ISSN 2704-8098
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  Recensione  
08 Novembre 2024


L’abuso dell’immagine intima nella Direttiva (UE) 2024/1385

Riflessioni a margine di G. Caletti, K. Summerer, Criminalizing Intimate Image Abuse. A Comparative Perspective, Oxford University Press, 2024.



1. Premessa: la nuova Direttiva (UE) 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica. Il 14 maggio 2024 viene approvata la nuova Direttiva (UE) 2024/1385 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, volta a rafforzare e armonizzare il contrasto e la prevenzione della violenza di genere nelle legislazioni interne degli stati membri, perseguendo quegli obiettivi comuni già evidenziati dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011. La violenza di genere assurge a fenomeno transnazionale, come il terrorismo e la tratta di esseri umani, e in quanto tale necessita di essere combattuta su basi comuni.

Senza soffermarci sulla discussione emersa in sede di lavori preparatori in merito all’inclusione, suggerita nella proposta di Direttiva, del reato di stupro tra i cd. “eurocrimini”, e alla polemica mediatica conseguente alla decisione, a seguito dell’opposizione di alcuni paesi, di espungerlo dalla versione definitiva della normativa, focalizzeremo qui l’attenzione sul contrasto alla violenza online, su cui si concentra gran parte della nuova Direttiva, e in particolare sull’incriminazione della condivisione non consensuale di materiale intimo o manipolato.

La ratio sottostante la decisione di prediligere, quale ambito di intervento, la violenza connessa all’uso delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), è chiaramente enunciata nel considerando n. 17, ove si dichiara che questi strumenti sono capaci di “amplificare in modo significativo la gravità dell’impatto dannoso del reato”. Quattro dei sei reati contemplati sono infatti caratterizzati da una modalità online dell’azione: condivisione non consensuale di materiale intimo o manipolato (art. 5), stalking online (art. 6), molestie online (art. 7), istigazione alla violenza o all’odio online (art. 8).

La focalizzazione su reati di genere perpetrati attraverso i moderni strumenti informatici di comunicazione deriva dalla riscontrata pericolosità di queste tecnologie, quali possibili “armi” capaci di rendere più agevole e rapida la commissione delle varie condotte ed amplificare l’offesa arrecata. Se alcuni dei reati contemplati possono essere commessi con i metodi tradizionali, altri vengono realizzati principalmente, se non esclusivamente, attraverso tali dispositivi. Ora, fra queste nuove “criminalità” vi è sicuramente la diffusione non consentita di immagini intime, che trova il suo scenario privilegiato sullo schermo di un cellulare, di un tablet, di un computer. Gli strumenti informatici non solo agevolano la divulgazione di queste immagini ma anche la sola creazione e manipolazione.

Nella redazione dell’art. 5 (“condivisione non consensuale di materiale intimo o manipolato”), il legislatore europeo ha tenuto in considerazione tutti questi aspetti affiancando, innanzitutto, nell’ambito dell’oggetto materiale del reato, alle “immagini” e ai “video”, la locuzione ampia e indeterminata di “analogo materiale”, in modo da coprire tutte le tipologie di supporto che riproducono la rappresentazione. Sono presumibilmente esclusi i materiali esclusivamente audio, come registrazioni delle voci di persone impegnate in atti sessuali: non solo la norma parla di “materiale ritraente”, ma il considerando n. 19 specifica che il “reato definito nella presente direttiva dovrebbe riguardare tutti i tipi di tale materiale, ad esempio immagini, fotografie e video, comprese le immagini sessualizzate e i clip video e audio”, vincolando presumibilmente il materiale audio a quello video attraverso la congiunzione “e”.

Il materiale deve ritrarre “atti sessualmente espliciti o le parti intime di una persona senza il consenso di tale persona”: anche questa locuzione porta ad estendere l’ambito di applicazione del reato alla diffusione di immagini che ritraggono parti intime (come organi genitali e seno), questione su cui si registrano, almeno a livello nazionale, posizioni differenti sia in dottrina che in giurisprudenza. D’altra parte, però, la norma sembra circoscrivere il perimetro dell’incriminazione richiedendo che tali condotte “possano arrecare un grave danno” alla persona offesa.

