Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Lucrezia Rossi (artt. 2, 3, 7, 10 e 13 Cedu) e Francesco Zacché (artt. 6 e 8 Cedu).
In luglio e agosto abbiamo selezionato pronunce relative a: prevenzione e repressione della violenza di genere (artt. 2 e 14 Cedu); sospetto coinvolgimento dello Stato per la scomparsa di un attivista (art. 2 Cedu); chain-refoulement di cittadini siriani (artt. 3 e 13 Cedu); rinnovazione d’ufficio dell’istruttoria dibattimentale in caso di condanna in appello del prosciolto in primo grado (art. 6 Cedu); diritto del ricorrente di partecipare all’udienza di fronte alla corte d’appello (art. 6 Cedu); conoscibilità del precetto e prevedibilità della sanzione (art. 7 Cedu); diniego di intimità in carcere (art. 8 Cedu); diffusione di notizie riservate e chilling effect (art. 10 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, 8 luglio 2021, Tkhelidze c. Georgia
Femminicidio – stalking – diritto alla vita – mancato intervento delle forze dell’ordine – violazione
Il ricorrente è il padre di una vittima di femminicidio: quest’ultima, dopo esser stata pedinata e minacciata per alcuni mesi quasi tutti i giorni dall’ex convivente, è stata uccisa dallo stesso con un colpo di arma da fuoco all’interno della scuola dove insegnava. Il padre ha dunque adito la C. eur. dir. uomo lamentando una violazione dell’art. 2 Cedu (oltre che dell’art. 14 Cedu, sul quale v. infra) in ragione della mancata adozione di qualsivoglia misura a tutela della vita della figlia. I Giudici di Strasburgo hanno anzitutto sottolineato come gli obblighi positivi derivanti dalla disposizione in esame implichino l’adozione i) di un quadro normativo idoneo a produrre un effetto deterrente; ii) di misure preventive da parte delle autorità – nei limiti di ciò che è possibile e ragionevole – qualora vi sia un rischio imminente per la vita di un cittadino; iii) ancora, lo svolgimento di indagini effettive (§ 48-50). In secondo luogo hanno evidenziato come nel caso di specie fosse stato rispettato esclusivamente il primo ordine dei richiamati obblighi positivi. Invero, da una parte la vittima si era rivolta alla polizia in almeno undici occasioni, descrivendo dettagliatamente l’abuso di alcol e droghe, gli atteggiamenti violenti, la gelosia patologica nonché gli altri disturbi mentali di cui era affetto l’ex compagno (confermati, peraltro, dai genitori dello stesso), circostanze che, agli occhi della Corte, avrebbero dovuto essere considerate sintomatiche dell’esistenza di un pericolo immediato e reale per la vita della vittima (§ 53). Dall’altra, gli agenti di polizia nei diversi incontri avuti con la figlia del ricorrente si erano dimostrati superficiali e negligenti, redigendo verbali incompleti e sommari, qualificando le condotte come meri litigi familiari (nonostante l’aggressività dell’ex compagno che, addirittura, in un episodio si era presentato con una granata), minimizzando il pericolo e considerandolo frutto della mera percezione della vittima, senza valutare la possibilità di applicare una misura temporanea restrittiva della libertà personale o di circolazione per contenere la minaccia (la vittima non era neanche stata informata circa l’esistenza di tale seconda alternativa; §§ 54-55). Dall’altra ancora, nessuna indagine e nessuna sanzione, neanche a livello disciplinare, è stata adottata nei confronti degli agenti di polizia (rimasti ignoti) il cui comportamento, sempre a giudizio della Corte di Strasburgo, ha superato la soglia del mero errore o disinteresse, integrando piuttosto una scelta deliberata. Per tali ragioni, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto violato l’art. 2 Cedu tanto nel suo volet sostanziale quanto procedurale. (Lucrezia Rossi)
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2017, p. 1192; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, 4/2020, p. 2112.
