eutanasia in senso ampio, più che all’aiuto a morire di cui trattiamo qui.

[7] A tutto campo, M. Nussbaum, Upheavels of Thought (2003), tr. it. L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna, 2004.

[8] «(Obbligatorietà della legge penale) La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale ».

[9] P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita. Uno studio su autonomia regionale e prestazioni sanitarie eticamente sensibili, in Corti supreme e salute, 1/2024, spec. 7 ss

[10] Oltre a P.F. Bresciani, op. ult. cit., ampiamente, con altri richiami, L. Bianchi, Sulla competenza legislativa regionale in materia di fine vita, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2024, 149 ss. (anche in http://www.osservatoriosullefonti.it

[11] M. Donini, Libera nos a malo, in Sist. pen., cit., 14 ss.; Id., Rime obbligate, fine-vita e diritti fondamentali. La legittimazione costituzionale di una sentenza manipolativo-additiva al limite, in DisCrimen, 31 luglio 2023 § 6; anche in Studi in memoria di Gladio Gemma, Giappichelli, Torino, 2023, 289 ss., 302 ss