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29 Settembre 2020


Osservatorio Corte EDU: luglio-agosto 2020

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Beatrice Fragasso (artt. 2, 3 e 11 Cedu) e Gaia Caneschi (artt. 5 e 6 Cedu, art. 4 Prot. 7).

 

In luglio e agosto  abbiamo selezionato pronunce relative a: diritto alla vita e questioni di genere (art. 2 Cedu); divieto di refoulement, con riferimento al rischio di respingimenti “a catena” (art. 3 Cedu); efficacia del controllo giurisdizionale sulla custodia cautelare, con riguardo anche alla motivazione del procedimento sulla necessità della misura e violazione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 5 Cedu); revisione di condanna contumaciale (art. 6 Cedu); scioglimento di un’associazione in caso di condanna per propaganda terroristica di alcuni suoi dirigenti (art. 11 Cedu); criterio del “legame temporale sufficientemente stretto” per l’accertamento del bis in idem

 

 

ART. 2 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, 4 agosto 2020, sez. II, Tërshana c. Albania

Aggressione con acido – quadro normativo efficiente – non violazione – Efficacia, tempestività ed imparzialità delle indagini – obbligo rafforzato in relazione a fatti di violenza di genere – violazione

La ricorrente, una cittadina albanese che aveva subito un’aggressione con acido, lamentava la violazione dell’art. 2 CEDU, nei suoi profili sostanziali e processuali, allegando che le autorità nazionali non avevano adottato misure idonee a prevenire il fatto e che, successivamente, non avevano condotto indagini tempestive ed efficaci al fine di identificare e punire il responsabile. Quanto al primo aspetto, la Corte ribadisce la propria consolidata posizione secondo cui l’obbligo positivo di tutelare vita e integrità fisica non possa essere tale da imporre un onere eccessivo in capo alle autorità (§148): in questo caso, i giudici ritengono che non sussista una violazione sostanziale dell’art. 2 CEDU, poiché la normativa albanese in materia di reati contro la persona risulta esaustiva ed efficace (§150) e, inoltre, in assenza di denunce presentate prima dell’attacco, le autorità non potevano prevedere che la ricorrente avrebbe subito un offesa alla propria integrità fisica (§151). La Corte accoglie invece il ricorso sotto il profilo processuale, affermando che l’obbligo di condurre indagini efficaci deve essere espletato con particolare diligenza in relazione a fatti di violenza di genere, specie qualora – com’era il caso in Albania – viga un clima di generale tolleranza nei confronti degli autori di tali reati (§156-157). Le indagini condotte dagli organi inquirenti albanesi erano state invece carenti e superficiali, dal momento che non erano nemmeno state disposte le analisi tossicologiche della sostanza, che sarebbero state fondamentali per chiarire le circostanze del delitto (§158); inoltre, alla vittima non era stata tenuta informata in merito ai progressi delle indagini (§161). (Beatrice Fragasso)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1192.

 

 

ART. 3 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, 23 luglio 2020, sez. I, M.K. e altri c. Polonia

Divieto di trattamenti inumani e degradanti – espulsione di richiedenti asilo – “chain-refoulement” – violazione – Divieto di espulsioni collettive – politica di respingimenti – violazione – Diritto a un rimedio effettivo – ricorsi privi di effetto sospensivo automatico – violazione – Divieto di ostacolare il diritto al ricorso – violazione