C. eur. dir. uomo, sez. III, 31 agosto 2021, Estemirova c. Russia
Diritto alla vita – supposto rapimento e uccisione da parte dello Stato – indagini inadeguate – violazione
Il caso in esame ha ad oggetto la nota vicenda di Natalia Estemirova, attivista per i diritti umani rapita ed uccisa in Cecenia nell’estate del 2009. Per questi fatti il fratello della vittima ha adito la C. eur. dir. uomo lamentando una violazione da parte del Governo russo del diritto alla vita della sorella, tutelato dall’art. 2 Cedu, in quanto responsabile, secondo il ricorrente, tanto degli eventi poc’anzi descritti, quanto di non aver eseguito delle indagini effettive. Per quel che riguarda la violazione del volet sostanziale del principio in esame, i Giudici di Strasburgo, ribadendo come risulti sufficiente addurre prove credibili circa l’avvenuto rapimento ad opera dello Stato per trasferire in capo a quest’ultimo l’onere di provare l’assenza di un suo coinvolgimento nei fatti, hanno escluso che nel caso di specie ciò si fosse verificato: pur essendo verosimilmente presente un legame tra l’omicidio e l’attivismo della vittima, non sono stati ravvisati elementi idonei a giustificare l’inversione dell’onere probatorio e, in assenza di ulteriori prove circa il supposto coinvolgimento dello Stato nei fatti in esame, hanno escluso che possa ritenersi violato l’art. 2 Cedu da un punto di vista sostanziale. Per quel che concerne, invece, il volet procedurale, la C. eur. dir. uomo ha individuato una serie di elementi indicativi della superficialità e dell’inadeguatezza delle indagini svolte: così, ad esempio, non è stato possibile affermare con certezza che i colpi mortali fossero stati esplosi dall’arma dell’individuo ritenuto responsabile dei fatti o, ancora, non è stato spiegato come mai non vi fossero tracce di DNA di quest’ultimo o dei suoi complici sul corpo della vittima; proprio in ragione della natura inconcludente e in alcuni casi addirittura contraddittoria delle indagini, la cui carenza è acuita dall’indisponibilità del fascicolo d’indagine completo (mai prodotto dalle autorità russe), i Giudici di Strasburgo hanno ritenuto violato l’art. 2 Cedu dal punto di vista procedurale. (Lucrezia Rossi)
Riferimenti bibliografici: C. Mostardini, Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2017, p. 1567; A. Faina, Malfunctioning of domestic system e violazione degli aspetti sostanziali e procedurali del diritto alla vita, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2020, p. 359.
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 8 luglio 2021, D.A. e altri c. Polonia
Principio di non-refoulement – rischio di trattamenti inumani e degradanti – richiesta d’asilo per appartenenti alla comunità Drusa – violazione
I ricorrenti sono tre cittadini siriani – rispettivamente due fratelli e il coniuge di uno dei due – che, dopo aver vissuto alcuni anni in Bielorussia per ragioni di studio, stante la scadenza del visto, hanno cercato in diverse occasioni di attraversare il confine per entrare in Polonia venendo tuttavia sistematicamente respinti nonostante avessero fatto richiesta di protezione internazionale. In particolare, essi hanno adito la C. eur. dir. uomo lamentando il rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 Cedu: restare in Bielorussia, scaduto il visto, li avrebbe esposti al pericolo di essere riportati in Siria dove rischiavano di essere condannati ad una pena di quindici anni di detenzione per diserzione oltre che perseguitati in ragione della loro appartenenza alla comunità Drusa, uno dei gruppi etnici-religiosi più oppressi. I Giudici di Strasburgo hanno anzitutto evidenziato l’importanza del principio di non-refoulement (o, come in questo caso, di chain-refoulement): il respingimento di un richiedente asilo può invero portare a una violazione dell’art. 3 Cedu ove tale decisione, direttamente o indirettamente, lo esponga al rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. In secondo luogo, hanno ritenuto che il governo polacco avesse violato il menzionato principio sia per non aver garantito ai richiedenti asilo un effettivo accesso ad una procedura adeguata, sia per non aver permesso agli stessi di restare all’interno del territorio per la durata degli accertamenti necessari alla richiesta di protezione internazionale (per i profili relativi all’art. 13 Cedu, v. infra). (Lucrezia Rossi)
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 8 luglio 2021, Maestri e altri c. Italia
