Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Davide Sibilio (artt. 2, 3, 10 Cedu e 1 Prot. Add. Cedu) e Roberta Casiraghi (artt. 5 e 6 Cedu).
Nel mese di marzo abbiamo selezionato pronunce relative a: diritto alla vita e rischi da circolazione stradale (art. 2); tutela della vita e della salute psichica in carcere (artt. 2 e 3); garanzie procedurali applicabili alla detenzione provvisoria disposta a seguito di arresto in flagranza (art. 5); equità processuale, con riferimento ai limiti alla ricorribilità in cassazione avverso provvedimenti di condanna a sanzioni pecuniarie, nonché al diritto al confronto dibattimentale con testimoni determinanti (art. 6); esercizio della libertà di espressione e diritto di proprietà di un sito web (artt. 10 e 1 Prot. Add.).
Art. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 24 marzo 2020, Marius Alexandru e Marinela Stefan c. Romania
Diritto alla vita – incidente automobilistico dovuto alla caduta di un albero – non violazione (profilo sostanziale) – insufficienti indagini per individuare i responsabili – violazione (profilo procedurale)
I ricorrenti, cittadini romeni, lamentano la violazione da parte delle autorità statali dell’obbligazione positiva di proteggere la loro vita e la vita di alcuni loro congiunti a causa di un incidente stradale, avvenuto nel 2007, in cui sono rimasti coinvolti: mentre procedevano in auto lungo una strada, un albero sradicato si è abbattuto sulla loro vettura, provocando molteplici ferite ai ricorrenti e uccidendo i genitori e il fratello minore della ricorrente (§§ 6-7). I ricorrenti lamentano inoltre la mancanza di un’indagine effettiva per identificare e punire gli eventuali responsabili dell’incidente. La Corte di Strasburgo anzitutto nega la sussistenza di una violazione dell’art. 2 CEDU sotto il profilo sostanziale, rilevando che, a differenza di quanto asserito dai ricorrenti, non è assente un quadro normativo in materia di sicurezza sulle pubbliche vie, sotto lo specifico profilo della prevenzione di incidenti provocati dalla caduta di alberi sulla strada (§ 104); le scelte in materia compiute dalla Romania sono ritenute legittime dai giudici di Strasburgo, a parere dei quali non possono essere messe in discussione le misure adottate dalle autorità interne, in ragione del margine di apprezzamento che spetta agli Stati: appartiene infatti alle autorità nazionali il compito di determinare le misure appropriate e le ispezioni agli alberi posti al bordo delle strade, necessarie per garantire la sicurezza delle persone sulle pubbliche vie (§ 105). Pertanto, a parere della Corte, lo Stato ha adempiuto all’obbligo di proteggere la vita dei ricorrenti su di esso incombente (§ 108). La Corte EDU d’altro lato riconosce la violazione dell’art. 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale, poiché le autorità romene non hanno condotto un’indagine effettiva sull’incidente occorso ai ricorrenti: in seguito all’indagine penale che si è aperta e nonostante ben due riaperture del caso (§§ 34 e 53), non sono state infatti stabilite le cause dello sradicamento dell’albero all’origine dell’incidente mortale e non è stata individuata l’eventuale presenza di una negligenza da parte delle autorità (§ 95). Nello specifico, durante il processo non sono state sequestrate né conservate le prove essenziali, impedendo così di stabilire le cause che hanno provocato lo sradicamento dell’albero (§§ 88-89) e il processo stesso è durato per un tempo irragionevole (ben otto anni e sei mesi), per cause imputabili alle autorità (§ 93). In ragione di ciò, i giudici di Strasburgo sono pervenuti alla condanna dello Stato. (Davide Sibilio)
C. eur. dir. uomo, sez. I, 19 marzo 2020, Fabris e Parziale c. Italia
Diritto alla vita – suicidio in carcere di detenuto tossicodipendente – rapido intervento delle autorità – assenza di rischio immediato – inchiesta tempestiva ed effettiva – conclusioni erronee della prima autopsia – intervenuta prescrizione – non violazione (profilo sostanziale e procedurale)
I ricorrenti, cittadini italiani, zio e cugina di un detenuto tossicodipendente che si è tolto la vita mentre si trovava in carcere, lamentano la violazione dell’art. 2 CEDU, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto quello procedurale: per quanto riguarda il primo profilo, le autorità italiane avrebbero violato l’obbligo di proteggere la vita del detenuto, dato che il decesso, avvenuto durante la custodia in carcere, poteva essere evitato, tramite più efficaci misure; sotto il profilo procedurale, non sarebbero state svolte indagini effettive su quanto accaduto. Nello specifico, la vittima, dipendente da alcol e stupefacenti, nonché affetto da disturbi mentali, nel maggio 2005, mentre si trovava in custodia nel