La Corte ravvisa da parte delle autorità polacche la violazione degli artt. 3, 4 prot. n. 4, 13 e 34 CEDU, in relazione all’espulsione in Bielorussia di cittadini russi provenienti dalla Cecenia, ai quali era stato impedito di presentare domanda di protezione internazionale presso il confine. Con riferimento al primo parametro, i giudici affermano che il respingimento arbitrario aveva esposto i richiedenti asilo al rischio di un “chain-refoulement”, poiché – come dimostrato da diverse statistiche ufficiali – la Bielorussia non dispone di un sistema efficiente di gestione delle domande d’asilo e i ricorrenti avrebbero rischiato di essere espulsi in Cecenia, dove temevano di poter subire trattamenti inumani e degradanti (§177). In base alle obbligazioni procedurali scaturenti dall’art. 3 CEDU, le autorità domestiche avrebbero dovuto consentire ai ricorrenti di restare sul territorio polacco fino a quando le domande d’asilo non fossero state esaminate dagli organi competenti (§178). Ad avviso della Corte, è altresì ravvisabile la violazione dell’art. 4, prot. n. 4 – che vieta le espulsioni collettive – poiché, come risulta da diverse inchieste indipendenti, le guardie di confine polacche respingevano sistematicamente i richiedenti asilo provenienti dalla Bielorussia, come parte di una linea politica complessiva, senza prendere in considerazione le situazioni individuali dei richiedenti (§206-208). In violazione dell’art. 13 CEDU, inoltre, la legislazione polacca non prevede un rimedio effettivo contro la decisione di espulsione, dal momento che l’appello non ha efficacia sospensiva e non impedisce, dunque, che i ricorrenti siano respinti nel paese da cui provenivano (§220). Infine, i giudici rilevano una violazione dell’art. 34 CEDU, per il fatto che le autorità polacche non si erano conformate ai provvedimenti provvisori adottati dalla Corte e, in particolare, all’obbligo di inoltrare agli organi competenti le domande d’asilo presentate alle guardie di confine (§235-237). (Beatrice Fragasso)

Riferimenti bibliografici: S. Santini, Espulsione di stranieri affetti da gravi patologie: una pronuncia coraggiosa della Corte di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 360.

 

 

ART. 5

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 7 luglio 2020, Dimo Dimov e altri c. Bulgaria

Legalità della detenzione - insufficienza del controllo sul provvedimento applicativo di una misura di detenzione provvisoria – divieto ingiustificato di presentare una nuova richiesta di riesame – violazione - diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – violazione

I ricorrenti, accusati di appartenere ad un’organizzazione criminale ritenuta responsabile di plurimi fatti di estorsione, venivano arrestati e posti in custodia cautelare nell’ambito di un procedimento penale successivamente archiviato. Dinanzi alla Corte europea, viene contestata la violazione dell’art. 5 § 4 Cedu, per l’inefficacia del controllo sulla legittimità della misura cautelare applicata, e dell’art. 5 § 5 Cedu, per la mancata previsione di un meccanismo riparatorio per la (ritenuta) illegittimità della privazione della libertà personale subita. Preliminarmente, la Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso di tre dei quattro ricorrenti: infatti, la mancata informazione da parte loro dell’azione di risarcimento per ingiusta detenzione, esperita con successo in sede nazionale, costituisce, secondo i giudici di Strasburgo, una rappresentazione incompleta dei fatti che comporta la perdita del diritto al ricorso (§ 40-50). Proseguendo dunque il giudizio nei confronti dell’ultimo ricorrente, la Corte europea ha rilevato la violazione del diritto ad ottenere un efficace controllo sulla legittimità della detenzione, in quanto, pur avendo in più occasioni riesaminato la condizioni applicative della misura cautelare, gli organi giurisdizionali interni avevano fondato il loro giudizio principalmente sulla gravità dei fatti oggetto dell’accusa, senza motivare sulle ragioni che rendevano necessaria la limitazione della libertà personale (§ 69). Già in altri casi, rammenta la Corte, la Bulgaria è stata condannata per l’assenza (o insufficienza) di motivazione dei provvedimenti limitativi della libertà personale, prassi quest’ultima che ha l’effetto di limitare l’efficacia del controllo esercitato sulla legittimità della misura. Inoltre, applicando la legge nazionale, al ricorrente era stato imposto il divieto di presentare un nuovo ricorso per l’arco temporale di due mesi: una misura finalizzata a limitare il ricorso ad impugnazioni strumentali che, tuttavia, nel caso di specie era stata applicata ingiustificatamente, senza cioè che fosse adeguatamente motivata la necessità di una simile limitazione (§ 80). Con riguardo, infine, al diritto alla riparazione, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 5 § 5 Cedu, dovuta all’assenza di uno strumento da azionare dinanzi agli organi giurisdizionali interni, precedente o successivo rispetto alla pronuncia della Corte di Strasburgo (§ 87). (Gaia Caneschi)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Impugnazioni de libertate e garanzie minime dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2018.