Equità processuale - rinnovazione d’ufficio dell’istruttoria dibattimentale in caso di condanna in appello del prosciolto in primo grado - obbligo positivo di disporre l’esame degli imputati - violazione
I ricorrenti vengono processati nell’ambito di una vicenda relativa alla disciplina delle cosiddette “quote latte”, imposte dal regolamento CEE n. 856 del 1984, con l’accusa di associazione a delinquere e truffa aggravata. All’esito del dibattimento, il tribunale assolve tutti gli accusati dal primo capo d’imputazione, mentre li condanna per truffa, con l’eccezione di Maestri. Impugnata la sentenza di primo grado, la corte d’appello non solo conferma la responsabilità dei sei ricorrenti - che non hanno partecipato all’udienza - per il delitto di truffa, ma li condanna altresì per il secondo addebito, ribaltando la precedente decisione. Comparsa all’udienza, invece, l’imputata Maestri viene ritenuta responsabile di entrambi i delitti. Il giudice di seconde cure impiega il materiale probatorio acquisito dal tribunale, senza procedere a un rinnovamento dell’istruttoria dibattimentale. Da qui il ricorso alla Corte di Strasburgo, che accerta la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. Richiamati i propri precedenti in materia, i giudici di Strasburgo valorizzano il fatto che, nel ribaltare la sentenza di assoluzione di primo grado, la corte d’appello ha rivalutato l’elemento soggettivo del reato d’associazione, stabilendo, per la prima volta, che i ricorrenti non potevano ignorare il carattere illegale delle società da loro create e gestite al fine di consentire ai soci di superare le quote latte imposte dal regolamento comunitario, senza versare i relativi contributi allo Stato. Per il giudice europeo, tale esame dell’elemento soggettivo del reato implica da parte della corte d’appello la presa di posizione su fatti decisivi per la colpevolezza degli imputati, il cui apprezzamento non può prescindere da una valutazione diretta delle loro dichiarazioni. La C.edu, pertanto, reputa necessario accertare se gli interessati hanno beneficiato nel caso di specie di un’adeguata opportunità di essere sentiti e di presentare personalmente le proprie difese dinnanzi al giudice di seconde cure. A questo riguardo, la circostanza che i ricorrenti si siano rifiutati di comparire in appello non può essere interpretata come una rinuncia pure al loro diritto di essere sentiti. Anzi, ciò non esonera il giudice di appello dall’obbligo di valutare direttamente le prove presentate in persona dall’imputato, che si proclama innocente e non ha rinunciato espressamente a parlare. In tali eventualità, spetta all’autorità giudiziaria adottare tutte le misure positive indispensabili per garantire l’audizione dell’interessato, anche qualora questi non si sia presentato all’udienza. Né vale a superare siffatta lacuna la possibilità riconosciuta dall’art. 494 c.p.p. in capo all’imputato di rendere dichiarazioni spontanee, considerato che il prevenuto non ha interesse a chiedere che le prove relative a fatti per i quali è stato assolto in primo grado siano rivalutati dal giudice d’appello. Il giudice di merito, in breve, avrebbe dovuto disporre la riapertura dell’istruttoria al fine di sentire gli imputati sull’elemento soggettivo del reato. Quanto, poi, alla condanna per truffa della Maestri, la Corte europea osserva che, oltre a disporre l’esame della medesima, sarebbe stato necessario risentire i due testimoni a carico escussi in primo grado in ordine ai compiti gestionali svolti dall’interessata nelle società coinvolte nella vicenda criminosa. (Francesco Zacchè)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Prima condanna in appello e garanzie effettive, in Riv. it. dir. pen. proc., 2021, p. 315 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 27 luglio 2021, X c. Paesi Bassi
Equità processuale - diritto del ricorrente di partecipare all’udienza di fronte alla corte d’appello - impedimenti di lavoro all’estero - diniego del secondo rinvio della causa - violazione
