Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Nicola Maiello (artt. 2, 3, 10 e 14 Cedu) e Paola Concolino (artt. 5 e 6 Cedu).
In aprile abbiamo selezionato pronunce relative a: tutela della vita nel contesto di violenze domestiche (art. 2 e 14 Cedu); garanzie prestate dallo stato richiedente l’estradizione rispetto al rischio di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu); accompagnamento coattivo presso la stazione di polizia per l’identificazione nel contesto di illeciti amministrativi minori (art. 5 Cedu); ragionevole durata delle indagini preliminari (art. 6 Cedu); condanna fondata su dichiarazioni rese spontaneamente ma senza avviso del diritto al silenzio, né assistenza del difensore (art. 6 Cedu); condanna per consulenza e assistenza al suicidio (art. 10 Cedu).
ART. 2 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 7 aprile 2022, Landi c. Italia
Diritto alla vita – violenza domestica – omicidio – obblighi positivi di tutela – violazione
Nella vicenda in epigrafe, la Corte EDU ha riconosciuto la violazione dell’art. 2 CEDU da parte dello Stato italiano per non avere le autorità nazionali attuato alcuna misura preventiva finalizzata a neutralizzare le minacce e i comportamenti aggressivi che la ricorrente e i suoi figli subivano dal marito, nonostante le reiterate denunce della sig.ra Landi. L’ultimo dei quattro principali episodi di violenza è poi sfociato nell’omicidio del secondo figlio della coppia e nel tentato omicidio della ricorrente. Lo Stato italiano avrebbe così violato l’obbligo positivo derivante dall’art. 2 CEDU di proteggere la vita della ricorrente e dei suoi figli (§§ 78 ss.), come declinati dalla nota giurisprudenza Osman c. Regno Unito (28 ottobre 1998) e, da ultimo, Kurt c. Austria (Grande Camera, 15 giugno 2021). La Corte di Strasburgo, anzitutto, esclude che la legislazione italiana non preveda strumenti idonei a prevenire le violenze. Essa, tuttavia, riconosce che le autorità erano nelle condizioni di valutare l’esistenza di un “rischio reale e immediato” per la vita della ricorrente e dei suoi figli a causa delle violenze precedentemente commesse dal marito e della sua condizione psicologica, che aveva portato un perito a riconoscerne la pericolosità sociale, obbligandolo ad un programma terapeutico (§ 91). Proprio dalla sussistenza di tale “rischio reale e immediato” discendeva l’obbligo di tutela da parte dello Stato, che, come anticipato, nel caso di specie è rimasto inadempiuto. Per i profili relativi al divieto di discriminazioni di genere, v. infra, sub art. 14 Cedu. (Nicola Maria Maiello).
Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, pp. 1192 ss.
ART. 3 CEDU
C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 29 aprile 2022, Khasanov e Rakhmanov c. Russia
Divieto di tortura – divieto di trattamenti inumani e degradanti – estradizione – prestazione di garanzie da parte dello stato richiedente – onere della prova del ricorrente – non violazione
La Grande Camera, investita dei ricorsi, preliminarmente riuniti, da parte dei ricorrenti ai sensi dell’art. 43 CEDU, era chiamata a giudicare la violazione dell’art. 3 CEDU da parte della federazione russa per aver autorizzato la loro estradizione verso il Kirghizistan, Paese di origine dei due ricorrenti. Questi appartenevano alla minoranza etnica uzbeka, oggetto di persecuzione del governo kirghiso a seguito della grave situazione di crisi politica e sociale esplosa nel 2010 che aveva dato luogo a forti tensioni tra i diversi gruppi etnici. Stante la loro presenza sul territorio russo, il governo del Kirghizistan ne chiedeva la l’estradizione dopo che gli stessi erano stati condannati in via definitiva, rispettivamente per ipotesi di appropriazione indebita aggravata e per reati di violenza legati alle sommosse civili del 2010, commesse in forma organizzata. Tali richieste, avanzate nel 2013 per il primo ricorrente e nel 2014 per il secondo, erano state accompagnate da una serie di garanzie, tra le quali rassicurazioni sul mancato ricorso a pratiche di tortura, trattamenti crudeli, inumani e degradanti; l’esclusione di motivi politici o discriminatori a fondamento della richiesta di estradizione; la possibilità di essere assistiti da un avvocato; la facoltà della federazione russa di consentire a un diplomatico russo di visitare i ricorrenti dopo il trasferimento (§§ 18 e 37). In virtù di simili garanzie, il governo russo accoglieva le richieste di estradizione. I ricorrenti, così, adivano la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 3 CEDU in quanto in caso di trasferimento in Kirghizistan, essi avrebbero affrontato un rischio reale di torture e persecuzioni etniche. La Corte chiarisce che per compiere questo genere di scrutinio deve provvedere ad un doppio grado di accertamento: alla preliminare considerazione della situazione generale del Paese, deve seguire un’analisi dei rischi rispetto ai singoli soggetti (§ 95 ss.). La Corte, così, pur riconoscendo la natura di gruppo vulnerabile all’etnia uzbeka presente in Kirghizistan, nega che la crisi generale kirghisa abbia mai raggiunto livelli tali da ritenere ragionevolmente che ivi vi fosse un reale rischio di maltrattamenti (§ 120 ss. e 132); in secondo luogo, scendendo nelle peculiarità del caso oggetto di giudizio, rileva come le relative criticità e i rischi paventati dai due ricorrenti erano stati presi in considerazione dal governo kirghiso, che aveva fornito le dovute garanzie (§138). Il giudice di Strasburgo, peraltro, ha puntualizzato come sia onere dei ricorrenti provare i rischi individuali di essere sottoposti a trattamenti contrari all’art. 3 CEDU cui sarebbero andati incontro a seguito dell’estradizione (§ 109). Ad avviso della Corte questo onere non era stato assolto (Nicola Maria Maiello).
Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, La tutela dei diritti umani nel procedimento di estradizione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, pp. 1741 ss.
Art. 5 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 aprile 2022, Teslenko e altri c. Russia
Legalità dell’arresto e della detenzione – incompatibilità della normativa interna che consente l’accompagnamento coattivo presso la stazione di polizia per l’identificazione nel contesto di illeciti amministrativi minori – violazione (primo e quarto ricorrente)
I ricorrenti sono stati condannati per illeciti amministrativi previsti dalla legislazione interna in materia elettorale. In particolare, le condotte del primo e del secondo ricorrente si collocano nello scenario delle elezioni alla Duma del 2011. Gli stessi sono stati accusati di avere promosso una campagna elettorale (mediante la diffusione di volantini contenenti slogan contrari al partito dominante “Russia Unita” riferibile a Putin nel primo caso e attraverso una scritta sulla macchina di medesimo tenore nel secondo caso), in violazione della normativa interna che impone di notificare alle autorità pubbliche tutti i dettagli delle attività propagandistiche compiute in periodo pre-elettorale (inclusi, ad esempio, il numero dei volantini stampati e i dati anagrafici del finanziatore della campagna) (§§ 4-15). Il terzo e il quarto ricorrente, invece, sono stati promotori del movimento guidato da Navalnyy che invitava i cittadini russi ad astenersi dal voto alle elezioni presidenziali del 2018 in quanto ritenute un farsa. Sono stati pertanto accusati di avere ostacolato la libera partecipazione dei cittadini al processo elettorale (§§ 16-38). Inoltre, sempre nel contesto di tali accuse, il primo ed il quarto ricorrente sono stati anche condotti coattivamente presso la stazione di polizia ed ivi trattenuti per qualche ora: il primo ricorrente è stato quindi identificato e perquisito (§§ 7-8); il quarto è stato privato del telefono cellulare ed è stato costretto a consegnare le proprie scarpe perché ne venissero rilevate le impronte (§§ 33-35). I Giudici di Strasburgo hanno ritenuto sussistente una violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu nei confronti del primo e del quarto ricorrente (§§ 80-85). Infatti, in entrambi i casi non sono emersi elementi per ritenere che l’identificazione dei ricorrenti non avrebbe potuto avere luogo senza dovere ricorrere ad una privazione della loro libertà personale. Considerato, dunque, il fatto che la limitazione della libertà personale dei ricorrenti non appariva necessaria nelle circostanze concrete e che, peraltro, si era trattato di illeciti amministrativi puniti con la multa fino a 1500 rubli (circa 15/20 euro all’epoca dei fatti), l’accompagnamento coattivo presso la stazione di polizia è stato ritenuto dalla Corte contrario ai principi convenzionali, non rilevando in proposito che tale misura fosse stata disposta nei termini di legge. (Paola Concolino)
Art. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 5 aprile 2022, Calin c. Romania
Equità processuale – durata ragionevole del procedimento – indagini preliminari protrattesi per oltre 10 anni - ritardi procedurali e numerosi periodi di inattività – violazione
Il ricorrente è stato sottoposto ad un’indagine penale durata 10 anni e 10 mesi in quanto sospettato (insieme ad altre 17 persone) di avere approvato illegalmente prestiti deteriorati nella sua qualità di membro del consiglio di amministrazione di una banca e lamenta, pertanto, una violazione dell’art. 6 Cedu sotto il profilo della ragionevole durata del procedimento. La Corte accoglie le censure del ricorrente. Ricordano infatti i Giudici di Strasburgo che la ragionevolezza della durata del procedimento deve essere valutata alla luce delle circostanze del caso concreto, applicando i seguenti criteri: la complessità del caso e il comportamento del ricorrente e delle autorità competenti (§ 45 che rinvia a, C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 25 marzo 1999, Pélissier e Sassi c. Francia, § 67). Applicando tali criteri al caso concreto, la Corte europea ha rilevato che il ricorrente non aveva mai contribuito al prolungarsi eccessivo delle indagini (§ 47). Viceversa, nonostante la complessità tecnica dell’inchiesta, l’elevato numero di indagati e l’ampia mole di documenti, la causa della lungaggine delle investigazioni è stata dalla Corte di Strasburgo individuata esclusivamente negli ingiustificati periodi di inattività e nei numerosi conflitti negativi di competenza sollevati dai vari uffici di pubblico ministero dei diversi distretti di Bucarest (§ 47). Pertanto, essendo l’autorità giudiziaria l’unica responsabile dei ritardi denunciati dal ricorrente, la Corte ha ritenuto sussistente la violazione del principio convenzionale di equità processuale per irragionevole durata delle indagini. (Paola Concolino)
Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Durata irragionevole delle indagini preliminari e archiviazione: diritti dell’offeso-danneggiato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2021/3, p. 1141 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 28 aprile 2022, Wang c. Francia
Equità processuale – dichiarazioni rese spontaneamente dalla ricorrente alle forze dell’ordine senza essere avvisata del diritto al silenzio e senza beneficiare dell’assistenza di un difensore e di un interprete – condanna della ricorrente fondata sul contenuto delle dichiarazioni rese in assenza delle citate garanzie – violazione
La ricorrente, madrelingua cinese, sospettata di esercizio abusivo della professione medica, si è sottoposta volontariamente ad interrogatorio delle forze dell’ordine. Conformemente alla normativa nazionale vigente all’epoca dei fatti, la ricorrente è stata avvisata del proprio diritto ad allontanarsi in qualsiasi momento, ma non dei propri diritti al silenzio, all’assistenza di un difensore e di un interprete (avvisi che, secondo la legge francese dell’epoca, erano riservati soltanto agli indagati/imputati in stato di custodia). Nel corso di tale interrogatorio, svoltosi senza l’assistenza né di un difensore né di un interprete, la ricorrente ha reso dichiarazioni autoincriminanti che sono state poste a fondamento della successiva sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dal giudice nazionale di primo grado, confermata nei successivi gradi di giudizio. I Giudici di Strasburgo evidenziano come, nell’ipotesi di restrizione alle garanzie minime previste dall’art. 6 commi 1 e 3 Cedu (quand’anche ciò sia consentito dalla normativa nazionale), occorre verificare in primis se la compressione del diritto dell’accusato all’assistenza del difensore in fase istruttoria sia stata motivata da ragioni imperative (§ 77). Sul punto, la Corte europea rileva come il Governo non abbia allegato alcuna circostanza dalla quale inferire la sussistenza di una necessità imperativa che avrebbe potuto giustificare la violazione del diritto di difesa della ricorrente (§ 78). In secondo luogo, i Giudici di Strasburgo valutano se le violazioni dell’art. 6 Cedu intervenute nel caso di specie abbiano compromesso l’equità complessiva del procedimento (§ 80). A tal proposito, la Corte europea sottolinea come la ricorrente, per quanto informata di potersi allontanare in qualsiasi momento, abbia acconsentito a rispondere alle domande senza essere consapevole del suo diritto al silenzio (§ 74). Inoltre, è stata interrogata in una lingua diversa rispetto alla propria lingua madre senza l’assistenza di un interprete, ciò che l’ha posta in una situazione di grande vulnerabilità rispetto alle forze dell’ordine (§§ 75 e 81). A ciò si aggiunga che l’assenza di un difensore non le ha consentito di comprendere appieno il tenore delle accuse elevate nei suoi confronti né fino a che punto le dichiarazioni rese avrebbero potuto incidere negativamente sul procedimento a suo carico (§ 83). Infine, i Giudici europei evidenziano come la sentenza emessa nei confronti della ricorrente dalle corti interne abbia essenzialmente posto a fondamento dell’accertamento di responsabilità proprio le dichiarazioni rese dalla ricorrente in sede di interrogatorio (§ 88). Tali fattori, complessivamente considerati, hanno senz’altro inficiato l'equità complessiva del procedimento, risultando così violato l’art. 6 commi 1 e 3 Cedu (§ 89-91). (Paola Concolino)
ART. 10 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. II, 12 aprile 2022, Lings c. Danimarca
Libertà di espressione – condanna per consulenza e assistenza al suicidio – assenza di consenso a livello europeo in materia di eutanasia – margine di apprezzamento nazionale – non violazione