 

 

ART. 6

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 23 luglio 2020, Chong Coronado c. Andorra

Equità processuale – diritto a comparire personalmente dinanzi ad un giudice – onere di partecipare personalmente al giudizio di revisione di una condanna contumaciale – rifiuto volontario di comparire davanti all’autorità – non violazione

In seguito ad una condanna in primo grado emessa all’esito di un processo al quale il ricorrente aveva deliberatamente scelto di non partecipare, viene lamentata la violazione del diritto di accesso ad un tribunale a causa della condizione, imposta dalla legge processuale interna, di presentarsi al giudizio di revisione della prima decisione celebrato dinanzi al medesimo giudice che aveva emesso la prima decisione. Il ricorrente sostiene che l’onere di prendere parte personalmente al processo lo avrebbe esposto al rischio di compressione della propria libertà personale, in ragione di un’ordinanza di custodia cautelare precedentemente emessa (e mai eseguita) nei suoi riguardi. Precisando preliminarmente che un diniego di giustizia ha luogo quando un condannato in contumacia non può ottenere successivamente una seconda decisione (ovvero laddove sia stato verificato che egli non avesse consapevolmente rinunciato al diritto a comparire e difendersi), la Corte europea sottolinea l’importanza della partecipazione personale dell’imputato al processo, che legittima le iniziative dei legislatori nazionali tese a scoraggiare le assenze ingiustificate, a condizione, tuttavia, che le correlate sanzioni non si rivelino ingiustificate e che l’imputato non venga privato dell’assistenza difensiva (§ 31). Tenendo conto del fatto che la legge nazionale andorrana offre a coloro che sono stati condannati in contumacia in primo grado la possibilità di una seconda decisione da parte dello stesso giudice (anche nel caso in cui la rinuncia a comparire sia espressione di un’opzione volontaria), e che la comparizione personale è l’unica condizione prevista, essa non appare sproporzionata. Inoltre, l’interesse dello Stato a garantire la presenza fisica dell’imputato può superare il timore di quest’ultimo di essere arrestato (senza trascurare il fatto che, nel caso di specie, il ricorrente avrebbe potuto chiedere la sospensione dell’esecuzione del provvedimento di restrizione della libertà fino a quando il giudice di seconda istanza non si fosse pronunciato e che tra l’altro il medesimo ricorrente, pur potendo, non aveva impugnato la decisione applicativa della misura cautelare) (§ 40). Secondo la Corte di Strasburgo, non può considerarsi ingiusto un sistema che cerca di individuare un equilibrio rispetto a interessi in gioco contrastanti; in questo senso, l’obbligo di comparire quale unica condizione per il secondo giudizio non appare sproporzionato e dunque non costituisce una violazione dell’art. 6 Cedu. (Gaia Caneschi)

 

 

ART. 11 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, 21 luglio 2020, sez. X, Adana TAYAD c. Turchia

Libertà di associazione – dirigenti condannati per reato di propaganda terroristica – scioglimento dell’associazione – necessità della misura per finalità di sicurezza pubblica – violazione

La ricorrente Adana TAYAD, un’associazione turca di supporto alle famiglie di detenuti e condannati, era stata sciolta per terrorismo da una Corte d’Appello, per il fatto che alcuni membri del direttivo erano stati condannati, con sentenza non definitiva, per il reato di propaganda terroristica. La Corte EDU accoglie il ricorso per violazione dell’art. 11 CEDU, affermando che lo scioglimento aveva costituito una restrizione della libertà di associazione non necessaria e, dunque, illegittima ai sensi dell’art. 11, par. 2.