La ricorrente, una donna che soffre di cleptomania, appella la sentenza con cui è stata condannata per furto a due mesi di reclusione, pena sospesa per due anni alla condizione di sottoporsi a un trattamento diretto a prevenire la commissione di nuovi reati. Assunta da una compagnia internazionale, poco prima del giorno fissato per l’udienza d’appello, la ricorrente comunica alla corte l’impossibilità di presenziare al processo, in quanto impegnata in un viaggio di lavoro all’estero. I giudici di seconde cure concedono, quindi, un rinvio dell’udienza sine die. Successivamente, l’avvocato della ricorrente concorda con la corte una nuova data per l’udienza, senza consultarsi preventivamente con la propria assistita. Il giorno dell’udienza, il difensore chiede un secondo aggiornamento della causa, poiché la propria cliente si trova ancora all’estero per lavoro. E, a tal fine, presenta ai giudici il fax con il quale la ricorrente chiede un altro rinvio al fine di essere sentita durante il processo, facendo valere le proprie ragioni. La corte, tuttavia, nega il rinvio e condanna la ricorrente a due settimane di reclusione. Il conseguente ricorso alla Suprema Corte è infruttuoso. In tale vicenda, la C.edu ravvisa una violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, nel presupposto che la ricorrente né ha rinunciato al suo diritto a partecipare al processo, né ha tentato di eludere la giustizia. Tutt’altro, essa ha espresso la volontà di prendervi parte e solo un errore dell’avvocato lo ha impedito. Più nel dettaglio, il giudice europeo ha valorizzato il fatto che se, da un lato, è interesse della giustizia penale avere un corretto funzionamento, dall’altro, è pur vero che il processo di primo grado si era concluso da pochi mesi, mentre quello d’appello avrebbe necessitato di un ulteriore breve rinvio. Non solo: più che fondate sono le motivazioni addotte dalla ricorrente - condannata appunto a una pena detentiva senza sospensione condizionale, in riforma della precedente decisione – circa l’importanza della sua presenza dibattimentale, nell’ottica di non perdere il lavoro, e di spiegare le cause che l’avevano spinta a rubare e il percorso seguito per evitare la recidiva. (Francesco Zacchè)
ART. 7 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 6 luglio 2021, Norman c. Inghilterra
Nulla poena sine lege – prevedibilità delle conseguenze penali – chiarezza del precetto – abuso d’ufficio o misconduct in public office – comunicazione d’informazioni riservate – non violazione
Il ricorrente, dipendente dell’istituto penitenziario di Sua Maestà Belmarsh (Londra), tra maggio 2006 e aprile 2011 ha divulgato ad alcune testate giornalistiche informazioni relative tanto all’istituto in generale e al suo funzionamento, quanto a specifici individui – sia detenuti sia dipendenti –, ottenendo in cambio poco più di dieci mila sterline. Per questo motivo lo stesso è stato arrestato, processato e condannato per il reato di misconduct in public office (una fattispecie sovrapponibile al reato di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.). Il ricorrente ha dunque adito la C. eur. dir. uomo per violazione dell’art. 7 § 1 Cedu (per i profili relativi all’art. 10 Cedu, v. infra), ritenendo eccessivamente vago – al punto da non permettergli di prevedere che le proprie azioni avrebbero potuto dare origine a un processo penale a suo carico (§§ 55, 56) – uno dei quattro requisiti richiesti dal case law del Regno Unito per poter ritenere integrato il reato in esame, ossia la gravità dell’abuso (c.d. seriousness test, §§ 33, 34). I Giudici di Strasburgo, ricordando come la Convenzione esiga che il precetto sia chiaro e le conseguenze sanzionatorie siano prevedibili (§ 59, v. ex multis C. eur. dir. uomo Grande Camera, sent. 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna), hanno ritenuto che nel caso di specie non vi fosse alcuna violazione dell’art. 7 Cedu. Da una parte, osserva la pronuncia, il case law in materia è sufficientemente chiaro e prevedibile nel definire il c.d. seriousness test; dall’altra sono presenti diversi elementi indicativi del fatto che il ricorrente ben fosse consapevole tanto della serietà dell’offesa arrecata al bene giuridico protetto (lo stesso aveva infatti avuto più di quaranta contatti con i tabloid inglesi in un periodo di circa sei anni e, con le proprie azioni, aveva contribuito a creare un clima di generale inimicizia e sfiducia all’interno dell’ambiente carcerario, provocando seri danni tanto ai detenuti, demonizzati dalla stampa, quanto al personale carcerario, sospettati di condotte illecite anche se innocenti (§§ 67, 68)) – quanto più in generale della natura illecita del suo agire (come emerge dal tentativo di nascondere i pagamenti ricevuti in cambio delle informazioni trasmesse (§ 66)). (Lucrezia Rossi)
Riferimenti bibliografici: M. Crippa, La prevedibilità delle condanne per genocidio “politico” degli oppositori al regime sovietico: la Lituania supera il vaglio della Corte edu, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2019, p. 1753.
