Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Pietro Bernardoni (artt. 2, 3, 10 Cedu e 1 Prot. 7 Cedu) e Violette Sirello (art. 6 Cedu).
In marzo abbiamo selezionato pronunce relative a: obblighi sostanziali e procedurali di tutela della vita di agenti impegnati in operazioni anti-terrorismo (art. 2 Cedu); esecuzione di mandato d’arresto europeo e rischi di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu); mancata escussione dei testimoni che avevano reso sommarie informazioni in indagine e mancata rinnovazione, in secondo grado, della prova dichiarativa assunta dal g.u.p. (art. 6 Cedu); ragionevole durata e negligenze nello svolgimento delle indagini (artt. 6, 13 Cedu); diffamazione tra privati attraverso documento non destinato a diffusione pubblica (art. 10 Cedu); espulsione di straniero per ragioni di sicurezza basata su informazioni secretate (art. 1 Prot. 7 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 30 marzo 2021, Ribcheva e altri c. Bulgaria
Morte di un ufficiale anti-terrorismo nel corso di un’operazione – obbligo di proteggere la vita – non violazione – obblighi procedurali di indagine – violazione
Il giudizio della Corte riguarda la morte di un agente di un’unità anti-terrorismo, avvenuta nel corso di un’operazione condotta per sequestrare alcune armi da fuoco detenute illegittimamente da un uomo che aveva manifestato in precedenza atteggiamenti minacciosi. L’uomo, tuttavia, era stato messo in allerta da alcuni movimenti di poliziotti in divisa nei pressi della sua abitazione nei giorni immediatamente precedenti, e pertanto si era asserragliato in casa (§§16-17). Sulla vicenda, il Ministero degli affari interni bulgaro aveva condotto una prima inchiesta, in cui si ricostruiva lo svolgimento dei fatti (§§38-44); ne era seguita una seconda, specificamente volta ad accertare se vi fossero state lacune organizzative che avessero influito sul decesso dell’agente (§§49-63). Inoltre, si era svolto anche il processo penale a carico di P.P., riconosciuto colpevole di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione (§§31-37). La Corte individua una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il versante procedurale; rispetto al versante sostanziale, infatti, pur essendo emerse alcune lacune organizzative nella pianificazione dell’operazione e nell’equipaggiamento fornito, i giudici di Strasburgo ritengono che non sia violato l’obbligo dello Stato di predisporre adeguate misure per proteggere la vita degli agenti impegnati in operazioni rischiose (§§179-180); la Corte valorizza, in particolare, il fatto che l’operazione sia stata condotta nei confronti di soggetto armato e determinato a difendersi. Sotto il versante procedurale, invece, la sentenza ribadisce che l’art. 2 Cedu non richiede che venga condotto un processo penale per accertare eventuali responsabilità dei superiori coinvolti nell’operazione; tuttavia, le indagini amministrative effettuate dal Ministero dell’interno non sono state ritenute sufficienti a garantire il rispetto di tale norma. Ciò, in particolare, per due ragioni: da un lato, la seconda inchiesta, specificamente dedicata ad approfondire eventuali responsabilità per la morte dell’agente, sarebbe stata intrapresa solo su richiesta di una delle ricorrenti, e non d’iniziativa da parte dello Stato; dall’altro lato, gli esiti di entrambe le indagini sarebbero rimasti secretati per cinque anni dopo la loro conclusione, così precludendo ai parenti della vittima la possibilità di far valere i loro diritti in sede risarcitoria in modo efficace (§§144-146). (Pietro Bernardoni)
Riferimenti bibliografici: T. Trinchera, La Corte europea di fronte alla minaccia di attentati terroristici: tra obblighi di prevenzione e limiti imposti all’uso della “forza letale”, in Riv. it. dir. proc. pen., n.3/2017, p. 1200; C. Mostardini, Sull’uso della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2017, p. 1567; A. Faina, Malfunctioning of domestic system e violazione degli aspetti sostanziali e procedurali del diritto alla vita, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2020, p. 359.
