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20 Novembre 2020


Osservatorio Corte EDU: ottobre 2020

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Carla Cataneo (artt. 3, 10 e 11 Cedu) e Valentina Vasta (art. 6 Cedu).

 

In ottobre  abbiamo selezionato pronunce relative a: perquisizioni personali illegittime (art. 3); statuizioni del giudice civile incompatibili con la presunzione di innocenza in sede penale (art. 6, due pronunce); mancata rinnovazione di prova a carico decisiva (art. 6); sproporzione della sanzione del licenziamento a fronte della denuncia di fatti penalmente rilevanti (art. 10); diritto del giornalista alla segretezza delle proprie fonti (art. 10); uso eccessivo della forza pubblica per disperdere una manifestazione non autorizzata (art. 11).

 

 

ART. 3 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, 22 ottobre 2020, Roth c. Germania

Trattamenti inumani e degradanti – mancanza di rimedi effettivi – perquisizioni personali illegittime – diniego del risarcimento del danno non patrimoniale – violazione

Il ricorrente, cittadino tedesco detenuto nel penitenziario di Straubing in Germania, adiva la Corte europea sostenendo che le ripetute perquisizioni corporali subite ed il diniego di risarcimento per il danno morale patito avessero integrato una violazione dell’art. 3 e dell’art. 13 Cedu (§ 85). Sotto il primo profilo, i Giudici di Strasburgo osservano come le perquisizioni corporali possono essere in astratto compatibili con la Convenzione se eseguite nel rispetto della dignità della persona e per uno scopo lecito, quale quello di garantire la sicurezza nelle carceri e prevenire crimini o disordini (§ 65). Tuttavia, ritengono che, nel caso di specie, le ripetute perquisizioni subite dal ricorrente in occasione di incontri con pubblici funzionari, pur essendosi svolte nel rispetto della dignità della persona, siano state arbitrarie e non giustificate dalla necessità di mantenere la sicurezza in carcere o prevenire la commissione di reati; esse, pertanto, hanno determinato un sentimento di arbitrarietà e di inferiorità, che ha comportato un grado di umiliazione superiore al livello inevitabile e tollerabile che le perquisizioni personali legittime inevitabilmente comportano (§ 72). Sotto il profilo dell’art. 13 Cedu, la Corte – ribadendo la propria giurisprudenza secondo cui subordinare il riconoscimento del risarcimento del danno alla capacità del ricorrente di provare la colpa da parte delle autorità può rendere inefficaci i rimedi esistenti (§§  93 e 96) – osserva come, nel caso in esame, i giudizi nazionali, pur riconoscendo che le perquisizioni in esame avessero comportato una grave interferenza con i diritti del ricorrente, hanno ritenuto che i procedimenti da quest’ultimo intentati non avessero prospettiva di successo e che fossero sufficienti a titolo di risarcimento le precedenti sentenze che avevano riconosciuto l’illegittimità di tali pratiche (§§  95-96); aggiunge, inoltre, che secondo la giurisprudenza della Corte non ha rilevanza, quale motivo per non concedere un risarcimento per il danno morale subito a seguito della violazione di un diritto della Convenzione, la circostanza che le autorità nazionali non fossero consapevoli della violazione o che il ricorrente non avrebbe nuovamente subito il medesimo trattamento (§ 97). Alla luce della mancanza di un ricorso effettivo dinanzi alle autorità nazionali, la C. eur. dir. uomo ritiene sussistente una violazione dell’art. 13 Cedu, in combinato disposto con l’art. 3 Cedu.

