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  Nota a sentenza  
15 Maggio 2025


Assolta l’attivista iraniana Maysoon Majidi dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Le motivazioni della sentenza, nel quadro della criminalizzazione dei c.d. migranti-scafisti

Trib. Crotone, 5 febbraio 2025 (dep. 5 maggio 2025)



1. Sono state depositate pochi giorni fa le motivazioni della pronuncia con la quale, a febbraio, il Tribunale di Crotone ha assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare la signora Maysoon Majidi, nota attivista curdo-iraniana fuggita dall’Iran e poi dall’Iraq, Paesi nei quali era stata oggetto di persecuzioni per motivi politici. La vicenda, che ha avuto una significativa eco mediatica, riguardava il trasporto di circa settanta migranti irregolari a bordo di un piccolo motoveliero partito dalla Turchia il 26 dicembre 2023 e giunto in Italia il 31 dicembre. Secondo l’ipotesi accusatoria originaria, cristallizzata nel capo di imputazione, la donna avrebbe agito in concorso con un’altra persona (giudicata separatamente con rito abbreviato), ponendosi alla guida dell’imbarcazione dietro compenso economico. In sede di discussione, tuttavia, il Pubblico ministero aveva ridimensionato l’accusa, sostenendo che la donna avesse semplicemente fornito “ausilio” al comandante, quale controprestazione personale per ottenere un posto a bordo, dopo che era stata truffata dal trafficante al quale si era rivolta e non essendo riuscita a reperire ulteriore denaro.

 

2. All’esito del dibattimento il Tribunale di Crotone ha assolto l’imputata “per non avere commesso il fatto”.

Anzitutto – e in estrema sintesi – sono state giudicate inattendibili le dichiarazioni accusatorie rese alla polizia giudiziaria, nell’immediatezza dello sbarco, da due altri migranti presenti sul medesimo barcone, gli unici escussi a sommarie informazioni testimoniali poi acquisite al fascicolo del dibattimento per sopravvenuta irreperibilità dei dichiaranti. Sul punto il Tribunale ha osservato che, all’esito del dibattimento, non erano emersi elementi di prova, ricavabili dalla vicenda complessivamente considerata, idonei a corroborare tali informazioni, come invece sarebbe stato necessario trattandosi di dichiarazioni rese da soggetti indagati per reato connesso (l’ingresso irregolare ex art. 10-bis t.u. imm.) e trattandosi altresì, come poc’anzi accennato, di elementi assunti al fascicolo del dibattimento ex art. 512 c.p.p. (in linea con l’insegnamento da ultimo ribadito da Cass., 15/2/2024, n. 13384, a sua volta basata su consolidata giurisprudenza di Strasburgo). Il pubblico ministero aveva sostenuto, sulla base di alcune immagini, che l’imputata era rimasta sopra coperta durante la traversata, a differenza degli altri passeggeri; ma la portata indiziaria di tale elemento era stata smentita dal fatto che, almeno in alcune fasi della navigazione, era stata concessa a tutti i passeggeri libertà di movimento.

Oltre all’assenza di elementi di conferma delle dichiarazioni accusatorie, il giudice crotonese ha messo in luce elementi idonei a contraddirle, segnatamente il fatto che l’imputata era giunta a bordo dell’imbarcazione insieme agli altri passeggeri e era stata obbligata, come loro, a consegnare il telefono cellulare durante la traversata. Lo stesso comandante dell’imbarcazione, del resto, aveva sempre negato che l’imputata fosse una sua aiutante, sottolineando oltretutto che la stessa parlava una lingua, il farsi, a lui incomprensibile.

