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11 Agosto 2025


Osservatorio Corte EDU: giugno 2025

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Federica Alma (artt. 3, 5 e 8 Cedu) e Paola Concolino (artt. 6 Cedu).

 

In giugno abbiamo selezionato pronunce relative a: violenza di polizia nei confronti di manifestanti no-global (art. 3 Cedu); somministrazione di trattamenti psichiatrici obbligatori (artt. 3 e 5 Cedu); audizione di testimoni dinanzi a collegio diverso da quello che ha emanato la sentenza di condanna (art. 6 Cedu); persona disabile condannata sulla base di dichiarazioni rese in fase di indagini in assenza di un difensore perché vi aveva rinunciato (art. 6 Cedu); ricorrente nuovamente condannato in esito al giudizio di revisione instaurato a seguito della condanna dello Stato da parte della Corte europea per violazione del diritto di difesa (art. 6 Cedu); consenso informato a un intervento chirurgico meno invasivo di quello effettivamente realizzato (art. 8 Cedu).

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. I, 5 giugno 2025, Cioffi c. Italia

Trattamenti inumani e degradanti – violenze perpetrate da ufficiali di pubblica sicurezza ai danni di un manifestante – ineffettività dei procedimenti instauratisi presso le corti italiane – violazione

La Corte europea dei diritti dell’uomo è chiamata a pronunciarsi con riferimento ai maltrattamenti subiti dal ricorrente in una stazione di polizia, ove lo stesso era condotto dopo aver preso parte ad una manifestazione antiglobalizzazione nel marzo 2001. Dal 15 al 17 marzo 2001, difatti, nella città di Napoli era organizzato il terzo “Global Forum on Reinventing Government” e, per l’occasione, la città diveniva teatro di una manifestazione no-global, pianificata in corrispondenza della chiusura dei lavori del summit da un’ampia schiera di attivisti, tra i quali ambientalisti, anarchici, gruppi protestanti di sinistra, collettivi studenteschi e pacifisti. Al fine di garantire il regolare andamento del Forum, le autorità italiane adottavano plurime misure di sicurezza e, tra queste, dispiegavano un contingente di forza pubblica attorno al centro città, designato zona rossa poiché luogo di materiale svolgimento dell’evento. Nel corso della manifestazione, tuttavia, un gruppo di rimostranti tentava di forzare il cordone di polizia e di accedere all’area protetta: da ciò nascevano scontri violenti tra pubblici ufficiali e manifestanti, che determinavano il ferimento di un significativo numero di questi ultimi, prontamente condotti presso il pronto soccorso locale. Era in questo luogo che gli ufficiali di polizia procedevano, in un primo momento, all’identificazione di coloro ricoverati nei reparti e di chiunque in loro compagnia; gli stessi soggetti erano quindi accompagnati al commissariato di pubblica sicurezza “Virgilio Raniero”, ove erano sottoposti a plurimi soprusi verbali e fisici. Arrivati alla stazione di polizia, difatti, gli individui erano costretti a camminare lungo un corridoio, circondati da pubblici ufficiali che, a turno, tiravano loro schiaffi e calci, sputavano loro addosso e li ricoprivano di insulti; alcuni dei soggetti erano, poi, forzati a rimanere in ginocchio, con le mani dietro la testa, anche dove visibilmente affetti da menomazioni fisiche; altri, invece, spogliati e a piedi nudi su un pavimento ricoperto da sangue ed urine, erano obbligati a subire perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie. Tra gli 85 soggetti costretti a subire i trattamenti descritti si distingueva, in particolare, il ricorrente, bersaglio di angherie connotate da particolare crudeltà: l’individuo, infatti, qualificatosi come praticante avvocato, domandava agli agenti le ragioni del proprio trattenimento e, di tutta risposta, era sottoposto a percosse, insulti e gravi minacce, nonché ad una doppia ispezione personale, risultante nel sequestro di un portachiavi, “pericoloso oggetto nel suo possesso” secondo il verbale dell’attività di ricerca arbitrariamente realizzata. Esperite le vie legali innanzi ai diversi gradi della giurisdizione italiana, il ricorrente adisce la Corte di Strasburgo, lamentando una doppia violazione dell’articolo 3 della Convenzione, sotto il profilo sostanziale e sotto il profilo procedurale. Nella prospettazione del soggetto, difatti, se, da un lato, lo stesso avrebbe patito una compressione della propria integrità fisica e psichica in ragione dei trattamenti inumani e degradanti subiti presso il commissariato di polizia, d’altro canto i procedimenti instauratisi a seguito degli avvenimenti del marzo 2001 non sarebbero stati effettivi, poiché, pur avendo accertato la penale responsabilità dei pubblici ufficiali per condotte di significativa gravità, non avrebbero condotto all’applicazione ai responsabili di alcuna pena a causa della sopravvenuta prescrizione dei reati (§§ 65-72). In piena corrispondenza con quanto delineato dal ricorrente, i giudici della Corte Edu evidenziano la sussistenza di una duplice violazione dell’art. 3 Cedu. A livello sostanziale, infatti, i trattamenti subiti dall’individuo, come più in alto descritti ed accertati dai giudici italiani, possono correttamente qualificarsi come inumanti e degradanti in virtù delle loro concrete dinamiche esecutive, nonché delle conseguenze fisiche e psichiche degli stessi su chi ad essi sottoposto (§§ 83-88).  Quanto poi al profilo procedurale, la Corte chiarisce che la previsione di cui all’art. 3 della Convenzione, letta in combinato disposto con i doveri generali degli Stati membri di cui all’art. 1, impone la realizzazione di indagini effettive, che, a fronte di maltrattamenti perpetrati da autorità statali, portino all’identificazione ed alla punizione di coloro responsabili. In questa luce, i procedimenti celebrati innanzi alle corti italiane non paiono, ai giudici di Strasburgo, connotati da effettività (§§ 94-99): l’elevata complessità del caso ed il notevole numero di soggetti, imputati e persone offese, coinvolti nello stesso hanno, infatti, determinato la conclusione dell’iter processuale con pronunce di proscioglimento per intervenuta prescrizione dei reati accertati, così precludendo l’applicazione agli autori dei fatti di pene adeguate e proporzionate alla gravità dei trattamenti inumani e degradanti dagli stessi inflitti alle vittime. (Federica Alma)