 

 

ART. 6 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 6 ottobre 2020, Agapov c. Russia

Equità processuale - presunzione d’innocenza - mancato avvio del procedimento penale per avvenuta prescrizione del reato - condanna in sede civile per il risarcimento dei danni da reato - impossibilità di difendersi in sede penale - violazione

L’Ispettorato interdistrettuale del servizio federale russo, a seguito di un audit condotto presso la società di cui il ricorrente era amministratore delegato, accertava il mancato pagamento dell’IVA, in violazione della normativa fiscale, e, per questo, condannava l’ente al pagamento delle somme dovute all’erario, dei relativi interessi di mora e di una penale. L’autorità amministrativa avviava, allora, ulteriori indagini sulla presunta evasione fiscale perpetrata dalla società, mettendo, poi, a disposizione i relativi risultati dell’autorità inquirente, la quale riteneva, da un lato, che il reato fosse stato commesso, e dall’altro, che non fosse possibile procedere penalmente poiché caduto in prescrizione. Successivamente, i giudici civili, aditi dall’Ispettorato, condannavano, però, il ricorrente al risarcimento del danno erariale cagionato dalla commissione del reato fiscale. Di qui, il ricorso per violazione dell’art. 6 § 2 Cedu dinnanzi alla Corte europea.

La questione da sciogliere per il giudice di Strasburgo è se il linguaggio utilizzato nella sentenza civile abbia rappresentato o meno un’attribuzione della responsabilità penale in capo al ricorrente (§ 40). Ebbene, il giudice civile ha statuito – sulla base esclusivamente del provvedimento dell’autorità investigativa – che il ricorrente avrebbe realizzato una serie di atti illeciti con l’intento criminale di evadere le tasse, rendendo, così, palese il convincimento che quest’ultimo avesse commesso il reato (§§ 41-43). Il ricorrente, asserisce la Corte europea, è stato dunque ritenuto colpevole di evasione fiscale senza né aver subito una condanna e né aver avuto mai la possibilità di difendersi in sede penale (§ 44). Ciò ha rappresentato la violazione del principio della presunzione d’innocenza. (Valentina Vasta)

Riferimenti bibliografici: V. Vasta, Presunzione di innocenza e pubblicità extraprocessuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1061.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 20 ottobre 2020, Pasquini c. San Marino (No. 2)

Equità processuale - presunzione d’innocenza - giudizio di secondo grado - condanna al risarcimento del danno a seguito di assoluzione per intervenuta prescrizione del reato - violazione

Il ricorrente, socio unico e presidente della società fiduciaria San Marino Investimenti (SMI), era stato condannato, nel primo grado di giudizio, alla pena di quattro anni di reclusione e al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile, oltre che al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva a favore della parte civile costituita, la SMI in liquidazione. In appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, l’imputato veniva prosciolto da diversi reati a lui ascritti tra cui quello di appropriazione indebita aggravata per intervenuta prescrizione, in relazione al quale, però, veniva confermata la condanna al risarcimento del danno inflitta in primo grado. Il ricorrente, allora, adiva la Corte europea, lamentando una violazione del principio della presunzione d’innocenza poiché, nel decidere sulle statuizioni civili, la sentenza di secondo grado conteneva l’affermazione della sua responsabilità penale. A interessare lo scrutinio della Corte di Strasburgo, dunque, è la presunzione d’innocenza come regola di giudizio, e, in particolare, il conseguente divieto per le autorità pubbliche di trattare come colpevole colui che è stato prosciolto o per il quale il procedimento penale è stato sospeso (§ 48). La Corte rileva che, nel caso di specie, il giudice d’appello ha disposto il risarcimento del danno sulla base dell’accertamento della responsabilità penale contenuto nella sentenza di condanna emessa in primo grado, esplicitando, inoltre, che la SMI era stata danneggiata dalle condotte illecite del ricorrente, consistite in atti di appropriazione indebita di fondi e che non residuava alcun dubbio in ordine alla sussistenza del dolo (§§ 55 e 63). Così formulate, le motivazioni della sentenza di secondo grado contengono non solo un riferimento agli elementi costitutivi del reato, pur rilevanti per l’affermazione della responsabilità civile, bensì l’attribuzione all’imputato dei fatti di reato per i quali era stato prosciolto. Di qui, la violazione dell’art. 6 § 2 Cedu (§ 64) (Valentina Vasta).