Sempre nella prospettiva di un contrasto ad ampio raggio, nel considerando n. 19 si precisa che: “Tale reato dovrebbe comprendere anche la produzione, la manipolazione o l'alterazione non consensuale (ad esempio l'editing di immagini), anche mediante l'uso dell'intelligenza artificiale, di materiale in modo da far credere che una persona partecipa ad atti sessuali, purché detto materiale sia successivamente reso accessibile al pubblico tramite TIC, senza il consenso dell'interessato. Nel concetto di produzione, manipolazione o alterazione dovrebbe rientrare anche la fabbricazione di video fasulli ma realistici («deepfake») con persone, oggetti, luoghi o altre entità o eventi molto simili a quelli realmente esistenti, che ritraggono una persona mentre compie atti sessuali, risultando falsamente autentici o veritieri agli occhi altrui”. Materiale, quest’ultimo, che è esplicitamente tipizzato nell’art. 5, laddove fa riferimento alla produzione, manipolazione o alterazione (e successiva diffusione) tramite TIC, di immagini, video o analogo materiale “in modo da far credere che una persona partecipi ad atti sessualmente espliciti”, senza il consenso della persona interessata, qualora tali condotte possano arrecare un danno grave a tale persona.

In una prospettiva di anticipazione della tutela, si incrimina anche la minaccia di diffondere tali immagini “al fine di costringere una persona a compiere un determinato atto, acconsentirvi o astenersi dallo stesso”.

L’ultimo comma richiama il bilanciamento con i diritti alla libertà di espressione, di informazione, delle arti e delle scienze, sollecitando gli stati a prevedere una esenzione da responsabilità nei casi in cui l’incriminazione confligga con tali diritti fondamentali. A tale riguardo, nel Considerando n. 20 si aggiunge che la non punibilità dovrebbe concernere anche “il trattamento del materiale da parte delle autorità pubbliche, in particolare al fine di condurre procedimenti penali o di prevenire reati, individuarli e indagare su di essi, e gli Stati membri dovrebbero poter esentare una persona dalla responsabilità in determinate circostanze, come nel caso ad esempio di linee di assistenza telefonica o su internet che trattano materiale per segnalare un reato alle autorità”.

Per combattere queste forme di violenza su basi comuni, tuttavia, il ricorso al diritto penale non è sufficiente, anche perché esse trovano le proprie radici in stereotipi di genere, pregiudizi, espressioni “culturali” di discriminazione che travalicano i confini nazionali e che non possono che essere affrontate partendo dall’educazione delle nuove generazioni. E nella Direttiva la valorizzazione dell’aspetto preventivo è evidente, laddove si chiede agli stati di implementare campagne di sensibilizzazione per contrastare la violenza contro le donne e la violenza domestica, potenziando nelle scuole l'educazione alla sessualità, alle competenze socio-emotive e all'empatia e promuovendo lo sviluppo di relazioni sane e rispettose.

Infine, una parte importante della Direttiva è riservata all’assistenza alle vittime, alla predisposizione di misure efficaci ed efficienti di protezione, che spesso costituiscono il vero vulnus del sistema-giustizia chiamato a tutelare le donne che denunciano, che chiedono aiuto. Anche qui fondamentale diventa, inter alia, la semplificazione e sicurezza delle modalità di segnalazione e denuncia, la formazione e specializzazione del personale di polizia, giudiziario, psicologico, ecc., che opera in questi contesti. Non è secondaria, sempre nella prospettiva della tutela delle vittime, la predisposizione di misure efficaci e tempestive di rimozione del materiale online e di disabilitazione dell’accesso al medesimo.