carcere di Venezia, veniva ritrovato morto in cella (§ 10): dagli accertamenti risultava che il detenuto si era volontariamente tolto la vita inalando il gas contenuto nelle bombole utilizzate per cucinare, normalmente a disposizione dei detenuti. In seguito alle prime indagini sull’accaduto, tuttavia non si giungeva a conclusioni univoche circa la causa della morte (tanto che veniva ipotizzato anche uno shock elettrico, forse provocato da una pistola elettrica stordente - § 13), per questo motivo gli inquirenti decidevano di procedere contro ignoti per morte come conseguenza di un altro delitto (§ 14); una successiva perizia confermava però che la morte era stata causata dalla volontaria inalazione di gas (§ 19). Nel 2009, la richiesta di archiviazione della Procura veniva respinta dal giudice per le indagini preliminari, pertanto il procuratore procedeva nei confronti di alcuni funzionari del carcere (tra cui il direttore e i medici) per omicidio colposo (§§ 21-24); tuttavia nel 2012 la Procura richiedeva nuovamente l’archiviazione, nonostante l’opposizione dei ricorrenti: infine il giudice per le indagini preliminari archiviava definitivamente il caso per prescrizione (§§ 27-29). Per quanto riguarda l’asserita violazione dell’obbligazione positiva di proteggere la vita del detenuto, la Corte di Strasburgo osserva che alle autorità non può essere imposto un onere eccessivo e, nel caso di specie, le autorità non sapevano, né potevano sapere, che vi era un rischio reale e immediato per la vita del detenuto (§§ 88-89). I giudici di Strasburgo ritengono inoltre che non vi sia stata una violazione dell’art. 2 CEDU nemmeno sotto il profilo procedurale, in quanto, da un lato, le autorità italiane hanno agito con la diligenza richiesta e il rallentamento delle indagini non è dovuto a cause imputabili allo Stato e, dall’altro lato, i ricorrenti sono stati sufficientemente coinvolti nell’indagine, avendo avuto la possibilità sia di partecipare ad una serie di atti della procedura, sia di opporsi alle richieste di archiviazione (§ 102). (Davide Sibilio)
Riferimenti bibliografici: C. Mostardini, Responsabilità del medico per il suicidio del paziente psichiatrico, in Riv. ita. dir. proc. pen., n. 1/2017, p. 354.
Art. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, 31 marzo 2020, Jeanty c. Belgio
Detenzione di soggetto affetto da disturbi psichici – trattamenti inumani e degradanti – collocazione in isolamento – violazione (profilo sostanziale e procedurale) – diritto alla vita – obbligo positivo – tentativi di suicidio in carcere – non violazione (profilo sostanziale)
Il ricorrente, cittadino belga affetto da disturbi psichiatrici, lamenta che durante due periodi di detenzione cui è stato sottoposto nel corso del 2011, siano stati violati il suo diritto alla vita (sotto forma di messa in pericolo), nonché il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Nello specifico, il ricorrente, mentre si trovava in custodia cautelare in carcere, ha tentato più volte e con varie modalità di suicidarsi, tuttavia il tempestivo intervento del personale del carcere ha evitato la verificazione dell’evento (§§ 7-10). A causa del rischio suicidario, il ricorrente è stato posto in isolamento sia durante il primo che durante il secondo periodo di detenzione, per ragioni disciplinari (§§ 22-27). Con riferimento alla presunta violazione dell’obbligazione positiva di proteggere la vita del ricorrente, secondo la Corte di Strasburgo, le autorità belghe – consapevoli delle condizioni psichiche del detenuto e tenuto conto delle circostanze – avevano fatto quanto necessario per prevenire la materializzazione del rischio per la vita del ricorrente, inoltre le misure adottate si sono rilevate efficaci, in quanto idonee ad impedire il suicidio: non può pertanto essere ritenuta sussistente una violazione dell’art. 2 CEDU, sotto il profilo sostanziale (§§ 81-82). Il ricorrente afferma poi di essere stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, durante i due periodi di detenzione. In particolare, egli veniva trattato come un semplice detenuto, in un ambiente carcerario ordinario (§ 101), nonostante i disturbi psichiatrici, che pure aveva segnalato fin da subito (§ 105): il ricorrente veniva collocato in cella di isolamento per tre giorni, per ragioni disciplinari, fatto che provocava allo stesso un forte stress e acuta sofferenza. Per quanto riguarda questo secondo profilo, la Corte ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 3 CEDU, sotto il profilo sostanziale, in quanto il ricorrente è stato sottoposto ad un trattamento che – alla luce del suo stato mentale, non tenuto in debito conto dalle autorità carcerarie – ha fatto sorgere in lui sentimenti di “arbitrarietà, inferiorità, umiliazione