Riferimenti bibliografici: S. Basilico, Giudizio di colpevolezza in procedimento sospeso e presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 978.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 22 ottobre 2020, Tondo c. Italia

Equità processuale - overturning della sentenza di assoluzione di primo grado e condanna in appello sulla base della rivalutazione della credibilità di un teste d’accusa - mancata rinnovazione della prova decisiva - violazione

Il ricorrente veniva assolto, in prime cure, dall’accusa di omicidio volontario per aver agito in stato di legittima difesa e suo fratello da quella di tentato omicidio per non aver commesso il fatto. La sentenza di primo grado, impugnata dal pubblico ministero e dalla parte civile, veniva però riformata dalla Corte d’assise d’appello, la quale condannava il ricorrente per il reato ascritto e il coimputato per aver concorso nel medesimo reato. In particolare, i giudici di secondo grado avevano considerato insussistente la scriminante, sulla base della rivalutazione delle dichiarazioni rese da un teste d’accusa, ritenuto non credibile in primo grado, senza procedere alla riassunzione della testimonianza ai sensi dell’art. 603 c.p.p. Gli imputati, allora, ricorrevano per cassazione lamentando la mancata rinnovazione della prova a carico, per altro decisiva poiché si trattava dell’unico testimone oculare ad aver assistito all’intera dinamica dei fatti. I giudici di legittimità accoglievano parzialmente il ricorso e annullavano con rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui condannava il fratello del ricorrente, mentre confermavano la condanna di quest’ultimo, inequivocabilmente colpevole perché aveva sparato il colpo di pistola che avrebbe cagionato la morte della vittima. Il ricorrente, allora, adiva la Corte europea, dolendosi di essere stato condannato in violazione dei diritti difensivi garantiti dall’art. 6 § 1 Cedu.

I giudici di Strasburgo, in primo luogo, hanno posto in evidenza come la corte d’assise d’appello avesse deciso una questione di fatto, ossia l’attendibilità della prova dichiarativa a carico, modificando la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado; in secondo luogo, hanno ribadito che la valutazione della credibilità di un testimone è un compito complesso e per questo di regola non può essere compiuta ex actis (§ 43). Principio che, in realtà, la Corte di cassazione ha applicato, ma solo a favore del fratello del ricorrente. Per quest’ultimo, infatti, la Cassazione ha negato la necessità della riapertura dell’istruzione, nonostante la corte d’appello avesse escluso che  egli avesse agito per legittima difesa in base a una diversa ricostruzione della dinamica dei fatti, tanto in ordine alla posizione della vittima al momento dello sparo, quanto al pericolo che la persona offesa poteva rappresentare, in quel frangente, per l’imputato. Elementi, questi, oggetto della prova da rinnovare (§ 44). Per tali ragioni, la C.edu ha ritenuto iniquo il procedimento a carico del ricorrente (Valentina Vasta).

Riferimenti bibliografici: L. Pressacco, Principio di immediatezza e reformatio in peius tra Strasburgo e Roma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1552.

 

 

ART. 10 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. V., 8 ottobre 2020, Goryaynova c. Ucraina

Libertà di espressione – Licenziamento del pubblico ministero dopo la pubblicazione di una lettera su Internet in cui denuncia presunti fatti di corruzione avvenuti presso la procura locale – Mancata analisi di fattori rilevanti da parte dei tribunali nazionali – violazione