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, 25 marzo 2021, Bivolaru e Moldovan c. Francia
Trattamenti inumani e degradanti – consegna di un ricorrente alle autorità rumene in esecuzione di un mandato d’arresto europeo – applicazione del principio di protezione equivalente – presenza di un rischio reale di detenzione in condizioni inadeguate – violazione – mancato rinvio alla Corte di giustizia su questione nuova – non applicazione del principio di protezione equivalente – insufficiente prova del rischio di detenzione in condizioni contrastanti con la Cedu – non violazione
La sentenza riguarda le vicende di due soggetti di nazionalità rumena, nei confronti dei quali la Romania aveva richiesto un mandato di arresto europeo per l’esecuzione di condanne penali emesse in absentia; entrambe le richieste erano state accolte dalle autorità giudiziarie francesi, ma con iter differenti. Per quanto riguarda il sig. Moldovan, questi era stato condannato nel 2015 a sette anni di reclusione per traffico di esseri umani dalla Romania alla Francia; arrestato in Francia, egli aveva contestato l’esecuzione del m.a.e. davanti alle autorità francesi, allegando il fatto che in Romania avrebbe subito una detenzione in condizioni incompatibili con l’art. 3 Cedu. Le autorità francesi, dopo aver richiesto rassicurazioni sul punto alla Romania, avevano tuttavia concesso l’esecuzione del m.a.e (§§4-15). Il sig. Bivolaru, invece, dopo essere stato arrestato a Parigi, aveva contestato il m.a.e. emesso nei suoi confronti dalle autorità giudiziarie rumene per l’esecuzione di una condanna per reati sessuali, allegando in particolare la natura politica della condanna e il rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3 Cedu per ragioni politiche e religiose; dal 2005, infatti, egli aveva ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Svezia (§§16-37). Entrambi i ricorrenti lamentano una violazione dell’art. 3 Cedu nei loro confronti per effetto dell’esecuzione del m.a.e. La Corte valuta diversamente le due posizioni: con riguardo al sig. Moldovan, in particolare, pur ritenendo che operi il principio di protezione equivalente – in base al quale si presume che il sistema dell’Unione assicuri una tutela ai diritti fondamentali almeno equivalente a quella accordata dalla Convenzione (§§96-103) – la Corte afferma che le allegazioni da lui effettuate, con corredo di elementi probatori a sostegno, circa le condizioni insufficienti in cui sarebbe stato detenuto, erano sufficientemente circostanziate da imporre alle autorità francesi di richiedere maggiori rassicurazioni sul luogo in cui il soggetto sarebbe stato recluso e sulle relative condizioni (§117-126). Pertanto, i giudici riconoscono la violazione dell’art. 3 Cedu nei suoi confronti. Con riguardo al sig. Bivolaru, invece, i giudici ritengono che non operi il principio di protezione equivalente, in quanto i giudici francesi avrebbero omesso il rinvio incidentale alla Corte di Giustizia per chiedere chiarimenti sul rapporto tra disciplina del m.a.e. e status di rifugiato riconosciuto da paese membro dell’Unione (§§130-132); ciononostante, la Corte ritiene che non vi sia violazione dell’art. 3 Cedu in quanto le allegazioni del ricorrente sui rischi da lui corsi in patria sarebbero prive di un corredo probatorio sufficiente a rendere l’esecuzione del m.a.e. in contrasto con la norma convenzionale (§§142-145). (Pietro Bernardoni)
Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La tutela dei diritti umani nel procedimento di estradizione, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2019, p. 1741
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 25 marzo 2021, Di Martino e Molinari c. Italia
Assoluzione in primo grado all’esito di giudizio abbreviato con acquisizione ex officio di una prova testimoniale – condanna in appello senza esame di testimoni a carico le cui dichiarazioni, verbalizzate unilateralmente in indagine, sono state utilizzate come prove in primo e secondo grado – non violazione - mancata rinnovazione in appello della testimonianza assunta ex officio dal giudice di primo grado senza incidenza sui diritti della difesa – non violazione