Ancora, il Tribunale ha ritenuto privo di valore probatorio l’indizio, valorizzato dall’accusa, rappresentato dalla circostanza che, nei pressi delle coste calabresi, l’imputata aveva abbandonato il barcone insieme ad altri quattro soggetti, incluso il comandante, a bordo di una piccola imbarcazione di servizio, e aveva tentato di far perdere le proprie tracce nascondendosi nella boscaglia. Secondo il giudice, infatti, tale comportamento trova una diversa e più plausibile spiegazione, rispetto alla volontà di sottrarsi alla responsabilità per il reato di favoreggiamento, nel tentativo di sottrarsi ai controlli di frontiera, onde evitare che, in forza del regolamento di Dublino, fosse poi preclusa la richiesta d’asilo in uno Stato membro diverso dall’Italia. Tanto risulta confermato dalle dichiarazioni di altri passeggeri, sentiti come testimoni, ai quali l’imputata aveva confidato di volere raggiungere la Germania.

Infine, quanto alla mancanza di evidenze circa il pagamento della traversata, il Tribunale ha respinto l’argomento dell’accusa, che da tale elemento negativo ricavava un ulteriore indizio di responsabilità, osservando – in maniera assorbente rispetto alle ulteriori considerazioni in punto di fatto, che non occorre riprodurre in questa sede – come la sua valorizzazione in malam partem si sarebbe tradotta in una violazione della presunzione di non colpevolezza.

* * *

3. Benché motivata, come visto, essenzialmente in punto di fatto, la pronuncia in esame, non ancora definitiva nel momento in cui si scrive, presenta elementi di interesse che trascendono la – pur significativa, anche per l’attenzione mediatica ricevuta – vicenda concreta.

In primis, è proprio il suo essere una sentenza sul fatto a rivelare, o meglio confermare, un dato di diritto di centrale importanza. Maysoon Majidi è stata infatti assolta per non avere commesso un fatto che, se avesse commesso, avrebbe integrato il delitto di cui all’art. 12 del testo unico immigrazione, ossia la norma incriminatrice alla quale il nostro ordinamento affida il compito di reprimere qualunque atto diretto a procurare l’ingresso irregolare di stranieri. Anche il semplice “ausilio” offerto al comandante di un barcone – termine utilizzato dall’accusa, come visto, per ri-descrivere nel corso del dibattimento la condotta dell’imputata – può essere inghiottito da quell’onnivora norma incriminatrice e per l’effetto sottoposto a un trattamento che, fin dalle misure pre-cautelari e cautelari applicabili, tende a livellare verso l’alto, in termini di severità, la risposta offerta dall’ordinamento a un ventaglio di condotte talmente esteso da ricomprendere tanto il traffico organizzato di migranti, quanto il contributo agevolatore occasionale e del tutto marginale in termini di portata offensiva. Lo dimostra plasticamente la vicenda esaminata, nella quale l’imputata è stata arrestata e mantenuta in custodia cautelare per oltre dieci mesi, prima di essere assolta da accuse che sulla carta comportavano – anche per effetto del giro di vite da ultimo impresso con il c.d. decreto Cutro[1]pene nel massimo superiori a vent’anni di reclusione.

Davvero non si comprende quale possa essere la ratio giustificatrice di un trattamento così severo, specialmente se si considera che lo stesso non è necessariamente ricollegato alla sussistenza di elementi che riflettano situazioni di pericolo e/o sfruttamento dei migranti: invero, la cornice edittale da sei a sedici anni di reclusione, oltre alla pena pecuniaria di 15.000 euro per ogni straniero, trovano applicazione, per effetto delle aggravanti speciali di cui terzo comma dell’art. 12 t.u. imm., sia nelle ipotesi aggravate in quanto pluri-offensive  (pericolo per la vita o l’incolumità dei migranti; sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani e degradanti), sia nelle ipotesi aggravate in ragione del mero approfondimento dell’offesa arrecata all’integrità delle frontiere (numero di concorrenti, numero di migranti coinvolti). Parimenti indifferente al tipo di disvalore sotteso alle condotte è il successivo comma 3-bis, che prevede un ulteriore aumento della pena fino a un terzo in presenza di due o più aggravanti del comma 3, incluse quelle da ultimo menzionate, di natura mono-offensiva.

Ci troviamo, pertanto, al cospetto di una norma incriminatrice dotata di un arsenale sanzionatorio che, parificando il trattamento di tipi criminologici manifestamente diversi, appare di problematica compatibilità con il principio di uguaglianza-ragionevolezza; principio che la Corte costituzionale ha avuto modo di declinare proprio con riferimento alla materia che ci occupa, dichiarando l’illegittimità di due delle aggravanti previste dal terzo comma dell’art. 12 (quelle consistenti nell’utilizzo, rispettivamente, di documenti falsi e di servizi internazionali di trasporto), in ragione dell’assenza di qualsivoglia ragionevole giustificazione per il significativo incremento sanzionatorio dalle stesse imposto rispetto alla fattispecie base di cui al comma primo (C. Cost. n. 63/2022)[2].

 

4. Tra i soggetti che maggiormente subiscono le conseguenze delle descritte sperequazioni incriminatrici e sanzionatorie vi sono senza dubbio i “migranti-scafisti”, cioè coloro che, per necessità o costrizione, si pongono al timone dei barconi o svolgono altre funzioni di “ausilio” a bordo; nonché i migranti che, come Maysoon Majidi, vengono semplicemente raggiunti dal sospetto di avere realizzato siffatte condotte[3]. Per le ragioni poc’anzi illustrate, infatti, l’art. 12 t.u. imm. è del tutto indifferente al carattere fungibile e obiettivamente marginale delle loro condotte (carattere, al più, suscettibile di riflettersi nell’applicabilità dell’attenuante ex art. 114 c.p., peraltro pressoché ignorata dalla giurisprudenza relativa a questi casi), alle quali ciecamente imprime identico nomen iuris. Il contributo causale offerto dal migrante-scafista, o sospetto tale, all’ingresso irregolare di altri migranti, viene dunque parificato, nell’an della responsabilità e nel quantum della sanzione, al contributo realizzato, a monte, dagli individui senza scrupoli che, inserendosi a vario titolo nel mercato nero della mobilità, sfruttano a proprio vantaggio le vulnerabilità degli stranieri irregolari, calpestandone direttamente o indirettamente i diritti fondamentali. Con una differenza, tutt’altro che marginale: per le modalità attraverso le quali si dipana l’iter criminis, messe a punto dai trafficanti proprio allo scopo di ridurre i rischi di contatto con le autorità di frontiera italiane, solo i migranti vengono identificati e sottoposti a procedimento penale. A chiudere il cerchio interviene, infine, il neologismo “scafista”, che correda la copertura di ordine giuridico, offerta come visto dall’art. 12 t.u. imm., con un tranquillizzante espediente terminologico: un’etichetta vagamente carica di disvalore, utilizzata per offrire una parvenza di giustificazione alla risposta punitiva nei confronti di coloro che, spesso, altro non sono che migranti tra i migranti.

 

5. La sentenza in esame, pur necessariamente basandosi sul vigente, e per le ragioni illustrate assai problematico, quadro normativo, si lascia apprezzare nella misura in cui si sforza, riuscendoci, di correggere quanto meno quelle storture che nel corso degli anni si sono registrate in fase di identificazione dei sospetti scafisti nell’immediatezza dello sbarco. Storture consistenti, come è già stato evidenziato da accurati reports[4], nell’adozione di criteri selettivi sommari e approssimativi, basati su opinabili massime di esperienza o sul frettoloso affidamento riposto in dichiarazioni sommarie rilasciate da altri passeggeri delle stesse imbarcazioni. L’auspicio è che, in futuro, il medesimo grado di ossequio alla presunzione di non colpevolezza e alle garanzie processuali siano praticati dagli altri Tribunali, e prima ancora dalle Procure della Repubblica, che saranno chiamati a indagare e decidere casi di presunti “scafisti”.