Riferimenti bibliografici: C. Mostardini, Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 4, pp. 1567 ss.; A. Aimi, La mancata punizione dei torturatori di Bolzaneto: una nuova macchia sulla “fedina convenzionale” dello Stato italiano, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2018, 1, pp. 351 ss.

 

C. eur. dir. uomo, Sez. V, 5 giugno 2025, Spivak c. Ucraina

Trattamenti inumani e degradanti – Somministrazione di trattamenti psichiatrici obbligatori – inadeguatezza della disciplina nazionale – assenza di comprovate ragioni per l’applicazione delle misure di contenimento - violazione

Il caso portato all’attenzione dei giudici di Strasburgo riguarda la sottoposizione a trattamento psichiatrico obbligatorio di un soggetto, ristretto in un ospedale psichiatrico ad alta sicurezza su disposizione di una Corte penale distrettuale ucraina e nell’impossibilità di invocare il riesame della misura privativa di libertà, profili entrambi che, nel loro sovrapporsi, sarebbero risultati in un complessivo trattamento inumano o degradante dell’individuo. Procedendo per ordine nella ricostruzione dei fatti, nel dicembre 2011 il ricorrente era trovato presso l’abitazione di un conoscente in evidente stato confusionale, ubriaco e ricoperto di sangue, ed era quindi arrestato con l’accusa di tentato omicidio ai danni del soggetto che lo stava ospitando. Le perizie psichiatriche condotte nel corso delle indagini rivelavano che l’individuo non aveva mai sofferto né soffriva di malattie mentali, ma che, al tempo dell’agire criminoso, era stato colpito da uno “stato crepuscolare di coscienza”, disturbo mentale eccezionale e transeunte tale da far sorgere in lui idee deliranti e acute psicosi, accompagnate da azioni impulsive ed automatiche. Alla luce della mera transitorietà dello stato di squilibrio psichico e, pertanto, della generale coscienza e capacità di controllare il proprio agire posseduti dal ricorrente, la relazione peritale individuava, quale miglior trattamento per le sue condizioni, l’ospedalizzazione presso una struttura psichiatrica con regime di controllo ordinario. Nondimeno, all’esito del processo, i giudici ucraini, ritenuto di discostarsi parzialmente dagli esiti peritali, escludevano l’imputabilità del soggetto, incapace di intendere e di volere al momento dei fatti, e ne disponevano il ricovero presso un ospedale psichiatrico ad alta sicurezza, in ragione delle circostanze e della natura dell’offesa realizzata, nonché della pericolosità sociale dell’individuo, legata al rischio di una futura nuova manifestazione dell'eccezionale disordine mentale che lo aveva determinato ad agire. Il ricovero del ricorrente avveniva presso la struttura ospedaliera nazionale di Dnipro, ove lo stesso era costretto a vivere in stanze sovraffollate, con limitate possibilità di movimento e senza la facoltà di recarsi liberamente ai servizi se non su indicazione dello staff medico. Nonostante dal fascicolo sanitario non emergessero condizioni anomale né profili idonei a far temere nuove ricadute patologiche clinicamente rilevanti, i controlli periodici effettuati dagli psichiatri della struttura sul paziente confermavano sistematicamente la necessità della prosecuzione del suo ricovero: in questo senso, l’equipe medica dell’ospedale di Dnipro modificava l’originaria diagnosi di generale salute mentale del soggetto, rilevando l’esistenza di un disturbo della personalità di origine organica, e costringeva il ricorrente ad assumere farmaci antipsicotici e sedativi in dosaggi sempre più elevati. Il 13 ottobre 2014, a più di due anni dall’inizio