I ricorrenti, assolti in primo grado all’esito di giudizio abbreviato e successivamente condannati in appello, lamentano la violazione dell’art. 6 comma 1 e comma 3 lett. d) Conv. eur. dir. uomo, sotto un duplice profilo: si dolgono, da un lato, per la mancata escussione dei testimoni che avevano reso sommarie informazioni in indagine, poi utilizzate dal giudice di primo grado per fondare la decisione assolutoria; dall’altro, per la mancata rinnovazione, in secondo grado, della prova dichiarativa assunta dal g.u.p. ai sensi dell’art. 441 comma 5 c.p.p. In breve, la vicenda. Accusati di gravi reati, tra cui l’associazione a delinquere di stampo mafioso, i ricorrenti avanzavano richiesta di giudizio abbreviato. Instaurato il rito e svolta la discussione, il g.u.p., ai sensi dell’art. 441 comma 5 c.p.p., disponeva l’esame di un collaboratore di giustizia, la cui testimonianza era ritenuta necessaria in rapporto alla prova della responsabilità penale di un coimputato dei ricorrenti. Il procedimento di primo grado si concludeva con sentenza di assoluzione per entrambi gli imputati. Basandosi sul medesimo compendio probatorio, la Corte d’Appello perveniva, invece, a una decisione opposta. Secondo i ricorrenti, la condanna in appello, pronunciata senza aver proceduto all’esame di tutti i testimoni risultati decisivi per la reformatio in peius dell’assoluzione, determinerebbe la violazione del diritto di difesa e, dunque, dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo (§ 20-22). La Corte europea rammenta, anzitutto, che, quanto alla valutazione della colpevolezza dell’accusato, il giudice deve, di regola, procedere all’escussione diretta dei testimoni e apprezzarne la credibilità. Inidonea a garantire gli standard convenzionali è, sotto questo aspetto, la mera lettura del contenuto di sommarie informazioni testimoniali trasfuse in un verbale (§ 28). Come da giurisprudenza ormai consolidata a seguito della pronuncia Al-Khawaja (C. eur. dir. uomo, grande camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito), l’equità complessiva del procedimento deve valutarsi alla luce della concreta valenza probatoria in termini di decisività delle dichiarazioni rese dai testimoni non risentiti, nonché dall’esistenza di adeguate garanzie procedurali idonee a controbilanciare un eventuale deficit difensivo (§ 29). La Corte europea osserva, poi, come il giudizio abbreviato si connoti per le minori garanzie che offre rispetto al giudizio dibattimentale, difettandone l’oralità e l’immediatezza tipici di quest’ultimo (§ 33). La rinuncia consapevole a tali garanzie non contrasta, in astratto, con l’art. 6 Conv. eur. dir. uomo, ma dev’essere manifestata in modo inequivocabile e deve comunque essere assistita da un nucleo minimo di tutele (§ 33). Venendo al caso di specie, la richiesta di celebrare il processo con giudizio abbreviato ha implicato l’accettazione dei ricorrenti a essere giudicati sulla base del compendio probatorio raccolto unilateralmente in fase d’indagine e, per converso, la rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova tipico del rito ordinario (§ 36-37). Peraltro, un eventuale standard più elevato di tutela assicurato a livello interno - quale derivante dall’interpretazione estensiva dell’art. 603 c.p.p. offerta dalla Corte di cassazione quanto alla riassunzione in appello delle prove decisive a sostegno della condanna in secondo grado anche nel caso di giudizio abbreviato (Sez. Un., 19 gennaio 2017, n. 18620, ric. Patalano) – non prevale sul nucleo minimo di garanzie previsto dalla Convenzione: da qui, la non violazione dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo (§ 39-40). In relazione, poi, al mancato esame in appello del testimone sentito in primo grado, ai sensi dell’art. 441 comma 5 c.p.p., la Corte rileva come la condanna dei ricorrenti si sia basata sull’intero compendio probatorio agli atti, che le dichiarazioni rese dal testimone in questione hanno semplicemente confermato. La testimonianza non ha rivestito carattere decisivo né in primo né in secondo grado (§ 41-45). Ne deriva, dunque, la non violazione del canone convenzionale. (Violette Sirello)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Prima condanna in appello e garanzie effettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, in corso di pubblicazione; L. Pressacco, Principio di immediatezza e reformatio in peius tra Strasburgo e Roma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1552 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 18 marzo 2021, Petrella c. Italia
Durata ragionevole del procedimento – archiviazione per prescrizione – caso non particolarmente complesso – violazione – diritto di accesso al giudice – negligenze investigative nel procedimento penale che determinano un provvedimento di archiviazione per prescrizione – violazione – mancanza di ricorso effettivo per far valere la durata irragionevole del procedimento – impossibilità di avvalersi della “legge Pinto” per il querelante che non si è potuto costituire parte civile in assenza di esercizio dell’azione penale – violazione