 

2. Un confronto fra sistemi, saperi, studi e indagini nel recente volume Criminalizing Intimate Image Abuse. A Comparative Perspective, a cura di G.M. Caletti e K. Summerer. Il sistema di intervento indicato nella Direttiva è dunque “globale”, dal momento che include sì il ricorso al diritto penale, ma anche a sistemi articolati di prevenzione e educazione, all’uso di competenze multidisciplinari nell’aiuto delle vittime, nonché ad investimenti sulla specializzazione di tutti i settori operativi (giuridico, educativo, sociale, medico, tecnologico, ecc.).

Questo metodo è sostenuto molto chiaramente nei pregevoli contributi contenuti nel recente volume collettaneo pubblicato a cura di Gian Marco Caletti e Kolis Summerer sul tema della criminalizzazione della diffusione dell’immagine intima, affrontato in prospettiva comparatistica. Il libro nasce da un symposium organizzato presso la Libera Università di Bolzano nel 2022, quale esito conclusivo di un progetto di ricerca (“Creep”. “Trust me, it’s only for me. Criminalizing “Revenge Porn”?) che ha visto impegnati, fra gli altri, anche i curatori del volume.

Nella cornice del convegno di Bolzano si sono confrontati i massimi esperti internazionali del tema, provenienti sia dal contesto anglo-americano che europeo, ma anche dall’America Latina e dall’Asia, rappresentanti più di dieci diversi ordinamenti, che hanno dato vita ad un eccellente dibattito, efficace e interessantissimo, successivamente trasfuso in questo prezioso volume.

Il testo è strutturato in sette sezioni di cui indicheremo i tratti generali per dare spunti al futuro lettore, senza, ovviamente, alcuna ambizione di completezza. I saggi sono preceduti da una introduzione dei due curatori, che permette al lettore non solo di orientarsi nel percorso proposto dal susseguirsi dei contributi, ma anche di mettere sin da subito a fuoco le problematiche affrontate nel libro e la sua metodologia, nonché talune “sottotrame” che attraversano l’intera curatela.

La prima sezione offre un quadro teorico e introduttivo della criminalizzazione dell’“abuso dell’immagine intima”, locuzione “neutra”, scelta dai curatori, che volutamente non comprende il riferimento all’elemento della “sessualità” o al fine “vendicativo” previsti nelle norme di alcuni ordinamenti, e ciò per dare ampio spazio all’analisi comparatistica senza prendere posizione, ab initio, sulle criticità o meno delle diverse opzioni incriminatrici adottate.

Danielle Keats Citron concettualizza tale abuso come una violazione della “Intimate Privacy”, nozione che attiene ai confini fisici e digitali della vita intima, del diritto a non subire intromissioni esterne sul nostro corpo, sulla nostra salute, sul nostro orientamento sessuale, sul nostro genere e sulle nostre attività sessuali, ecc. (e ciò riguarda sia la vita reale che virtuale). Jane Bailey e Suzie Dunn focalizzano l’indagine sul ruolo delle tecnologie digitali, includendo l’abuso dell’immagine intima nella più ampia categoria della “violenza di genere agevolata dalla tecnologia” e, al contempo, decostruendo i miti e gli stereotipi che nel tempo hanno dato vita ad una sorta di “dualismo digitale”, in conseguenza del quale sarebbe reale, e dunque effettivamente offensivo, solo ciò che avviene offline. Maria Elósegui, giudice Cedu, nel quadro di una più ampia panoramica sui documenti sovranazionali che si occupano di violenza digitale, analizza attentamente la giurisprudenza della Corte edu, evidenziando come quest’ultima qualifichi l’abuso dell’immagine intima come una forma di violenza di genere, rilevando peraltro le criticità connesse alla sottovalutazione della gravità di questi comportamenti da parte delle forze di polizia e l’inesperienza da parte di queste ultime nel dominare le nuove tecnologie. Infine, Aya Gruber si interroga sui limiti della criminalizzazione di un fenomeno in cui il “moral panic” che si viene a creare rende ardua una risposta sociale e giuridica che possa dirsi oggettiva ed equilibrata, ed esorta a riflettere sull’adozione di approcci alternativi alla punizione, seguendo una linea in controtendenza rispetto al modello americano che sembra, al contrario, guardare al diritto penale come strumento principe per affrontare i problemi sociali. L’inserimento da parte dei curatori di questo contributo, in evidente contrapposizione ad altri saggi della collection, arricchisce di nuove prospettive il volume, che in alcune parti si trasforma in una più generale riflessione sulla criminalizzazione di nuovi fenomeni e sul ruolo (e i limiti) del diritto penale.

La seconda sezione contiene tre saggi che osservano il fenomeno sotto diverse lenti prospettiche. Anja Schmidt guarda al passato e alla progressiva regolamentazione della sessualità e della pornografia nelle società occidentali negli ultimi sessant’anni, ponendo particolare attenzione alla dottrina e alla normativa tedesche. L’Autrice evidenzia il passaggio da una tutela della moralità sessuale ad una valorizzazione della autonomia sessuale, concetto che viene ridefinito per affrontare le sfide poste dalla digitalizzazione. Se da un lato occorre garantire il diritto di produrre e utilizzare contenuti sessuali, in quanto espressione dell’autodeterminazione del singolo, dall’altro è necessario prevenire gli impatti negativi sull’uso della pornografia da parte dei minori e tutelare la privacy sessuale posta in pericolo dall’abuso di immagini intime, e ciò attraverso il ricorso a sanzioni penali, a misure civili e alla regolamentazione delle piattaforme digitali.

Thomas Croft, dopo un’acuta riflessione sulla necessità di una risposta penale alle condotte in questione, rileva come gli ordinamenti che hanno introdotto un nuovo reato per colpire le condotte di abuso dell’immagine intima stiano oggi rivalutando le proprie scelte di tipizzazione, anche in considerazione della costante evoluzione del fenomeno in linea con lo sviluppo della tecnologia. Gli elementi prevalentemente oggetto di dibattito riguardano la definizione di immagine intima, le condotte punibili (non limitate alla diffusione, ma anche alla realizzazione, la creazione, la minaccia di divulgazione), l’elemento soggettivo del reato (l’uso o meno del fine vendicativo o di danno) e la predisposizione di defences. L’autore, esaminando alcune recenti normative, nonché le raccomandazioni della Law Commission for England and Wales nel suo rapporto del 2022 (poi recepite dal legislatore inglese nell’Online Safety Act dell’ottobre 2023), si sofferma su questi punti critici e propone interessanti soluzioni, che mirano a un uso del diritto penale ragionevole e proporzionato.

Il contributo di Margareth Helfer e Domenico Rosani parte da una critica più ampia al progressivo allontanamento della politica criminale dall’àncora dell’harm principle, anche a causa delle spinte panpenalistiche portate avanti dal diritto internazionale e dal diritto dell’unione europea, portando ad esempio il tanto discusso reato di pornografia virtuale. Si soffermano poi sul problematico rapporto fra paternalismo e autodeterminazione nel caso delle immagini pedo-pornografiche autoprodotte dal minore rappresentato, approfondendo, in particolare, i recenti arresti della giurisprudenza italiana.