e angoscia” (§§ 119-120) e che può pertanto essere qualificato come degradante. In più, il ricorrente lamenta che, in seguito al suo ricorso innanzi alle autorità belghe, non sono state compiute indagini effettive, idonee a far luce sul trattamento subito dallo stesso: anzitutto, le indagini sono iniziate con ingiustificato ritardo (§ 126); inoltre, si sono limitate a poche acquisizioni documentali, senza che venissero sentiti né i medici che avevano avuto in cura il detenuto, né il personale del carcere, né il ricorrente stesso e si sono concluse con una richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero (§ 127). Tenendo conto di tali elementi, la Corte giunge ad affermare che le indagini svolte non sono state effettive e quindi ritiene sussistente una violazione dell’art. 3 CEDU anche sotto il profilo procedurale (§ 129). (Davide Sibilio)
Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Detenzione e infermità psichica sopravvenuta: un problema europeo e una soluzione nazionale, in Riv. ita dir. proc. pen., n. 2/2019, p. 1065.
Art. 5 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 3 marzo 2020, Bas c. Turchia
Legalità della detenzione provvisoria – principio della certezza del diritto – garanzie procedurali poste a salvaguardia dell’indipendenza e imparzialità dei giudici – violazione – mancanza di ragionevoli sospetti di colpevolezza – violazione - controllo sulla legalità della detenzione provvisoria – diritto a comparire personalmente davanti a un giudice – violazione - parità delle armi – indipendenza e imparzialità dei giudici – non ricevibilità
Il ricorrente, accusato per fatti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni di giudice, contesta ex art. 5 comma 1 Cedu la legalità della detenzione provvisoria, in quanto disposta sul presupposto di un inesistente stato di flagranza di reato, legittimante – ai sensi della normativa interna - la privazione della libertà pur in assenza dell’altrimenti necessaria autorizzazione del Ministro della giustizia. La Corte di Strasburgo osserva come il ricorrente sia stato arrestato e posto in detenzione preventiva sulla scorta di un’interpretazione estensiva del concetto di “flagranza di reato” tale da includervi pure l’appartenenza a un’organizzazione considerata dalle autorità inquirenti e dai tribunali turchi come terroristica: in tal modo, è risultato compromesso il principio della certezza del diritto, ai sensi del quale non possono essere introdotte in via giurisprudenziale eccezioni contrastanti con la formulazione delle disposizioni giuridiche applicabili (§ 152), nonché sono state vanificate le garanzie processuali riconosciute alla magistratura per salvaguardarla dalle intromissioni del potere esecutivo (§ 160). Né, d’altra parte, quando è stata disposta la detenzione provvisoria, sussistevano ragionevoli sospetti che l’imputato avesse commesso il reato addebitatogli: di qui, un ulteriore profilo di violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu (§ 195). Risulta altresì violato l’art. 5 comma 4 Cedu, poiché il ricorrente ha potuto comparire personalmente davanti a un giudice allo scopo di contestare la legalità della detenzione preventiva solo con la prima udienza del processo a suo carico, dopo quattordici mesi dall’arresto. Prima di questo momento, tutte le sue istanze cautelari sono state esaminate senza che fosse ascoltato dai giudici chiamati a pronunciarsi (§ 215). Viceversa, sono dichiarate inammissibili le doglianze ex art. 5 comma 4 Cedu relative alla lesione della parità delle armi e al difetto di indipendenza e imparzialità dei giudici chiamati a pronunciarsi sulla detenzione provvisoria (reputati dalla Corte europea imparziali con riguardo sia al profilo soggettivo sia a quello oggettivo, considerate le garanzie costituzionali loro riconosciute, fra cui l’inamovibilità e il divieto per tutte le autorità pubbliche di impartire loro istruzioni relative all’attività giurisdizionale) (§ 272-273). Quanto alla parità delle armi, da un lato, la norma convenzionale, presupponendo la proposizione di un ricorso del detenuto, non è applicabile in caso di decisioni di proroga della detenzione disposte su richiesta del pubblico ministero (senza una domanda di rilascio del ricorrente) (§ 243); dall’altro, con riguardo alle domande di revoca esaminate unitamente alle richieste di proroga, non è dimostrato che il pubblico ministero avesse addotto un nuovo fatto che non fosse stato portato all'attenzione del ricorrente né quest’ultimo ha affermato che avrebbe potuto fornire informazioni nuove in risposta a tale richieste (§ 246). (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Impugnazioni de libertate e garanzie minime dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 968 ss.