del ricovero nell’ospedale psichiatrico, la Corte penale distrettuale respingeva per la prima volta la richiesta di prosecuzione dei trattamenti medici coattivi avanzata dalla struttura di Dnipro, facendo leva sul quadro clinico sostanzialmente stabile del soggetto e sulla calma dallo stesso dimostrata in giudizio: dopo un’iniziale contestazione delle decisioni dei giudici ucraini da parte dello staff medico, che si rifiutava di rilasciare il soggetto e così adempiere alla pronuncia della Corte (peraltro divenuta irrevocabile il 24 ottobre 2014), il ricorrente era finalmente dimesso dalla struttura il successivo 28 ottobre. Il ricorrente obietta che il suo lungo trattenimento presso la struttura ospedaliera di Dnipro, congiuntamente alla forzata somministrazione di farmaci in assenza di contingenti esigenze mediche ed alla permanenza in stanze dalle precarie condizioni igieniche, abbia integrato una violazione dell’art. 3 Cedu. I giudici di Strasburgo prendono le mosse da uno dei principi fondamentali della bioetica moderna e del diritto internazionale dei diritti umani: nessuna procedura medica può aver cittadinanza negli ordinamenti degli Stati contraenti in assenza del consenso libero ed informato del paziente chiamato a sottoporvisi. La tutela e la valorizzazione dell’autodeterminazione del singolo, così apprestate dal citato principio, passano, però, in secondo piano in ipotesi di misure sanitarie coattive, rese necessarie da esigenze di protezione della salute dell’individuo o della sicurezza dei consociati (§§ 173-176). Per ormai consolidata giurisprudenza sovranazionale, tali trattamenti medici cui il soggetto sia sottoposto contro la propria volontà – anche, come nel caso in esame, a scopo di assistenza psichiatrica – non sono di per sé inumani e degradanti, ma lo diventano ove realizzati in assenza di comprovate esigenze sanitarie (§ 168). L’accertamento circa la sussistenza di effettive ragioni di necessità medica diviene particolarmente stringente ove l’applicazione della misura medica determini una posizione di inferiorità e di privazione di poteri del paziente. È il caso tipico del soggetto confinato in un ospedale psichiatrico: tale contingenza impone, allora, sotto un primo profilo, l’esperimento di rigorosi controlli circa l’esistenza di un quadro legislativo di disciplina e di tutela del paziente sottoposto al trattamento e richiede, sotto altro aspetto, la verifica della corrispondenza delle misure adottate alla normativa in astratto delineata dal legislatore, nonché alle esigenze terapeutiche maggiormente idonee a preservare la salute fisica e mentale del paziente (§§ 169-171). Procedendo a tale duplice disamina, la Corte di Strasburgo rileva che non solo il quadro normativo ucraino risulta in astratto deficitario con riferimento alle tutele offerte al paziente che sia sottoposto a terapie mediche obbligatorie in strutture di assistenza psichiatrica, ma che dette carenze necessariamente si riverberano in concreto sulla verifica della legalità delle misure adottate e sulla loro adeguatezza alle esigenze di cura del paziente, così non riuscendo a garantire che le stesse terapie siano attuate nel rispetto dell’integrità fisica e della dignità della persona (§§ 190-203). Nel caso di specie ciò determina, allora, la palese violazione dell’art. 3 della Convenzione ed il concretizzarsi di trattamenti che, anche alla luce del loro materiale svolgimento in condizioni di sovraffollamento e di restrizione della libertà di movimento, non possono che qualificarsi come inumani e degradanti (§ 207). (Federica Alma)