La ricorrente, cittadina ucraina che ricopriva il ruolo di procuratore capo presso l’ufficio del procuratore regionale di Odessa, lamentava di essere stata licenziata dopo aver pubblicato su un sito internet una lettera indirizzata al Procuratore generale dell’Ucraina in cui esprimeva preoccupazione per presunti fatti di corruzione avvenuti sul suo posto di lavoro; allegava, in particolare, di aver denunciato senza successo la vicenda ai suoi superiori e di aver impugnato il licenziamento dinanzi alle autorità giudiziarie locali, che avevano confermato tale sanzione disciplinare in diversi gradi di giudizio (§§ 40-43). Nel valutare se, nel caso in esame, l’interferenza con la libertà di espressione fosse compatibile con la Convenzione ai sensi del par. 2 dell’art. 10 Cedu, la Corte afferma che il licenziamento era in effetti previsto dalla legge (in particolare, dalle disposizioni speciali nazionali che disciplinano la responsabilità dei pubblici ministeri) e potesse ritenersi giustificato dalla necessità di mantenere l’autorità della magistratura ovvero di proteggere la reputazione altrui (§§ 55-57). In relazione alla necessità di tale interferenza in una società democratica, la Corte ritiene che, nel caso di specie, le azioni della ricorrente non possano essere considerate come “divulgazione”, non avendo diffuso informazioni apprese in ragione del suo ufficio; osserva, inoltre, come i tribunali nazionali abbiano completamente omesso di indagare il contenuto e l’attendibilità delle dichiarazioni della ricorrente, limitandosi a ritenerle infondate, false, offensive e rivelatrici di informazioni riservate, senza effettuare un bilanciamento in concreto tra il dovere di lealtà del procuratore e l’interesse pubblico alla diffusione di informazioni sulla corruzione in ambito giudiziario (§§ 59-61). Nel decidere in merito al licenziamento, secondo la Corte, le autorità giudiziarie nazionali avrebbero dovuto verificare l’applicabilità di sanzioni disciplinari meno gravi, nonché l’effettiva possibilità per la ricorrente di denunciare la presunta corruzione ai suoi diretti superiori o l’esistenza di mezzi alternativi per riferire il presunto reato (§§ 62-64). Alla luce di tali rilievi, la Corte ritiene che l’interferenza nel diritto alla libertà di espressione della ricorrente non sia risultata proporzionata allo scopo legittimo perseguito, in violazione dell’art. 10 Cedu.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 6 ottobre 2020, Jecker c. Svizzera

Libertà di espressione – Ordine ad una giornalista di rivelare l’identità di una fonte giornalistica – Esistenza di un imperativo di interesse pubblico non dimostrato nel caso concreto – violazione

La ricorrente, giornalista svizzera, pubblicava un articolo nel quale descriveva l’attività di uno spacciatore di sostanze stupefacenti, coinvolto in un redditizio traffico di cannabis e hashish da dieci anni. Le autorità nazionali aprivano un’indagine al fine di individuare l’autore dell’attività illecita descritta dalla giornalista. Nonostante quest’ultima avesse inizialmente rifiutato di rivelare l’identità della fonte, appellandosi alla libertà di espressione, i giudici nazionali non le avevano riconosciuto il diritto di astenersi dalla testimonianza. La Corte europea, ribadendo la sua consolidata giurisprudenza secondo cui la protezione delle fonti giornalistiche rappresenta uno dei cardini della libertà di stampa e un’ingerenza da parte delle pubbliche autorità può essere considerata compatibile con l’art. 10 Cedu solo se giustificata da un imperativo di interesse pubblico (§§ 30-32), rileva che nel caso in esame l’ingerenza era prevista dalla legge nazionale e giustificata dall’interesse alla prevenzione del crimine (§ 34). Passando a valutare la necessità di tale ingerenza in una società democratica, ossia se l’ordine di rivelare la fonte giornalistica fosse proporzionato allo scopo legittimo perseguito, la Corte sottolinea che non è sufficiente sostenere, da parte delle autorità nazionali, che in assenza di tale informazione l’indagine penale non potrebbe proseguire, dovendo tenersi in considerazione anche la gravità dei reati che vengono in rilievo (§ 38). I giudici nazionali, invece, avevano effettuato tale valutazione limitandosi a tenere in considerazione la scelta astratta del legislatore di inserire il reato in questione (cessione di sostanze stupefacenti classificabili come droghe leggere) all’interno del catalogo delle eccezioni al diritto alla protezione delle fonti giornalistiche previsto dalla normativa nazionale (§ 39). Secondo la Corte, avrebbe dovuto essere attribuita maggiore rilevanza alla tutela di contro-interessi che ostavano alla rivelazione della fonte, segnatamente il notevole interesse pubblico suscitato dall’articolo (ossia la notizia che un trafficante di droga era attivo da anni senza essere scoperto); il rischio per la reputazione del giornale di fronte a potenziali fonti future; nonché l’interesse della collettività a ricevere informazioni impartite tramite fonti anonime (§ 40). Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che i tribunali nazionali non avessero dimostrato che l’obbligo di riferire le fonti corrispondesse a un “bisogno sociale urgente” e che, pertanto, l’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione della ricorrente risultasse necessaria in una società democratica.