ART. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 1° luglio 2021, Lesław Wójcik c. Polonia
Privatezza – diniego incontri intimi in carcere – comportamento indisciplinato del ricorrente – non violazione
Il ricorrente, detenuto da tempo per vari reati, ottiene una serie di colloqui con i propri familiari, nonché “visite intime” con propria moglie, secondo quanto prescritto dall’ordinamento polacco. A un certo punto, tuttavia, il ricorrente subisce dei procedimenti disciplinari da cui conseguono, per un significativo lasso temporale, rigetti delle richieste d’incontri con la moglie e con gli altri componenti della famiglia. Per il ricorrente il numero elevato di rigetti rappresenta una violazione del suo diritto alla privatezza; egli lamenta poi che, siccome la concessione del permesso di visita coniugale rappresenta una ricompensa o una forma di motivazione il cui placet è rimesso alla discrezionalità del direttore del carcere, la relativa autorizzazione è impossibile da ottenere. Nella specie, la Corte di Strasburgo nega l’inosservanza dell’art. 8 Cedu. Ricostruita la propria giurisprudenza in materia di risocializzazione dei condannati, il giudice europeo rammenta che le visite assicurate dall’ordinamento polacco non costituiscono un diritto, ma un beneficio. A suo parere, tuttavia, ciò non esclude che i dinieghi rappresentino una peculiare forma d’interferenza nella vita privata e familiare del condannato, e che la disciplina in parola abbia una base legale nell’ordinamento penitenziario polacco, perseguendo lo scopo legittimo di garantire la disciplina e la risocializzazione dei prigionieri. Né la C.edu ravvisa nei rifiuti dell’autorità nazionale una comportamento arbitrario o manifestamente irragionevole: come si evince dai provvedimenti di rigetto dei reclami presentati dal ricorrente, il giudice di sorveglianza ha confermato i rifiuti del direttore per la “cattiva” condotta del ricorrente, per la necessità che questi intraprendesse un percorso di riabilitazione stabile e attiva (piuttosto che di buona condotta), senza dimenticare che non è mai venuta meno la possibilità di colloqui visivi controllati, di corrispondenza epistolare e telefonica. In breve, per la Corte europea, l’ingerenza lamentata non deriva da «uno strumento contundente» che ha in maniera indiscriminata spogliato dei diritti della Convenzione una categoria di detenuti o imposto loro una restrizione generale o automatica. (Francesco Zacchè)
ART. 10 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 6 luglio 2021, Norman c. Inghilterra
Libertà di espressione – tutela delle fonti giornalistiche – chilling effect – comunicazione d’informazioni riservate – non violazione
Per la sintesi della vicenda v. supra sub. art. 7 Cedu. Il ricorrente ha altresì lamentato la violazione della sua libertà di espressione, evidenziando come da una parte fosse presente un chiaro interesse pubblico a conoscere le informazioni da lui diffuse relative all’istituto penitenziario e dall’altra la vicenda in esame rischiasse di provocare un c.d. chilling effect, inducendo cioè al silenzio le fonti giornalistiche nel timore di subire un processo e di riportare una condanna com’è accaduto al ricorrente medesimo (§ 79). La C. eur. dir. uomo, ribadita l’importanza della libertà di espressione e della delicatezza con cui si devono affrontare situazioni in cui un individuo denunci delle condotte illecite o scorrette sul luogo di lavoro, a maggior ragione qualora si tratti di dipendenti pubblici (§ 84, 85), ha ritenuto non solo che la limitazione adottata nei confronti del ricorrente fosse prescritta dalla legge e rispondesse a un fine legittimo (ossia tutelare la sicurezza, la salute e la morale collettiva, prevenire la commissione di reati e proteggere la reputazione delle persone coinvolte), ma anche che la stessa fosse necessaria