La negligenza e l’inerzia del pubblico ministero nello svolgimento delle indagini preliminari relative a un caso poco complesso violano l’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo poiché non assicurano la durata ragionevole del procedimento e privano la persona offesa danneggiata dal reato del diritto di far valere le proprie pretese civili nel procedimento penale da lei prescelto. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte europea concerne un’asserita diffamazione a mezzo stampa, rispetto alla quale il ricorrente aveva depositato una querela nel 2001. Dopo cinque anni e quattro mesi, la Procura della Repubblica competente aveva richiesto l’archiviazione in ragione della prescrizione nel frattempo maturata: il giudice per le indagini preliminari pronunciava il relativo provvedimento nel gennaio 2007. Il ricorrente investe, così, della questione la Corte europea, lamentando in particolare l’eccessiva durata del procedimento, nonché la violazione del diritto di accesso al giudice in ragione del fatto che il decreto di archiviazione per intervenuta prescrizione cagionata dall’inerzia e dalla negligenza del pubblico ministero avrebbe frustrato le sue pretese risarcitorie. Sulla scorta di precedenti pronunce, nelle quali aveva affrontato il profilo dell’applicabilità dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo alla vittima già o non ancora costituita parte civile (per tutti, C. eur. dir. uomo, 7 dicembre 2017, Arnoldi c. Italia), la Corte di Strasburgo ribadisce, anzitutto, come rientrino nell’ambito di operatività del canone convenzionale in parola non solo quei procedimenti nei quali è già stato depositato un atto di costituzione di parte civile, ma anche la fase antecedente a tale deposito là dove la legge conferisce espressamente alla persona offesa diritti e facoltà (§ 22). Nel caso di specie, poiché il ricorrente aveva precisato sin dalla querela di volersi costituire parte civile nell’instaurando procedimento penale e di essere informato di un’eventuale richiesta di archiviazione, la Corte ha riconosciuto l’applicabilità dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo (§ 23). Quanto alla doglianza relativa alla durata eccessiva del procedimento, i giudici di Strasburgo rammentano che, nella valutazione circa la ragionevolezza della durata del procedimento, va considerato il periodo che decorre dal momento in cui la persona offesa o danneggiata dal reato esercita uno dei diritti e delle facoltà che le sono espressamente riconosciute dalla legge (§ 39). Soccorrono poi ulteriori criteri, quali la complessità del caso, il comportamento del ricorrente e quello tenuto dalle autorità procedenti, nonché l’oggetto della controversia (§ 40). La Corte ravvisa, dunque, la violazione dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo, considerato che la sola fase delle indagini preliminari era durata circa cinque anni e sei mesi, che la vicenda non si caratterizzava per una particolare complessità e che, durante tale lasso di tempo, alcun atto investigativo era stato compiuto (§ 41-43). In merito poi alla violazione del diritto di accesso al giudice, richiamati i precedenti in materia e i confini entro i quali la garanzia opera (§ 47-48), la Corte europea precisa che non sussiste la violazione in parola laddove la normativa nazionale preveda azioni ulteriori e idonee per far valere le pretese della vittima: è il caso, ad esempio, in cui quest’ultima si sia rivolta al giudice civile per la soddisfazione dei propri diritti e abbia ottenuto una pronuncia nel merito prima della conclusione (e l’abbandono) delle indagini nel procedimento penale (§ 50). Per converso (§ 51), è stata ritenuta la violazione dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo quando la chiusura della fase investigativa e l’omessa pronuncia sull’azione civile siano conseguite a negligenze imputabili all’autorità giudiziaria, che abbiano determinato il maturare della prescrizione e dunque l’estinzione del procedimento penale (per tutte, C. eur. dir. uomo, sez. I, 3 aprile 2003, Anagnostopoulos c. Grecia). Nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte osserva che il ricorrente non ha potuto costituirsi parte civile in udienza preliminare, pur avendo esercitato i diritti riconosciutigli dalla legge, in ragione della prescrizione del reato nel frattempo maturata durante una fase d’indagine preliminare eccessivamente