Riferimenti bibliografici: A. Faina, Misure di contenzione fisica e violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti: la “sottile linea rossa” tra esigenze di tutela dell’incolumità del paziente psichiatrico e rispetto del margine di apprezzamento del giudice nazionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 1, pp. 332 ss.; R. Casiraghi, L’accesso alle R.E.M.S. tra Corte di Strasburgo e Corte Costituzionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 2, pp. 896 ss.; L. Franzetti, Detenzione di soggetti affetti da disturbi psichiatrici e promiscuità delle strutture carcerarie: la Cedu “boccia” il sistema penitenziario portoghese, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2024, 2, pp. 854 ss.; G. Filocamo, Discriminazione e trattamenti inumani o degradanti in relazione all’istituzionalizzazione di persone con disabilità intellettiva: la Corte edu condanna ancora una volta la Moldavia, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2024, 3, pp. 1238 ss.

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. V, 5 giugno 2025, Spivak c. Ucraina

Trattamento psichiatrico obbligatorio contrario a legge – assenza di mezzi di impugnazione delle misure applicate – controlli periodici della sussistenza dei requisiti di applicazione della contenzione del paziente presso un ospedale psichiatrico - violazione

Per la sintesi dei fatti e i profili relativi al divieto di trattamenti inumani e degradanti, v. supra sub art. 3 Cedu.  La Corte di Strasburgo veniva altresì chiamata a pronunciarsi sulla restrizione della libertà personale subita dal cittadino ucraino tra il 24 ed il 28 ottobre 2014, nonché sulla generale assenza di strumenti esperibili dal soggetto ristretto per eccepire l’illegalità delle misure cui era sottoposto, ovvero per richiedere il proprio rilascio o una compensazione per i danni patiti (§ 122).  Evidenziato che la detenzione arbitraria in un ospedale psichiatrico di un paziente il cui trattamento è giunto al termine comporta senz’altro una grave violazione del diritto alla libertà delineato dall’art. 5 della Convenzione (§ 130), la Corte Edu precisa che la natura dei trattamenti medici coattivi impone l’esistenza di strumenti legali a disposizione di chi vi sia sottoposto volti ad assicurare un costante controllo giurisdizionale delle misure ed un coinvolgimento dello stesso interessato. In questo senso, il sistema apprestato dall’ordinamento ucraino presenta profili di attrito con l’art. 5, par. 4, Cedu, poiché prevede, sì, verifiche periodiche della sussistenza dei requisiti di applicabilità dei trattamenti psichiatrici, ma non consente in alcun modo al paziente di adire autonomamente l’autorità giudiziaria per eccepire l’illegalità del ricovero coattivo (§§ 136-150). (Federica Alma)

Riferimenti bibliografici: A. Faina, Misure di contenzione fisica e violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti: la “sottile linea rossa” tra esigenze di tutela dell’incolumità del paziente psichiatrico e rispetto del margine di apprezzamento del giudice nazionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2021, 1, pp. 332 ss.; R. Casiraghi, L’accesso alle R.E.M.S. tra Corte di Strasburgo e Corte Costituzionale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2022, 2, pp. 896 ss.; L. Franzetti, Detenzione di soggetti affetti da disturbi psichiatrici e promiscuità delle strutture carcerarie: la Cedu “boccia” il sistema penitenziario portoghese, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2024, 2, pp. 854 ss.; G. Filocamo, Discriminazione e trattamenti inumani o degradanti in relazione all’istituzionalizzazione di persone con disabilità intellettiva: la Corte edu condanna ancora una volta la Moldavia, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2024, 3, pp. 1238 ss.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 3 giugno 2025, Manolache c. Romania