in una società democratica. Due le principali ragioni a sostegno di quest’ultima affermazione: in primo luogo il ricorrente con la propria condotta aveva ripetutamente e profondamente violato la fiducia in lui riposta dalla pubblica amministrazione, provocando gravi danni tanto ai detenuti quanto ai dipendenti dell’istituto penitenziario (§ 88); in secondo luogo i contenuti degli articoli redatti sulla base delle informazioni trasmesse dal ricorrente ben evidenziano l’assenza di un interesse pubblico sottostante, confermando il fatto che il ricorrente avesse agito mosso esclusivamente da fini di lucro. Per questi motivi i Giudici di Strasburgo hanno ritenuto che nel caso di specie non ci sia stata alcuna violazione dell’art. 10 Cedu. (Lucrezia Rossi)
Riferimenti bibliografici: M. Crippa, La pubblicazione di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte edu condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2020, p. 1164; M. Crippa, La violazione della libertà di stampa nell’ordinamento turco: ancora una condanna della Corte edu per la custodia cautelare dei giornalisti di un quotidiano antigovernativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2021, p. 338.
ART. 13 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 8 luglio 2021, D.A. e altri c. Polonia
Respingimento alla frontiera – rimedio effettivo – efficacia sospensiva dell’impugnazione – violazione
Per la sintesi della vicenda v. supra sub. art. 3 Cedu. I ricorrenti hanno altresì lamentato l’assenza di un rimedio effettivo contro la decisione immediatamente efficace di respingimento alla frontiera adottata delle autorità polacche; invero, non solo non era possibile sospendere gli effetti di quanto statuito impugnando la decisione, ma tale giudizio d’appello risultava in concreto uno strumento inefficace per i ricorrenti (sia perché le statistiche mostrano come sia difficile che l’impugnazione venga accolta, sia perché quest’ultima poteva durare fino a tre anni). I Giudici di Strasburgo, rilevato che i ricorrenti dovessero essere trattati come dei richiedenti asilo, che le autorità polacche non avevano considerato il pericolo corso dagli stessi facendo ritorno in Bielorussia e che lo strumento offerto dallo Stato convenuto fosse inutile giacché privo di efficacia sospensiva, ha ritenuto sussistente anche la violazione dell’art. 13 Cedu in rapporto all’art. 3 Cedu. (Lucrezia Rossi)
ART. 14 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, 8 luglio 2021, Tkhelidze c. Georgia
Femminicidio – mancato intervento delle autorità giudiziarie e delle forze di polizia – discriminazione di genere – violazione
Per la sintesi della vicenda v. supra, sub art. 2 Cedu. Il ricorrente ha altresì lamentato la violazione dell’art. 14 Cedu in ragione dell’atteggiamento discriminatorio tenuto dalle autorità pubbliche a cui si era rivolta la figlia, vittima di femminicidio, per chiedere aiuto. La C. eur. dir. uomo ha dapprima messo in evidenza come la disposizione in esame si possa ritenere violata anche a prescindere dall’intenzionalità del comportamento discriminatorio, essendo sufficiente dimostrare che le autorità abbiano avuto un atteggiamento permissivo nei confronti delle violenze domestiche (§ 51). Inoltre, ha affermato che gli atteggiamenti tenuti dalla polizia georgiana nel caso di specie fossero a ben vedere espressione di un problema sistematico in quel Paese, fondato su un diffuso atteggiamento discriminatorio in ragione del genere, nonché patriarcale (§ 55, 56). La Corte ha dunque ritenuto violato l’art. 14 Cedu, in relazione all’art. 2 Cedu, alla luce dell’atteggiamento delle autorità georgiane, in quanto lesivo del diritto del ricorrente e della figlia ad essere trattati in maniera uguale davanti alla legge nonché, più in generale, terreno fertile per la violenza di genere (§ 56). (Lucrezia Rossi)