Art. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 10 marzo 2020, Altıntaş c. Turchia
Equità processuale – diritto d’accesso a un giudice – impossibilità di presentare un ricorso avverso il provvedimento di condanna a un’ammenda – violazione
Il ricorrente è condannato a un’ammenda per apologia di reato per un articolo pubblicato su un periodico di cui è il caporedattore. La sentenza pronunciata dal giudice di primo grado è inoppugnabile, poiché la pena pecuniaria non oltrepassa i limiti previsti dalla legge per la ricorribilità in cassazione. La Corte di Strasburgo, rammentando il suo consolidato orientamento in materia, accerta la violazione del diritto d’accesso a un giudice di cui all’art. 6 comma 1 Cedu (§ 20-21). È invece escluso che la sentenza di condanna contrasti con l’art. 10 Cedu, poiché, per un verso, le espressioni impiegate nell’articolo integrano effettivamente l’apologia di reato o, quantomeno, la giustificazione alla violenza e, per l’altro, l’ammontare dell’ammenda deve ritenersi ragionevole (§ 35). (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: G. Spinelli, Secondo la Corte Europea, il reato di vilipendio alla Corona non merita la pena detentiva: il caso Stern Taulats e Roura Capellera c. Spagna, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1841 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 12 marzo 2020, Chernika c. Ucraina
Equità processuale – diritto al confronto – principio di immediatezza – testimoni ingiustificatamente assenti – prova determinante – assenza di valide garanzie procedurali - violazione
Dopo l’annullamento in sede di impugnazione della sentenza di condanna pronunciata dal giudice di primo grado, nel giudizio di rinvio il ricorrente viene condannato sulla scorta delle dichiarazioni rese da due testimoni esaminati dalla difesa soltanto nel corso delle indagini preliminari e della deposizione dibattimentale di un testimone che, tuttavia, non è stato riesaminato nel giudizio di rinvio. Il ricorrente si duole per la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 Cedu. La Corte europea osserva come nel caso di specie due siano gli aspetti potenzialmente rilevanti: l’ammissione delle dichiarazioni provenienti da testimoni assenti e il principio d’immediatezza (§ 39). Accertati il valore determinante delle testimonianze e il mutamento dell’intero collegio giudicante rispetto al primo processo (cosicché nessuno dei tre testimoni era stato esaminato dall’organo giurisdizionale chiamato a decidere), il giudice di Strasburgo rileva come le autorità non abbiano mostrato un'adeguata diligenza nei loro sforzi volti a garantire la presenza in udienza dei testimoni. (§ 62). Al contempo, non risulta che siano state predisposte adeguate garanzie per salvaguardare comunque l’equità processuale: anzitutto, seppure il ricorrente abbia avuto l'opportunità di presentare la propria versione degli eventi e di mettere in dubbio la credibilità dei testimoni assenti, tale opportunità non può, di per sé, essere considerata un fattore di controbilanciamento sufficiente per compensare l'handicap subito dalla difesa per l’assenza dei testimoni determinanti; in secondo luogo, gli elementi di riscontro erano di scarsa valenza probatoria; né, infine, può ritenersi sufficiente l’opportunità concessa al ricorrente di confrontarsi con i testimoni nella fase pre-processuale, assumendo rilievo determinante non tanto la limitata conoscenza del fascicolo processuale al momento del confronto quanto l’impossibilità per il giudice che in ultimo ha condannato il ricorrente sia di esaminare personalmente i tre testimoni chiave per l'accusa sia di disporre di una registrazione video delle loro dichiarazioni, nonostante il diritto nazionale prevedesse il ricorso a tale modalità di documentazione (§ 73). Da qui, la riconosciuta violazione del dettato convenzionale (Roberta Casiraghi)
Riferimenti bibliografici: L. Pressacco, Equo processo ed immutabilità del giudice dibattimentale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 356 ss.