e ingiustificatamente lunga. Il comportamento omissivo tenuto dalla pubblica accusa ha, così, determinato l’impossibilità, per il ricorrente, di vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni nella sede processuale penale da lui prescelta (§ 52-53). Non si può, in effetti, pretendere che il danneggiato instauri un nuovo procedimento avanti il giudice civile a seguito della dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione pronunciata dal giudice penale, in ragione delle difficoltà che il danneggiato medesimo potrebbe incontrare nel reperimento di elementi di prova a notevole distanza di tempo dall’ipotizzata commissione del fatto. Ne deriva, quindi, la violazione dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo (§ 54). Quanto alla doglianza relativa alla mancanza di un rimedio effettivo, previsto a livello interno, per la durata eccessiva del procedimento, l’impossibilità di avvalersi della legge n. 89/2001 (cd. “legge Pinto”) per la persona offesa, danneggiata dal reato, che non abbia potuto costituirsi parte civile in ragione in assenza di esercizio dell’azione penale, integra, per la Corte europea, una violazione dell’art. 13 Conv. eur. dir. uomo (§ 61-62). (Violette Sirello)
ART. 10 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 25 marzo 2021, Matalas c. Grecia
Libertà di espressione – diffamazione tra privati – documento non destinato alla diffusione tra il pubblico – violazione
Il ricorrente, CEO della società AGROGI A.E., era stato condannato alla pena sospesa di cinque mesi di reclusione per aver diffamato una dipendente della società, in precedenza legale della stessa, affermando in un documento ufficiale che la stessa avrebbe tenuto un “comportamento non professionale e contrario all’etica” e mostrato “intenzioni malevole” di danneggiare gli interessi della società (§§9-16). La Corte, nel bilanciare il diritto alla libera manifestazione del pensiero del ricorrente con il diritto al rispetto della vita privata e famigliare dell’avvocata diffamata, ritiene che la condanna configuri un’interferenza “prescritta dalla legge” ma non “necessaria in una società democratica” (§61), in quanto: il linguaggio usato era moderato e non offensivo (§54); si trattava di documento destinato a rimanere riservato e dunque non in grado di ledere la reputazione professionale della donna (§55); si inseriva in un contesto conflittuale tra le due parti (§§56-58). Per giungere a tale conclusione, in particolare, la Corte ritiene che al caso in esame – diffamazione tra due privati per mezzo di documento non destinato ad essere diffuso tra il pubblico – debbano applicarsi i medesimi principi elaborati dalla giurisprudenza convenzionale in relazione alle ipotesi di diffamazione contenuta in documenti, diretti all’autorità, di reclamo nei confronti dell’operato di pubblici ufficiali (§46). (Pietro Bernardoni)
Riferimenti bibliografici: M. Crippa, La pubblicazioni di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte edu condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2020, p. 1164.
ART. 1 PROT. 7
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 9 marzo 2021, Hassine c. Romania
Garanzie procedurali in caso di espulsione di stranieri – espulsione per ragioni di sicurezza – decisione assunta in base a informazioni secretate – violazione
Il ricorrente è un cittadino tunisino, che viveva in Romania dal 2007 sulla base di un permesso di soggiorno per motivi famigliari valido fino al 2015; dal 2009, infatti, è sposato con una cittadina rumena, da cui ha avuto un figlio. Nel 2012, però, il ricorrente era destinatario di un provvedimento di espulsione dalla Romania con divieto di rientrarci per i cinque anni successivi, in quanto “persona indesiderabile” perché pericolosa per la sicurezza nazionale (§5). La decisione era presa sulla base di informazioni classificate, non accessibili né al ricorrente né al suo avvocato di fiducia (§20). La Corte ritiene che vi sia stata una violazione delle garanzie di cui all’art. 1, Prot. 7, Cedu, perché le limitazioni imposte sul diritto del ricorrente – in particolare l’impossibilità di accedere alle informazioni riservate, anche da parte del suo avvocato di fiducia – non sono state bilanciate in modo da garantirne almeno il nucleo essenziale (§§67-68). Avendo ricevuto solo informazioni molto generiche, infatti, egli ha potuto basare la sua difesa solo su supposizioni, il che non garantisce il diritto al contraddittorio minimo che le garanzie procedurali connesse all’art. 1, Prot. 7, Cedu, richiedono (§65). (Pietro Bernardoni)