Interamente dedicate a un confronto fra la disciplina dell’abuso dell’immagine intima nei paesi anglo-americani, europei, ed extra-europei, seppure sotto angolazioni differenti, sono la terza, quarta e sesta sezione. Mary Anne Franks illustra l’evoluzione della criminalizzazione della cd. “pornografia non consensuale” negli Stati Uniti, che se da un lato registra una copertura territoriale quasi totale (in circa un decennio si è passati da tre Stati che prevedevano l’incriminazione di questo comportamento a quarantotto Stati che si sono allineati), dall’altro presenta alcune generalizzate criticità, fra cui la scelta di porre l’accento sul fine di nocumento che deve connotare il dolo dell’agente, piuttosto che sull’elemento del consenso o dissenso della vittima. Il capitolo di Manuel Cancio Meliá si sposta sulla disciplina prevista in tre paesi europei, ossia Germania, Spagna e Italia, nonché sulla recente proposta di Direttiva (oggi Direttiva (UE) 2024/1385). Dall’indagine emerge che non vi è un approccio “continentale” che possa dirsi uniforme come fino a qualche anno, anzi i singoli ordinamenti differiscono significativamente anche in ordine a scelte sistematiche, come la collocazione del reato all’interno dei delitti contro la privacy o nell’ambito dei delitti contro l’autodeterminazione della persona, nonché la natura delle immagini tutelate, ossia a contenuto “sessuale” o più genericamente “intime”. María Camila Correa Flórez offre una panoramica sulla criminalizzazione in America Latina, dove, in seguito alla Convenzione di Belem Do Para sui diritti delle donne, alcuni Paesi hanno introdotto un reato ad hoc a tutela dell’immagine intima. A questi si affiancano sistemi in cui non vi è una autonoma disciplina della diffusione di tale categoria di immagini e altri in cui questa fattispecie trova una risposta penale nell’ambito dei reati contro la privacy. Molto interessante il metodo di indagine proposto nel contributo di Yoshifumi Okada che si occupa della disciplina della “revenge pornography” in Giappone ma anche dell’applicazione giurisprudenziale della nuova incriminazione, arricchita da indagini statistiche effettuate dal National Police Agency in relazione a vari elementi, quali il genere dell’autore e della vittima, l’età dei soggetti coinvolti (eventualmente minorenni), il rapporto che lega l’autore e la vittima.

La sesta sezione offre un approfondimento sulla disciplina in Australia e in Canada, con un particolare focus sulla vittima. Nel saggio della criminologa australiana Nicola Henry, ad un sintetico inquadramento legislativo, che mostra come la quasi totalità degli stati e territori australiani abbia introdotto una normativa ad hoc per rispondere al fenomeno, si affianca un approfondito studio empirico basato su interviste di tipo qualitativo rivolte a vittime adulte, dalle quali emerge, fra le altre cose, l’esigenza di maggiore riconoscimento del danno subito, nonché l’importanza del supporto del sistema-giustizia e della comunità. Molto approfondita è poi l’indagine casistica contenuta nel contributo di Moira Aikenhead, che si concentra specificatamente su alcuni casi canadesi di abuso dell’immagine (non solo) intima da parte del partner, delineando diversi paradigmi ricorrenti di violenza domestica basati appunto sull’immagine. Fra le lacune normative si rileva, in particolare, l’assenza, anche nella normativa canadese, della specifica incriminazione della “minaccia di diffusione dell’immagine”, condotta punita, qualora ne sussistano gli estremi, solo attraverso il reato di estorsione. Ricordiamo, a tal proposito, come la recente Direttiva europea preveda per questa condotta una specifica incriminazione.

La quinta sezione offre un focus sul tema del consenso della vittima che è centrale non solo nell’ambito degli atti sessuali “reali” ma anche nella dimensione digitale della manifestazione della sessualità. Come chiarisce efficacemente Thomas Weigend, il modello che richiede una esplicita manifestazione di consenso per il compimento di atti sessuali leciti, recentemente identificato con l’espressione “yes means yes”, criticato da una parte della dottrina in relazione al reato di violenza sessuale, presenta argomenti indiscutibilmente fondati nell’ambito della diffusione di immagini sessuali, condotta che, per essere lecita, dovrebbe essere subordinata ad una espressa manifestazione di consenso da parte della persona rappresentata. Non si possono trascurare, tuttavia, due aspetti strettamente connessi all’accertamento di questo consenso, come bene evidenzia Michael Vitiello. Da un lato esso tende a riproporre, in sede di indagine, i medesimi rischi di vittimizzazione secondaria che si ritrovano nei processi per violenza sessuale. Dall’altro, punire chi diffonde queste immagini in assenza di un esplicito consenso della vittima, implica, se non si vuole prescindere dall’adesione ai principi fondamentali che reggono la materia penale, che venga accertata la colpevolezza dell’autore, in particolare sotto il profilo della consapevolezza dell’assenza di consenso della vittima: in difetto di tale consapevolezza, l’agente non dovrebbe essere punito. Il contributo di Vitiello, che dimostra – con una certa provocatorietà ma, al contempo, grande realismo – come l’accertamento di taluni elementi del reato non possa prescindere da ineliminabili forme di “victim blaming”, funge da ponte con la sezione finale della raccolta.