Equità processuale – principio d’immediatezza – assoluzione riformata in secondo grado a seguito di nuova audizione di testimoni decisivi esaminati di fronte a un collegio diversamente costituito rispetto a quello che ha emanato la sentenza – violazione

Il ricorrente, accusato di traffico di influenze illecite, è stato sottoposto a procedimento penale. L’accusa era fondata sulle dichiarazioni rese in fase di indagini dai querelanti (una coppia di coniugi) e da una serie di persone informate sui fatti alle quali i coniugi avevano riferito l’accaduto. Nel corso del processo di primo grado, i denuncianti, regolarmente citati, non sono comparsi in quanto si trovavano all’estero e delle loro dichiarazioni è stata data lettura in dibattimento. Il giudice di primo grado, all’esito dell’istruttoria, ha assolto il ricorrente in quanto ha ritenuto il compendio probatorio insufficiente ai fini di una condanna giacché gli unici testimoni diretti non avevano reso l’esame dibattimentale. Successivamente, invece, la corte d’appello ha condannato il ricorrente dopo avere accolto la richiesta della procura di svolgere una nuova audizione dei testimoni. Per l’occasione, anche i querelanti sono stati nuovamente citati e, comparsi, hanno reso l’esame. Nel corso dell’istruttoria in appello, tuttavia, il collegio giudicante – composto da due soli giudici – ha subito diversi mutamenti. In particolare, dei due giudici presenti all’esame dei querelanti, solo uno era anche membro del collegio al momento della decisione, mentre l’altro componente era stato, nelle more, sostituito. Il ricorrente lamenta che la corte d’appello, condannandolo in ultima istanza dopo l’assoluzione, abbia violato il principio d’immediatezza, in quanto i membri del collegio decidente non hanno proceduto entrambi all’audizione dei testimoni decisivi. Invoca, pertanto, l’articolo 6 Cedu, sostenendo che tale omissione abbia compromesso l’equità del procedimento penale a suo carico. La Corte europea accoglie il ricorso, ricordando che un aspetto essenziale dell’equità processuale consiste nella possibilità per l’imputato di confrontarsi con i testimoni alla presenza del giudice chiamato a decidere (§ 22). In altri termini, secondo i Giudici di Strasburgo, il principio di immediatezza esige che la decisione sia presa dagli stessi giudici che hanno assistito direttamente all’istruttoria (§ 23). Sebbene non sia vietato modificare la composizione del collegio giudicante durante il processo, in caso di cambiamento, il collegio nella sua nuova composizione deve avere piena conoscenza delle prove, anche tramite nuove audizioni, se la credibilità dei testimoni è in discussione (§ 23). Inoltre, nei casi come quello di specie, in cui interviene una condanna dopo un’iniziale assoluzione, la Convenzione obbliga il giudice di seconda istanza a sentire direttamente i testimoni rilevanti ai fini della decisione (§ 32). La Corte evidenzia, infine, che – diversamente da come era accaduto in altre ipotesi rimesse alla sua cognizione nelle quali aveva ritenuto salva l’equità processuale – il giudice che non ha assistito direttamente all’audizione dei testimoni chiave non era membro di un collegio ampio, ma di un collegio composto da due soli giudici, tenuti a decidere all’unanimità (§ 33). La Corte conclude pertanto che, nei confronti del ricorrente, vi è stata una violazione del principio di immediatezza e, quindi, del diritto ad un processo equo (§ 34). (Paola Concolino)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, Mutamento del giudice, diritto alla prova e adattamento dell’Al-khawaja test, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 3/2020, p. 1617; H. Belluta, Overturning the acquittal in appello e giusto processo: la Corte europea esige la rinnovazione della prova, ivi, n. 2/2017, p. 886; L. Pressacco, Equo processo ed immutabilità del giudice dibattimentale, ivi, n. 1/2017, p. 356.