Innanzitutto, la Corte d’Appello avrebbe dovuto effettuare una valutazione indipendente circa le accuse che venivano mosse ad Adana TAYAD, invece di basarsi esclusivamente sul contenuto della sentenza di condanna, oltretutto non definitiva, che concerneva le condotte di singoli, non dell’associazione nel suo complesso (§33-34). D’altra parte, i fatti sui quali i giudici avevano fondato lo scioglimento non rappresentano di per sé atti di propaganda: non lo sono, tra gli altri, l’affissione di fotografie in luoghi privati, la raccolta di firme, l’invio di petizioni ad organi che si occupano di protezione di diritti umani (§36). In ogni caso, anche qualora l’allegazione di incitamento al terrorismo fosse stata provata, i giudici turchi non avevano dimostrato che lo scioglimento dell’associazione fosse l’unica misura possibile e che non vi fossero strumenti meno invasivi, idonei a raggiungere i medesimi obiettivi di sicurezza pubblica. In conclusione, le autorità turche non avevano adempiuto all’obbligo di giustificare in maniera stringente la misura restrittiva, obbligo che costituisce l’essenza della libertà di associazione (§36). (Beatrice Fragasso)

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Libertà di riunione ed affiliazione ad un’associazione illegale: per la Corte di Strasburgo il limite è la prevedibilità della condanna, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 359.

 

 

ART. 4 PROT. 7

C. eur. dir. uomo, sez. IV, 21 luglio 2020, Velkov c. Bulgaria

Diritto a non essere condannato due volte per lo stesso fatto – natura punitiva della sanzione amministrativa – procedimenti uniti da un “legame temporale sufficientemente stretto” – perseguimento dello stesso scopo punitivo nell’ambito dei due procedimenti – procedimenti che perseguono lo stesso scopo punitivo senza costituire un sistema sanzionatorio integrato – violazione

Il ricorrente, cittadino bulgaro condannato a due anni di reclusione per il reato di disturbo dell’ordine pubblico, lamenta la violazione dell’art. 4 prot. 7 Cedu perché, per il medesimo fatto (ingiurie e resistenza alle forze dell’ordine durante una competizione sportiva), era già stato condannato alla sanzione di quindici giorni di detenzione emessa all’esito di un procedimento amministrativo. La Corte europea rammenta che il divieto di ne bis in idem opera a condizione che i procedimenti di cui si sostiene la duplicazione abbiano entrambi natura penale, secondo la nozione di matière pénale ricavabile dai criteri “Engel” (Corte edu, 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi). Applicando tali parametri al caso di specie, la Corte riconosce la natura penale del procedimento amministrativo celebrato a carico del ricorrente: nonostante la qualificazione giuridica attribuita dalla legge nazionale, infatti, la decisione dell’autorità nazionale di irrogare la pena detentiva nel suo ammontare massimo, unitamente all’interdizione dalla partecipazione a competizioni sportive per il periodo di due anni, costituisce un indicatore utile ad affermare l’orientamento punitivo della sanzione applicata. Come già sostenuto in precedenti pronunce (v. Corte edu, 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia), inoltre, la Corte di Strasburgo ha rammentato che lo Stato deve dimostrare l’esistenza di un collegamento materiale e temporale sufficientemente stretto tra i due procedimenti (§ 69 e ss.). Nel caso di specie, i giudici europei hanno ritenuto sussistente il nesso temporale tra i procedimenti (iniziati contemporaneamente e conclusi a distanza di due anni e quattro mesi l’uno dall’altro) (§ 77), non sussistente, invece, il nesso materiale: il perseguimento dello stesso scopo, l’assenza di coordinamento probatorio, il trattamento sanzionatorio inflitto (ritenuto eccessivamente afflittivo in relazione alla gravità dell’illecito, visto che la sanzione amministrativa non era stata presa in considerazione dal giudice penale ai fini della commisurazione della pena) sono gli elementi che hanno impedito di affermare l’esistenza di un collegamento materiale sufficientemente stretto, tale cioè da configurare un sistema sanzionatorio integrato (§ 78). (Gaia Caneschi)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Ne bis in idem e procedimenti paralleli, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2017, p. 351.