Il ricorrente, medico in pensione e socio fondatore di un’associazione che sostiene la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito, veniva condannato in via definitiva dalla Suprema Corte danese per due episodi di suicidio assistito e per uno di tentativo di suicidio assistito, ai sensi dell’art. 240 del codice penale danese. Durante la sua militanza attiva nella suddetta associazione, al fine di promuoverne le finalità, il ricorrente aveva pubblicato su internet una guida di “farmaci adatti al suicidio”, liberamente accessibile, ove venivano dettagliatamente riportate dosi e composti farmacologici che avrebbero provocato effetti mortali. Oltre a questa attività ‘di diffusione informativa’, consentita ai sensi della legge danese e, ad avviso della Corte danese, coperta dal diritto alla libertà di espressione convenzionalmente garantito all’art. 10 CEDU (§ 58), il ricorrente aveva materialmente fornito aiuto al suicidio a tre persone, ferme nella decisione di porre fine alla loro vita a causa di malattie terminali e di condizioni di vita non ritenute dignitose, e dalle quali era stato avvicinato per ottenere un supporto più concreto. Solo in due di queste vicende si era verificato l’evento mortale, mentre il terzo si era arrestato alla forma tentata. Tale attività di aiuto consisteva nella indicazione specifica del farmaco più adatto al suicidio nel caso di specie; nel ruolo di intermediario con persone che avrebbero potuto fornire i farmaci non altrimenti rinvenibili sul mercato; infine, nell’istigazione a combinare l’assunzione di farmaci con condotte materiali idonee al suicidio (es. auto-soffocamento). In relazione a tali condotte, il ricorrente era stato condannato a 60 giorni di reclusione (pena sospesa) ai sensi dell’art. 240 del codice danese che, come anticipato, punisce la fattispecie di aiuto al suicidio. Questi adiva la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 10 CEDU, sostenendo di aver esercitato un suo diritto convenzionalmente garantito, posto a fondamento delle democrazie liberali, quale appunto l’esercizio della libertà di manifestazione della propria opinione. La Corte EDU, investita del ricorso, nega l’esistenza di un “diritto al suicidio assistito” convenzionalmente riconosciuto (§ 52) ed esclude che vi sia stata violazione dell’art. 10 CEDU, in quanto la criminalizzazione delle predette forme di aiuto al suicidio, consistenti in un supporto materiale o morale all’attività suicida di singole persone, e non nella semplice pubblicazione della guida informativa rivolta al pubblico generalmente inteso, era “proporzionata agli scopi perseguiti”, come la tutela della salute e della morale, ed avendo lo Stato agito entro il loro margine di apprezzamento. Né la sanzione penale, ancorché severa, poteva ritenersi sproporzionata, tenuto anche conto del fatto che era stata sospesa. (Nicola Maria Maiello).
Riferimenti bibliografici: C. Mostardini, Responsabilità del medico per il suicidio del paziente psichiatrico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, pp. 354 ss.
ART. 14 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 7 aprile 2022, Landi c. Italia
Violenza domestica – violazione degli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita – assenza di profili di discriminazione sistematica di genere – non violazione
Per la sintesi dei fatti e i profili relativi al diritto alla vita, v. supra sub art. 2 Cedu. La ricorrente riteneva, inoltre, che l’omesso intervento da parte delle autorità fosse espressione di un atteggiamento discriminatorio legato al sesso. La Corte, però, rileva l’assenza di elementi sintomatici dell’intento o delle finalità discriminatorie dei pubblici agenti nei confronti della ricorrente, precisando che una violazione dell’art. 14 CEDU si verifica solo in caso di carenze generali derivanti da una chiara e sistematica incapacità delle autorità nazionali di apprezzare la gravità dei rischi cui le donne sono sottoposte. Nel caso di specie, si è trattato - afferma la Corte – di una grave inerzia non espressiva di un atteggiamento discriminatorio (§§ 100 ss. e, sui criteri per l’accertamento della violazione dell’art. 14 CEDU nell’ambito delle violenze domestiche, cfr. Opuz c. Turchia, 9 giugno 2009). (Nicola Maria Maiello).