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 12 giugno 2025, Krpelik c. Repubblica Ceca

Equità processuale – diritto all’assistenza di un difensore – persona disabile condannata sulla base di dichiarazioni rese in fase di indagini in assenza di un difensore perché vi aveva rinunciato – violazione

Il ricorrente, affetto da lieve disabilità intellettiva, è stato arrestato e interrogato dalla polizia in quanto sospettato di diversi furti. Durante i primi interrogatori e una visita sui luoghi del crimine, il ricorrente è stato informato dei suoi diritti – incluso quello all’assistenza legale – mediante la consegna di complessi moduli prestampati. In tale fase, non ha richiesto l’assistenza di un difensore – implicitamente rinunciandovi – e ha reso dichiarazioni confessorie. Successivamente, a seguito della richiesta da parte del p.m. di applicazione della custodia cautelare, è stato nominato un avvocato d’ufficio su consiglio del quale il ricorrente si è avvalso della facoltà di non rispondere. In fase processuale, diverse perizie hanno confermato la disabilità intellettiva e la vulnerabilità del ricorrente. Tuttavia, dopo l’assoluzione intervenuta in primo grado, il ricorrente è stato condannato in secondo grado principalmente sulla base delle dichiarazioni auto-incriminanti rese alle forze dell’ordine senza l’assistenza di un difensore. Il ricorrente adisce quindi la Corte eur. dir. uomo, lamentando una violazione del principio di equità processuale, sotto il profilo del diritto all’assistenza legale di cui all’art. 6 commi 1 e 3 lett. c) Cedu. I giudici di Strasburgo accolgono le doglianze del ricorrente, evidenziando come, data la sua vulnerabilità e lo squilibrio di potere che deriva dall’instaurazione di un procedimento penale, la rinuncia da parte sua al diritto all’assistenza legale poteva essere accettata dalle autorità solo se espressa in modo inequivocabile e dopo avere adottato tutte le misure per garantire che egli fosse pienamente consapevole dei suoi diritti e che potesse apprezzare, per quanto possibile, le conseguenze di dichiarazioni rese senza difensore (§ 82). In particolare, gli agenti avrebbero dovuto fornirgli una versione semplificata delle informazioni sui propri diritti ovvero avvalersi di un mediatore per facilitare la comunicazione e rendere le informazioni accessibili. E, laddove fosse residuato ancora un dubbio sull’effettiva comprensione dei propri diritti, avrebbero dovuto provvedere alla nomina di un avvocato (§ 87). Inoltre, pur avendo i tribunali nazionali accertato con perizie la vulnerabilità del ricorrente, non hanno svolto alcuno scrutinio sulla capacità di questi di effettuare una valida rinuncia all’assistenza legale in fase di indagini e, quindi, sull’ammissibilità della confessione come prova (§§ 94 e 97). Considerato che proprio la confessione resa in assenza del difensore è stata determinante i fini della condanna (§ 95), le rilevate carenze, in assenza di altre garanzie compensative, hanno pregiudicato l’equità complessiva del procedimento (§§ 98-99). (Paola Concolino)

Riferimenti bibliografici: S. Buzzelli, Violazione dei diritti di difesa tecnica e al confronto in Ucraina, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2017, p. 348.

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 26 giugno 2025, Alakhverdyan c. Ucraina

Equità processuale – ricorrente nuovamente condannato in esito al giudizio di revisione instaurato a seguito della condanna dello Stato da parte della Corte europea per violazione del diritto di difesa – mancata riassunzione dei testimoni – nuova condanna del ricorrente emessa dalla Corte suprema – violazione