La settima sezione, infatti, contrassegnata da un forte carattere multidisciplinare, contiene tre contributi che offrono una prospettiva di indagine che va oltre il diritto penale, osservando strategie di intervento ad esso alternative o complementari. Clare McGlynn rileva quanto sia importante, nella prospettiva delle stesse vittime, sviluppare delle misure che si affiancano alla giustizia tradizionale, come la giustizia riparativa e trasformativa, soprattutto per la loro capacità di rieducare l’autore, di aiutare a comprendere e riconoscere il danno subito dalla vittima e conseguentemente ripararlo. Il contributo si caratterizza per un notevole impianto teorico, ma anche per una spiccata attenzione agli aspetti pratici e criminologici.

Johanna Rinceanu, nel suo articolato contributo, si sofferma sull’aspetto fondamentale della collaborazione delle piattaforme digitali nella rimozione delle immagini che vengono messe in circolazione, uno dei primi obiettivi a cui mirano le vittime. La questione è tuttavia molto complessa perché richiede un bilanciamento con la tutela della libertà di espressione e informazione, che di recente il legislatore europeo ha provato a sciogliere nel regolamento Digital Services Act, del quale l’Autrice offre alcune note di primo commento. 

Asher Flynn (criminologa), Elena Cama (ricercatrice in scienze sociali, criminologia e psicologia) e Adrian Scott (psicologo forense) riflettono sul ruolo che rivestono o potrebbero rivestire gli spettatori (bystander) di questa tipologia di abuso, e ciò attraverso una ricerca empirica condotta in Australia, dalla quale emerge la necessità di far acquisire alla società maggiore consapevolezza sulle conseguenze e sui danni che possono derivare da queste condotte per mezzo di programmi di informazione ed educazione; proprio in questo contesto si valorizza il contributo di coloro che assistono a questi comportamenti sia in una prospettiva di prevenzione che di aiuto e sostegno alle vittime.

 

3. La complessità del fenomeno e la necessità di una rivisitazione della disciplina vigente. Leggendo questo ricchissimo e prezioso volume non possiamo non rilevare l’inadeguatezza sotto molteplici profili della nostra legislazione e di come, ad esempio, il nostro art. 612-ter c.p., introdotto solo cinque anni fa, risulti già “vecchio”, non attuale rispetto all’evoluzione del fenomeno, alle plurime modalità di offesa all’autodeterminazione sessuale che si manifesta in immagine. Fenomeno che peraltro si intreccia e si sovrappone sempre più con le condotte di violenza sessuale perpetrate attraverso gli strumenti digitali.

Come emerge chiaramente in diversi contributi contenuti nel libro, “l’abuso sessuale basato sull’immagine” comprende plurime condotte: non solo la distribuzione non consensuale di immagini intime, ma anche diverse forme di voyeurismo; le aggressioni sessuali in diretta streaming; le immagini (spesso focalizzate sui glutei, sulle gambe, sulla scollatura) scattate a donne ignare in luoghi pubblici e diffuse senza il loro consenso; immagini o video realizzati attraverso telecamere nascoste nelle stanze degli hotel, bagni pubblici, nelle camere da letto; rappresentazioni, tecnologicamente modificate, di una persona in modo da far apparire che sia impegnata di atti sessuali; eccetera.