Art. 10 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, 26 marzo 2020, Pendov c. Bulgaria
Sequestro di un server – limitazione dell’attività di un sito internet culturale ospitato dal server ma estraneo all’indagine – ingiustificata interferenza nel diritto alla libertà di espressione – violazione
Il ricorrente, cittadino bulgaro, proprietario e amministratore di un sito internet dedicato alla cultura anime giapponese (§ 4), afferma che il sequestro del server che ospitava il suo sito web ha determinato sia un’ingiustificata compressione del suo diritto alla libertà di espressione, sia la lesione del suo diritto di proprietà sul server stesso (su questo secondo aspetto v. infra, sub Art. 1 Prot. Add. CEDU). Il sequestro era stato disposto nel giugno 2010 nell’ambito di un’indagine su un sito web (diverso da quello del ricorrente), sospettato di violazione di diritti d’autore (§§ 3-6). Il ricorrente aveva ripetutamente chiesto la riattivazione del server, in assenza del quale il suo sito internet non poteva funzionare, con conseguente significativo danno alla sua attività professionale (§ 8-17). La Procura aveva disposto la riattivazione del server solo nel febbraio 2011 (§ 16), senza peraltro che lo stesso fosse stato nel frattempo utilizzato per gli scopi dell’indagine penale. La Corte di Strasburgo anzitutto afferma che l’interferenza con la libertà di espressione è il risultato del sequestro sia del server che dei dati in esso custoditi e che, anche se fosse stato possibile il ripristino delle funzionalità del sito del ricorrente tramite il salvataggio dei dati, comunque egli non era tenuto a conservarne un back-up completo (§ 57). Inoltre, la limitata funzionalità del sito è stata causata dal prolungato sequestro del server deciso dalle autorità inquirenti, senza che tuttavia vi fosse alcuna indagine che coinvolgesse il sito stesso (§ 58). Pertanto, secondo i giudici di Strasburgo, il sequestro del server ha provocato un’interferenza da parte della pubblica autorità nel diritto di libertà di espressione del ricorrente, consistente nell’indisponibilità del sito del ricorrente prima e nella limitata funzionalità dello stesso poi (§ 59); infine, il sequestro in questione non costituisce una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito e non rientra quindi tra le misure limitative della libertà di espressione “necessarie in una società democratica”, cui fa riferimento l’art. 10 CEDU (§ 67). (Davide Sibilio)
Art. 1 Prot. Add. CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, 26 marzo 2020, Pendov c. Bulgaria
Protezione della proprietà – prolungato sequestro senza necessità di un server nell’ambito di un’indagine penale verso terzi – conseguenze negative sull’attività professionale del ricorrente non indagato – violazione
Sui fatti alla base della vicenda, v. supra sub Art. 10. Il ricorrente lamenta la lesione del suo diritto di proprietà come conseguenza del sequestro del server che ospitava il suo sito web, e conseguente impossibilità di utilizzare quest’ultimo. La Corte di Strasburgo ha affermato che, nel caso di specie, il sequestro del server non potesse ritenersi conforme al canone di proporzionalità, alla luce di vari elementi: anzitutto, il server non è mai stato esaminato per gli scopi dell’indagine penale; inoltre, l’indagine stessa non era rivolta nei confronti del ricorrente, ma verso terzi, ed era comunque possibile copiare le informazioni necessarie; infine, il server era di grande importanza per l’attività professionale del ricorrente. Le autorità nazionali non hanno quindi operato un corretto ed equo bilanciamento tra il legittimo obiettivo perseguito e il rispetto del diritto alla protezione della proprietà spettante al ricorrente (§ 50). (Davide Sibilio)