Nel 2004, due donne furono uccise, il ricorrente arrestato e sentito come persona informata; questi, poco dopo, confessò il crimine senza l'assistenza di un difensore. La confessione del ricorrente costituì la base probatoria principale del processo penale nei suoi confronti che si concluse con una sentenza di condanna. Nel 2019, la Corte eur. dir. uomo, investita dal ricorrente che contestava l’equità del processo a suo carico, riscontrò una violazione dell’art. 6 Cedu perché la confessione – prova decisiva – era stata resa in assenza di assistenza legale. Sulla base di tale sentenza della Corte europea, il ricorrente ha chiesto la revisione della propria condanna alla corte suprema ucraina. Il giudizio avanti alla corte suprema nazionale si è articolato in diverse udienze durante le quali al ricorrente non è stato consentito di interloquire sul merito del processo, ma solo su aspetti formali legati alla revisione straordinaria. All’esito di tale giudizio, nel corso del quale non si è svolta alcuna attività istruttoria, la corte suprema ucraina ha pronunciato una nuova sentenza di condanna nei confronti del ricorrente. Nella motivazione di tale decisione era precisato che, pur espungendo dal compendio probatorio la confessione e tutti gli elementi di prova dalla stessa “contaminati” – secondo il principio del “frutto dell’albero avvelenato” – ugualmente sussistevano i presupposti per una condanna. Il ricorrente fa, pertanto, nuovamente ricorso alla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 6 Cedu. In particolare, il ricorrente lamenta che, a seguito dell’espunzione della confessione e delle altre prove ad essa connesse, il quadro probatorio si presentava con un diverso assetto e, a fronte di tale nuovo scenario, egli non ha avuto la possibilità né di predisporre una adeguata difesa né di esaminare e contro-esaminare i testimoni le cui dichiarazioni sono state ritenute ammissibili nel giudizio di revisione (Art. 6 comma 3 lett. b) e d) Cedu). I Giudici di Strasburgo accolgono il ricorso evidenziando che solo un nuovo processo e, quindi, una nuova istruttoria dibattimentale, avrebbe potuto accertare se le prove residue fossero da sole sufficienti a fondare la condanna del ricorrente (§ 75). Inoltre, un nuovo processo avrebbe consentito al ricorrente di conoscere l’impianto probatorio “aggiornato”, di valutarlo adeguatamente e di costruire la relativa linea difensiva (§ 76). La Corte conclude, quindi, accertando una nuova violazione dell’art. 6 Cedu nell’ambito del giudizio di revisione avanti alla corte suprema ucraina (§ 79). (Paola Concolino)

 

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. V, 26 giugno 2025, S.O. c. Spagna

Consenso libero ed informato ad un trattamento medico chirurgico ed ai suoi esiti prevedibili – dovere di informazione dell’esercente la professione sanitaria – tutela dell’integrità fisica e dell’autodeterminazione del paziente – protezione della dimensione della sessualità della donna - violazione

