ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Opinioni  
14 Novembre 2022


La Corte EDU e le due misure emesse per sollecitare la cura. Servono davvero nuove Rems?


* Pubblichiamo di seguito un contributo a margine di un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sabato 12 novembre 2022 dal titolo "La Corte europea ordina al governo: curate nelle Rems quei due detenuti. Malati di mente illegalmente a San Vittore", a firma di Luigi Ferrarella. I provvedimenti della Corte europea dei diritti dell'uomo nominati non sono al momento ostensibili.  

 

1. Ancora una volta la Corte di Strasburgo ha avuto la necessità di intervenire ed ha ordinato al governo italiano di assicurare “un posto” nelle Rems a due persone, detenute nella casa Circondariale di Milano San Vittore assolte dai reati loro ascritti perché totalmente incapaci di intendere e di volere e ritenute socialmente pericolose.

Da articoli apparsi sulla stampa si apprende che una di queste persone era stata imputata di danneggiamento per avere scassinato la sella di uno scooter; la seconda è un australiano imputato di avere commesso una rapina ad una fermata di un autobus. Entrambi assolti e – ciò nonostante – da mesi detenuti nel carcere milanese.

Sempre da articoli comparsi sulla stampa, si apprende che per una di queste persone, subito dopo la pronuncia della Corte Edu, sarebbe stato trovato un posto nella rems ligure, destinata ad ospitare persone proveniente da tutta Italia.

Una lettura affrettata di questa vicenda potrebbe fare pensare ad una cronica insufficienza di posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza “psichiatriche” e potrebbe indurre ad accogliere con soddisfazione l’istituzione della Rems ligure, destinata a soccorrere quelle regioni che non sono in grado di “reperire” un posto per le persone assolte per vizio di mente.

 

2. È dunque necessario ribadire concetti già più volte espressi, ma purtroppo costantemente ignorati.

In sintesi i principi di fondo della legge n. 81 del 2014 (e dunque di una legge che ha ormai ben otto anni di vita) sono:

1) il principio di priorità della cura necessaria;

2) l’essere la misura di sicurezza detentiva misura residuale e transitoria;

3) la centralità del progetto terapeutico individuale;

4) il principio di territorialità della cura[i].

La riforma – la cui concreta realizzazione non è più procrastinabile - ha posto al centro del sistema i Dipartimenti di salute mentale, titolari dei programmi terapeutici individuali; le Rems oggi sono solo un elemento del sistema di cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici autori di reato.

I Dipartimenti di salute mentale, servizi territoriali ai quali è affidata la cura dei malati psichiatrici e titolari del programma terapeutico individuale, hanno assunto il ruolo centrale. Anche se purtroppo le risorse finanziarie dei Dipartimenti non sono state aumentate come la nuova legge avrebbe necessariamente richiesto.

È evidente la assoluta necessità di rispettare il principio di territorialità, in quanto strettamente connesso alla finalità della cura che è necessariamente anche quella del reinserimento del soggetto nel tessuto sociale di provenienza.

 

3. È dunque in chiaro contrasto con lo spirito della legge n. 81 l’istituzione di una nuova Rems (quella ligure) nella quale collocare tutti quei soggetti che non riescono ad essere accolti nella regione di provenienza. Si tratta di persone che non potranno avere reali contatti con i Centri per la cura, siano essi CPS o centri di salute mentale, presso i quali sono (o dovrebbero) essere in cura e che dovrebbero redigere nei loro confronti un programma terapeutico, che non potranno ricevere visite dai medici psichiatri di riferimento, che non potranno avere contatti di alcun tipo con il proprio tessuto sociale di provenienza (si pensi banalmente alle visite dei parenti).

Se da una parte la nuova Rems potrà portare alla scarcerazione di soggetti detenuti senza titolo (in quanto assolti per vizio totale di mente), non sarà però di alcuna utilità per la attuazione dei principi che dovrebbero presiedere alla materia.

 

4. La stessa necessità di costruire nuove Rems non è poi un dato pacifico: da un punto di vista logico, sarebbe preliminare verificare se veramente tutti i soggetti destinatari di una misura di sicurezza detentiva non abbiano altre possibilità di venire curati, nel rispetto della esigenza della tutela della sicurezza dei terzi. 

Dobbiamo chiederci se davvero i principi della nuova disciplina vengano correttamente applicati; se ha un senso – di tutela della collettività e di cura dell'imputato/paziente – disporre la misura di sicurezza detentiva a fronte di reati caratterizzati da una non elevata gravità; o se non sarebbe opportuno riservare la misura di sicurezza detentiva a coloro che commettano reati con violenza alla persona o comunque con modalità tali da fare ritenere concreto il pericolo che possano porre in essere comportamenti pericolosi per l’incolumità dei terzi. 