Ciò evidentemente non cancellerà il problema normativo a monte, che, come visto e come più diffusamente illustrato in altra sede, riguarda l’intrinseca sproporzione e irragionevolezza non solo della norma incriminatrice di cui all’art. 12 t.u. imm., ma anche delle sue matrici europee, rappresentate dagli obblighi di criminalizzazione dettati dal combinato disposto della direttiva 2002/90/CE e della decisione quadro 2002/946/GAI, spesso congiuntamente richiamate come Facilitators package[5]. Su quest’ultimo aspetto, stante l’inerzia del legislatore italiano e di quello europeo, sordi agli appelli delle più autorevoli organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani[6], gli occhi sono puntati a Lussemburgo, dove la Corte di Giustizia dell’Unione europea sarà a breve chiamata a decidere il caso Kinsa, relativo alla compatibilità tra la criminalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (così come delineato dal Facilitators package e dalle norme italiane che lo implementano) e il principio di proporzionalità sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE[7].

 

6. Se la sentenza qui annotata diverrà definitiva, quella di Maysoon Majidi sarà stata una triste storia a lieto fine. Tale considerazione, tuttavia, non deve far dimenticare il carico di ingiusta e inutile sofferenza che ha accompagnato questa vicenda e accompagna numerosi altri migranti-scafisti in condizioni analoghe. Soprattutto, non deve far dimenticare che le premesse normative di questi procedimenti sono ancora in vigore e dunque, salvo quanto da ultimo accennato rispetto alle prospettive offerte dall’ormai prossimo intervento della Corte di giustizia, dovremo purtroppo in futuro attenderci numerosi nuovi “casi Maysoon Majidi”.

Eppure basterebbe poco ai legislatori, europeo e nazionali, per restringere l’ambito di applicazione delle norme che criminalizzano il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, limitandolo, in particolare, alle condotte che comportano un ingiusto sfruttamento dei migranti[8]. Un intervento di questo tipo, oltre a riportare le fattispecie incriminatrici e le relative pene nei binari della proporzionalità, prevenendo al contempo il rischio di criminalizzare atti di solidarietà e soccorso, consentirebbe di concentrare le risorse investigative e processuali – anziché sulla caccia ai migranti-scafisti – sulla lotta al traffico di migranti e di esseri umani, migliorando così le prestazioni del sistema giudiziario proprio con riferimento alle categorie di condotte che i medesimi legislatori affermano di volere contrastare con maggior vigore.

 

 

[3] Per un interessante studio di taglio empirico sul tema dei migrant-scafisti, v. F. Patanè, M.P. Bolhuis, J. Van Wijk, H. Kreiensiek, Asylum-Seekers Prosecuted for Human Smuggling: A Case Study of Scafisti in Italy, in Refugee Survey Quarterly, 2020, p. 123 ss.

[4] Cfr., da ultimo, Arci Porco Rosso, La criminalizzazione dei cosiddetti scafisti nel 2024, 13.2.2025.

[5] Per la disamina di queste fonti e per l’analisi dei possibili profili di illegittimità, sia consentito rinviare, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a S. Zirulia, Il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tra overcriminalisation e tutela dei diritti fondamentali, Giappichelli, 2023 (disponibile open access in Discrimen).

[7] Causa C-460/23. Per l’ordinanza di rimessione v. Trib. Bologna, ord. 17/3/2023, in questa Rivista, 31.7.2023. Le conclusioni dell’Avvocato generale Richard de la Tour sono state depositate il 7.11.2024. Per un commento, v. L. Grossio, Lo scrutinio di proporzionalità delle scelte di criminalizzazione sovranazionali: due interrogativi lasciati aperti dalle conclusioni dell’AG Richard de la Tour nella causa Kinsa, in Quaderni AISDUE, 2025, n. 1, p. 1 ss. La pronuncia è attesa nell’estate 2025.

[8] Per questa proposta sia consentito nuovamente rinviare a S. Zirulia, Il favoreggiamento, cit., p. 401 ss.