La vicenda sottoposta all’esame della Corte riguarda l’asserita insufficienza delle informazioni concernenti un intervento chirurgico date dagli esercenti la professione sanitaria alla ricorrente che doveva sottoporvisi, insufficienza tale da pregiudicare – secondo quanto lamentato dalla donna – la validità del consenso dalla stessa prestato. Più nel dettaglio, nell’anno 2016 alla ricorrente, già paziente oncologica nel 2005, era per la seconda volta diagnosticato un tumore al seno: una risonanza magnetica evidenziava, difatti, la presenza di una massa maligna a pochi millimetri dalla sua areola destra, imponendo l’adozione di trattamenti medici atti a rimuoverla. Il Comitato dei Tumori dell’Ospedale Gómez Ulla di Madrid individuava quale migliore soluzione per il trattamento della patologia un’operazione di quadrantectomia, volta alla rimozione del tumore ed al contempo alla preservazione della mammella interessata. Resa edotta della propria diagnosi e dei prospettati interventi chirurgici, la ricorrente sottoscriveva un modulo di consenso informato ed era sottoposta alla descritta parziale mastectomia. Nondimeno, durante l’operazione, la vicinanza della massa tumorale all’areola ed al capezzolo determinava l’equipe medica ad ampliare l’area dei tessuti asportati e a rimuovere in via precauzionale anche il complesso capezzolo-areola (c.d. “NAC”, nipple-areola complex), così da assicurare la tutela della salute – anche futura – della paziente. Avvedutasi degli esiti dell’operazione chirurgica, la donna presentava prima un reclamo alla Direzione Generale per la cura dei Pazienti ed al Dipartimento per la Salute della Comunità Autonoma di Madrid, quindi adiva l’autorità giurisdizionale civile spagnola, lamentando di aver prestato il proprio consenso solo all’effettuazione di una operazione di tipo conservativo e non anche all’asportazione dell’areola e del capezzolo, non interessati dalle cellule tumorali né oggetto delle informazioni alla stessa date prima dell’intervento. Nella prospettazione della paziente, l’assenza di adeguate indicazioni sulle prevedibili dinamiche dell’operazione chirurgica e l’estensione del perimetro dell’intervento a ricomprendere anche l’area “NAC” avevano, da un lato, pregiudicato il suo diritto a scegliere liberamente il migliore trattamento sanitario cui sottoporsi e, dall’altro, determinato sofferenze fisiche e psicologiche rilevanti, data l’asportazione di una porzione di tessuto intrisa di significato quanto all’immagine del corpo femminile ed alla libertà sessuale di una donna. Il Tribunale Supremo di Madrid rigettava, però, il ricorso, rilevando la piena rispondenza dell’intervento effettuato alle leges artis del settore oncologico: alla luce delle perizie mediche e forensi presentate nel corso del procedimento, l’obiettivo primario dell’operazione chirurgica cui era stata sottoposta la donna era quello di consentire la conservazione parziale delle ghiandole mammarie, obiettivo da ritenersi con successo raggiunto anche grazie all’asportazione del capezzolo e dell’areola, necessaria a garantire l’eliminazione integrale delle cellule tumorali e, così, il potenziale sviluppo futuro di nuove masse maligne. Chiamata a pronunciarsi sul caso in esame e sui suoi potenziali attriti con la Cedu, la Corte di Strasburgo evidenzia che dall’art. 8 della Convenzione discendono obbligazioni positive per gli Stati membri consistenti nell’adozione di misure effettive ed efficaci a consentire una completa tutela dell’integrità fisica dei pazienti. Tal protezione implica, tra gli altri profili, la necessità di fornire a chi si debba sottoporre a qualsivoglia intervento medico informazioni sufficienti ed adeguate sulle procedure sanitarie pianificate e sulle prevedibili loro conseguenze, in maniera tale da consentire la formazione e la concessione di un consenso libero ed informato (§§ 28-34). Sebbene la normativa spagnola in materia delinei una disciplina pienamente rispondente in astratto alle disposizioni dettate dalle fonti sovranazionali e, in particolare, dalla Convenzione di Oviedo, nel caso di specie è la concreta implementazione delle previsioni statali ad aver determinato una lesione dell’autonomia della ricorrente. Nota, difatti, la Corte che la formulazione testuale del modulo di consenso informato fornito e sottoscritto dalla paziente non è tale da offrire a chi, come la ricorrente, sia privo di conoscenze mediche, una visione sufficientemente chiara dell’intervento chirurgico né prospetta alla stessa l’eventualità di un ampliamento dell’area interessata dalla procedura, scenario senz’altro possibile nell’ambito di una operazione chirurgica oncologica, ove la natura della patologia ostacola la preliminare conoscenza dell’estensione delle cellule tumorali ai tessuti e agli organi adiacenti alla massa maligna e richiede non di rado modifiche dell’intervento in executivis (§§ 47-54). La necessità di tracciare con chiarezza le potenziali dinamiche dei trattamenti medici e di pervenire, così, ad un consenso fondato su informazioni complete ed esaustive diviene, poi, ancor più pregnante ove si considerino le significative ripercussioni che l’asportazione dell’area dell’areola e del capezzolo possono avere sul benessere fisico e mentale di una donna, data la loro influenza sull’immagine, sull’autostima e sulla vita sessuale della stessa (§§ 35 e 57). Non può che concludersi, allora, secondo i giudici di Strasburgo, per l’esistenza nel caso di specie di una violazione dell’art. 8 della Convenzione, derivante dall’assenza di indicazioni sufficienti – sotto il profilo quantitativo e qualitativo – alla formazione di un valido consenso informato della paziente al trattamento chirurgico ed ai suoi prevedibili esiti. (Federica Alma)

Riferimenti bibliografici: M. Mariotti, L’interruzione dei trattamenti vitali per il minorenne: il caso Charlie Gard, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 4, pp. 1546 ss.; S. Santini, Medical (mal)practice: quando lo Stato è responsabile della morte del paziente a causa di complicazioni post-operatorie?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2018, 2, pp. 974 ss.