Riferimenti bibliografici: per un interessante caso che ha coinvolto l’Italia in relazione all’art. 10 Cedu, v. M. Crippa, La pubblicazione di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte EDU condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. It. dir. proc. pen., n. 2/2020, pag. 1164.

 

 

ART. 11 CEDU

 

C. eur. dir. uomo., sez. III, 6 ottobre 2020, Laguna Guzman c. Spagna

Libertà di riunione e associazione – riunione pacifica non autorizzata – uso ingiustificato della forza da parte della polizia contro i manifestanti – violazione

La ricorrente, cittadina spagnola, lamenta la violazione dell’art. 11 Cedu., sostenendo che l’autorità di pubblica sicurezza abbia interferito con il suo diritto alla libertà di riunione, essendo intervenuta con una forza sproporzionata per disperdere un gruppo di manifestanti che, successivamente ad una manifestazione regolarmente comunicata alle autorità, aveva continuato a marciare spontaneamente per la città di Valladolid (§ 37). La Corte ritiene che vi sia stata un’ingerenza nel diritto della ricorrente alla libertà di riunione pacifica, atteso che la stessa è stata ferita dalla polizia mentre continuava a marciare dopo la fine della manifestazione, pur senza aver posto in essere alcuna azione violenta (§§ 40-43). Valutando il profilo della necessità dell’ingerenza da parte della polizia, ovvero se il suo intervento fosse “proporzionato allo scopo legittimo perseguito” e se le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarlo fossero “pertinenti e sufficienti”, i Giudici di Strasburgo ribadiscono che, per giurisprudenza costante, laddove i partecipanti ad una manifestazione, ancorché irregolare, non commettano atti di violenza, si richiede alle autorità di mostrare un certo grado di tolleranza nei loro confronti (§§ 49-50). Tanto premesso, osservano come, nel caso in esame, non sia stata dimostrata la circostanza che la polizia abbia avuto difficoltà nel contenere i manifestanti o nel mantenere la sicurezza pubblica (§ 51). Alla luce delle circostanze concrete in cui si è svolto il raduno (di domenica mattina e su zona pedonale) ritengono, inoltre, che esso non abbia arrecato un disturbo dell’ordine pubblico superiore al livello minimo che consegue dal normale esercizio del diritto di riunione pacifica (§ 52). La Corte, infine, conclude ribadendo quanto già accertato dal giudice nazionale, secondo cui i manifestanti di Valladolid erano stati repressi violentemente, senza alcun preavviso, nonostante il fatto che non avessero bloccato il traffico o provocato lo scontro con gli agenti di polizia (§ 54). Pertanto, l’utilizzo sproporzionato della forza da parte delle autorità al fine di disperdere il corteo ha interferito in modo ingiustificato con la libertà di riunione pacifica della ricorrente, in violazione dell’art. 11 Cedu.

Riferimenti bibliografici: sebbene in relazione ad un caso concernente la violazione dell’art. 2 Cedu, C. Mostardini, Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 4/2017, p. 1567.