La fantasia sessuale digitale si spinge anche oltre l’immagine della persona, fino ad arrivare allo stupro perpetrato sull’avatar nel mondo del Metaverso. Jane Bailey e Suzie Dunn riferiscono, per esempio, che l’analisi di SumOfUs del 2022 avrebbe registrato la presenza su alcune piattaforme di realtà virtuale di casi di “palpeggiamenti virtuali e stupri di gruppo, nonché commenti sessuali, omofobi e razzisti”. Luoghi virtuali in cui, peraltro, si riprodurrebbero le medesime logiche sessiste di colpevolizzazione e vittimizzazione secondaria presenti nelle vicende di violenza sessuale reale, come testimonierebbe la risposta fornita a una giocatrice che aveva lamentato che il suo “avatar era stato palpeggiato da un estraneo”, ribaltando su di lei la responsabilità di non aver utilizzato le “adeguate funzioni di sicurezza personale” per evitare tali aggressioni.

È quest’ultimo evidentemente un esempio estremo, peraltro solo accennato in alcuni contributi, anche se non tanto lontano dalla realtà dei fatti dal momento che è di qualche mese fa la notizia che in Inghilterra la polizia si stia occupando proprio di un caso di aggressione sessuale di gruppo sull’avatar di una minorenne avvenuto in un contesto di realtà virtuale.

Questo caso vuole più in generale portarci ad interrogarci su quale sia il limite oltre il quale non può spingersi l’incriminazione, senza rischiare di perdere i punti di riferimento dello ius criminale, di discostarsi da principi fondamentali, come quelli di frammentarietà e offensività.

È indubbio che nell’attuale contesto socio-culturale, la persona utilizzi la propria immagine come strumento di presentazione di sé per relazionarsi con gli altri e che alla sua corporeità fisica si affianchi una corporeità virtuale, che si esprime anche attraverso l’icona sessuale, o più in generale, intima. Quest’ultima ritrae il soggetto in uno dei momenti più privati della vita dell’essere umano e, se viene realizzata o diffusa senza il suo consenso, quell’intimità viene defraudata, sopraffatta. È proprio la natura “intima” o “sessuale” dell’immagine che porta, da un lato, a richiedere un intervento diverso e rafforzato rispetto alla protezione di altre categorie di rappresentazioni e, dall’altro, ad affiancare questa forma di prevaricazione “virtuale” sulla persona alla violenza reale. Non si tratta necessariamente di un’offesa “minore”, solo perché commessa online ma, come sottolinea la Corte europea dei diritti dell’uomo, la cyberviolence è un’altra faccia della violenza offline.

Oggi più che mai, con l’introduzione della nuova Direttiva, i legislatori sono chiamati a rivalutare le norme vigenti, selezionando, all’interno di un fenomeno così ampio ed eterogeneo, le fattispecie che richiedono l’intervento del diritto penale. Sarebbe fondamentale, in questa fase, fare tesoro delle ricerche criminologiche e statistiche, ma anche dell’esperienza normativa di altri ordinamenti e dei limiti di alcune scelte di tipizzazione, tutti aspetti posti abilmente in luce nei vari contributi di questo volume. Un’operazione multidisciplinare chiamata ad offrire una risposta equilibrata e ad ampio spettro non potrà, inoltre, non contemplare efficaci strategie di educazione, prevenzione, nonché misure di intervento complementari o alternative al diritto penale. Ecco allora che il prezioso volume curato da G.M. Caletti e K. Summerer, come afferma autorevolmente anche Stephen Schulhofer in una delle due prefazioni al testo, si colloca nel giusto momento storico e, colmando un vuoto nella letteratura giuridica nazionale e comparata, può certamente costituire un eccellente strumento di ausilio per i legislatori dei diversi ordinamenti, che potranno trarre dalla completa analisi dei plurimi modelli attualmente adottati, dagli acuti approfondimenti teorici e pratici, nella loro varietà di accenti e impostazioni, fondamentali spunti di riflessione per affrontare con maggiore competenza e visione d’insieme, le lacune, criticità e incertezze interpretative che presentano le attuali normative. Da questo punto di vista, dunque, anche per l’autorevolezza degli studiosi coinvolti, Criminalizing Intimate Image Abuse si candida ad essere una vera e propria pietra miliare nella letteratura sui temi oggetto dell’indagine.