La legge dispone chiaramente che la misura di sicurezza detentiva può essere disposta solo quando siano acquisiti elementi dai quali risulta che ogni altra misura di sicurezza – vale a dire la libertà vigilata, normalmente comunitaria – non è idonea ad assicurare cure adeguate a fronte della pericolosità sociale dell’imputato.

Ricordo che la mancanza del programma terapeutico individuale (che deve essere predisposto dal servizio territoriale) è per espressa disposizione di legge elemento che non può essere considerato al fine di supportare il giudizio di pericolosità sociale. Questa fondamentale disposizione implica che l’abbandono dell’autore del reato, la circostanza cioè che l’autore di reato non sia “preso in carico” da nessun servizio, non è elemento che possa essere posto a base della valutazione del giudizio di pericolosità sociale.

Sul punto deve essere ricordata la sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2015 che ha esposto principi importanti e che sul punto specifico ha affermato: “l’inefficienza delle amministrazioni sanitarie regionali nel predisporre i programmi terapeutici individuali non può tradursi nell’applicazione di misure detentive, inutilmente gravose per il malato”.

Ancora: sempre per espressa disposizione di legge, non sono elementi che possano supportare un giudizio di pericolosità prodromico all’applicazione di misura di sicurezza detentiva le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo di cui all’art. 133 comma 2 n. 4 c.p.

Un’applicazione rigorosa della normativa potrebbe risolvere (o quantomeno contribuire a risolvere in modo assolutamente rilevante) la cronica asserita mancanza di posti nelle Rems, riservandole a quei soggetti che realmente non possono essere curati se non in regime di privazione della libertà personale.

La misura di sicurezza detentiva deve essere utilizzata con estrema cautela. È pacifico l’effetto iatrogeno del ricovero, della prolungata istituzionalizzazione e della privazione della libertà del malato.

Non può essere attribuita ad una istituzione – nella specie la Rems – una funzione che deve essere svolta da altri. La cura del soggetto deve avvenire nei contesti a ciò specificamente deputati, riservando la misura di sicurezza detentiva ai soli casi nei quali il soggetto – sulla base di una valutazione rispettosa dei criteri di legge – debba essere considerato socialmente pericoloso e bisognevole di misura detentiva.

È evidente che – prima di destinare ingenti risorse economiche alla costruzione di nuove Rems e dunque di nuovi edifici ove collocare le persone – sarebbe necessario destinare risorse ai Dipartimenti di salute mentale ed alle loro articolazioni territoriali; assumere nuovi psichiatri, psicologi, educatori, assistenti sociali; rafforzare la presenza di strutture comunitarie (anche ad alta protezione).

In definitiva pensare a come “curare” anziché a dove “collocare”, nel rispetto dei diritti fondamentali di ogni individuo. Diritti che la Corte Costituzionale ha posto a centro del sistema con una nota pronuncia rimasta – purtroppo – ormai da venti anni inascoltata (nella sentenza n.  253/03 si legge: “La loro qualità di infermi richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. D'altra parte la pericolosità sociale di tali persone, manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato, e valutata prognosticamente in occasione e in vista delle decisioni giudiziarie conseguenti, richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli. Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell'infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell'infermo "pericoloso"), e non all'altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile. Di più, le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente (cfr. sentenze n. 307 del 1990, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996, sulle misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica): e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze”.

Concludendo: un approccio costituzionalmente orientato al problema impone di porre al centro della riflessione il malato (seppure autore di reato), il suo diritto alla cura e la necessità di tutela della collettività sulla base dei principi assolutamente chiari della legge 81.

Nessun risultato durevole potrà essere raggiunto aumentando (di quanto?) il numero di Rems: il malato – quanto meno alla scadenza della misura – tornerà sul territorio e se nessun progetto di cura da svolgersi nel suo luogo di dimora sarà stato attivato porrà in essere (verosimilmente) nuovi agiti, anche eventualmente di rilievo penale.

Con conseguenti costi (anche economici) per la società.

 

 

[i] Ricordo che l’art. 1 del  d.l. 52/2014, convertito nella legge 81/2014 dispone: Il giudice dispone nei confronti dell'infermo di mente e del seminfermo di mente l'applicazione di una misura di sicurezza, anche in via  provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando  sono  acquisiti  elementi  dai quali risulta che ogni misura diversa non  è  idonea  ad  assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il  cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità  soggettive della persona e senza tenere conto delle  condizioni  di  cui  all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice  penale.  Allo stesso modo provvede il magistrato di sorveglianza quando interviene ai  sensi dell'articolo 679 del codice di  procedura  penale. Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali.