Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande camera, 3 giugno 2025, Kinsa (C-460/23)
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1. Il 3 giugno 2025 la Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sul caso Kinsa[1], scaturito da un rinvio pregiudiziale del Tribunale di Bologna[2] in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. La Corte ha affermato i seguenti principi:
“L’articolo 1, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali, letto alla luce degli articoli 7 e 24 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che:”
- “da un lato, non rientra nei comportamenti illeciti di favoreggiamento dell’ingresso illegale la condotta di una persona che, in violazione del regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone, fa entrare nel territorio di uno Stato membro minori cittadini di paesi terzi che l’accompagnano e di cui è effettivamente affidataria e,”
- “dall’altro lato, che tali articoli ostano una normativa nazionale che sanziona penalmente una siffatta condotta”.
2. La Corte di giustizia interviene così per la prima volta sulla controversa disciplina dettata, a livello europeo, dal c.d. Facilitators package, cioè dalla combinazione tra la direttiva 2002/90/CE e la decisione quadro 2002/946/GAI, strumenti che da oltre vent’anni obbligano gli Stati membri a criminalizzare qualunque forma di agevolazione dell’immigrazione irregolare, anche in assenza di scopo di lucro (cfr. in particolare la nozione di favoreggiamento di cui all’art. 1, par. 1, lett. a della direttiva, oggetto del dispositivo sopra riportato), conferendo loro al contempo la mera facoltà di esentare da responsabilità le condotte di carattere umanitario (così l’art. 1, par. 2 della direttiva medesima)[3].
Una facoltà che l’Italia (come del resto la maggior parte degli Stati membri) ha scelto di non esercitare, dotandosi di una norma incriminatrice, l’art. 12 del testo unico immigrazione, che, elevando a reato qualunque atto diretto a procurare ingressi irregolari, è suscettibile di attrarre nell’area della rilevanza penale non solo il traffico di migranti, ma anche l’agevolazione meramente occasionale e perfino le condotte animate da finalità di soccorso, di solidarietà ovvero – come nel caso che ha dato origine alla vicenda in esame – di assistenza famigliare[4].
Parimenti per la prima volta la Corte di giustizia si avvale del principio di proporzionalità cristallizzato nell’art. 52, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali (d’ora in avanti, CDF) per interpretare restrittivamente un obbligo di tutela penale europeo e, parallelamente, per sancire il carattere ostativo della Carta rispetto a un'implementazione di tale obbligo, nel diritto penale nazionale, suscettibile di sacrificare il “nucleo essenziale” di diritti sostanziali tutelati dalla Carta medesima, nel caso di specie il diritto al rispetto della vita famigliare (art. 7 CDF) e i diritti dei minori (art. 24 CDF).
In attesa di sviluppare un più ampio commento, ci limiteremo in questa sede a ripercorrere i passaggi essenziali della pronuncia e a sviluppare alcune embrionali considerazioni sulla soluzione adottata dalla Corte, anche rispetto agli effetti che è verosimilmente destinata a dispiegare nel caso a quo e in casi analoghi.
3. Giova in limine ricordare che l’ordinanza di rinvio pregiudiziale[5] scaturiva da un procedimento per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare nei confronti di una richiedente asilo congolese, fermata alla frontiera aeroportuale di Bologna mentre tentava di introdursi irregolarmente nel territorio italiano, con documenti falsi, portando con sé la figlia e la nipote, entrambe minorenni[6]. I quesiti pregiudiziali originari, per i quali si rinvia all'ordinanza, erano formulati in modo tale da mettere in discussione, a monte, la validità stessa del Facilitators package al metro del principio di proporzionalità sancito dall’art. 52, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali, letto congiuntamente a una serie di diritti sostanziali previsti dalla medesima Carta (incluso il rispetto della vita famigliare); e, a valle, la compatibilità dell’art. 12 t.u. imm. con i medesimi parametri.
La Corte di giustizia, tuttavia, dopo avere richiamato il principio in forza del quale agli atti dell’Unione deve essere data un’interpretazione, tra le varie possibili, conforme al diritto primario, che dal 2009 include anche la Carta dei diritti fondamentali (§ 37), ha riformulato entrambi i quesiti, ritagliandoli maggiormente sul caso di specie (§ 39). Anzitutto, con riferimento al versante del diritto europeo, la Corte si è chiesta se la condotta di una persona che fa entrare nel territorio di uno Stato membro minori stranieri di cui ha l’effettiva custodia rientri nella nozione di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di cui all’art. 1, par. 1, lett. a), della direttiva 2002/90/CE, letto alla luce del principio di proporzionalità di cui all’art. 52, par. 1 CDF, del diritto al rispetto della vita famigliare (art. 7 CDF), dei diritti del minore (art. 24 CDF), nonché del diritto d’asilo (art. 18 CDF); in secondo luogo, sul versante del diritto nazionale, si è chiesta se le medesime disposizioni della Carta ostino a una normativa che sanzioni penalmente la descritta condotta. Veniamo, allora, al ragionamento sviluppato dalla sentenza con riguardo a ciascuno dei due riformulati quesiti.
3.1. Per quanto riguarda il primo quesito, la Corte ribadisce, richiamando la propria giurisprudenza sull’art. 7 CDF, “che l’esistenza di una vita familiare è una questione di fatto dipendente dalla realtà pratica di stretti legami personali e che la possibilità per un genitore e il figlio di essere insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare” (§ 47). Il diritto alla vita famigliare, inoltre, deve essere letto sia congiuntamente all’obbligo di assegnare preminenza all’interesse superiore del minore in tutti gli atti che lo riguardino (art. 24, par. 2 CDF), atti tra i quali rientrano anche le “decisioni che non hanno come destinatario il minore, ma che comportano conseguenze importanti per quest’ultimo” (§ 48); sia congiuntamente al diritto del minore di intrattenere regolari relazioni con i genitori (art. 24, par. 3). Il legame del minore con i genitori, o comunque con coloro che ne hanno l’affidamento, sub specie di obbligo di questi ultimi di “assicurare, entro i limiti delle loro possibilità e dei loro mezzi economici, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo”, è sancito dall’art. 27, par. 2 della Convenzione dei diritti del fanciullo, di cui pure, ad avviso della Corte, occorre tenere conto nell’interpretazione della Carta (§ 50).
Poste queste premesse di ordine generale, la Corte risponde al primo quesito negando che rientri nella definizione di favoreggiamento dell’ingresso irregolare di cui all'art. 1, par. 1, lett. a) della direttiva 2002/0/CE l’accompagnamento in uno Stato membro del minore di cui l’adulto è affidatario, in violazione della disciplina sull’ingresso degli stranieri: “Un’interpretazione in senso contrario della disposizione in parola” – osserva la Corte – “comporterebbe un’ingerenza particolarmente grave nel diritto al rispetto della vita familiare e dei diritti del minore, sanciti, rispettivamente, agli articoli 7 e 24 della Carta, al punto da pregiudicare il contenuto essenziale di tali diritti fondamentali, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta” (§ 55).
Pur avendo a questo punto la Corte ha già raggiunto la statuizione che riporterà nel dispositivo, la motivazione prosegue aggiungendo ulteriori argomenti di rafforzamento. Il primo riguarda il diritto d’asilo, tutelato dall’art. 18 della Carta. Ad avviso della Corte, la presentazione della domanda di protezione non assegna solo il diritto a non incorrere in sanzioni penali a causa del proprio ingresso nel territorio (come previsto dall’art. 31 della Convenzione di Ginevra), ma anche il diritto a non incorrere nelle medesime sanzioni a causa del fatto di essere accompagnati, al momento dell’ingresso, da minori di cui si ha l’effettiva custodia. A quest’ultima conclusione la Corte perviene, in sintesi, ricordando anzitutto che il diritto d’asilo è espressamente fatto salvo dagli strumenti che compongono il Facilitators package, nonché dal Codice delle frontiere Schengen (art. 4); in secondo luogo, richiamando la propria giurisprudenza volta a censurare le “misure che, senza una giustificazione ragionevole, conducano a dissuadere un cittadino di un paese terzo dal presentare la sua domanda di protezione internazionale alle autorità competenti” (§ 62); in terzo luogo, richiamando le previsioni delle direttive accoglienza (2013/33) e qualifiche (2011/95) che sanciscono l’interesse superiore del minore e la centralità dell’unità famigliare nelle procedure d’asilo. Il ragionamento si conclude con un fugace richiamo al Protocollo di Palermo per il contrasto al traffico di migranti (§ 66), considerato ulteriore strumento di interpretazione conforme della direttiva, e segnatamente alla previsione secondo cui l’obiettivo della lotta al traffico di migranti deve essere perseguito contestualmente alla protezione dei diritti dei migranti stessi (art. 2 Prot.).
3.2. Volgendo quindi lo sguardo al secondo quesito, la Corte ricorda che l’interpretazione di una direttiva in senso conforme alla Carta vincola anche i legislatori nazionali in fase di recepimento della direttiva stessa. Pertanto, gli Stati membri non potranno introdurre norme che, andando oltre la portata dell’illecito di favoreggiamento definito dall’art. 1, par. 1, lett. a) della direttiva 2002/90/CE, come interpretato dalla Corte, determinino la violazione degli artt. 7, 24 e 52, par. 1, della Carta (§ 71).
Significativamente la Corte poi precisa che gli artt. 7 e 24 CDF “sono sufficienti di per sé e non devono essere precisati da disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale per conferire ai singoli diritti invocabili in quanto tali”; con la conseguenza che “se il giudice del rinvio dovesse constatare che non è possibile interpretare il proprio diritto nazionale in modo conforme al diritto dell’Unione, esso sarebbe tenuto ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica spettante ai singoli in forza di tali articoli e a garantirne la piena efficacia, disapplicando all’occorrenza l’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione” (§ 72).
Sulla scorta del ragionamento sin qui sintetizzato, la Corte enuncia i principi di diritto che abbiamo già riportato in apertura di questa analisi.
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4. Se da un lato non si può che condividere l’esito decisionale al quale è pervenuta la Corte europea, nel senso di escludere la rilevanza penale di condotte come quelle del caso a quo, dall’altro lato non ci convince fino in fondo lo strumento mediante il quale i giudici sono pervenuti a tale risultato, ossia l’interpretazione conforme. Ritenere che la nozione di favoreggiamento dell’ingresso irregolare dettata dall’art. 1, par. 1, lett. a) della direttiva 2002/90/CE debba essere riletta espungendo le condotte che limitano in maniera sproporzionata i diritti fondamentali, equivale infatti a svuotare di significato l’opzione, esplicitamente compiuta dal legislatore europeo nel 2002, di lasciare agli Stati la libertà di decidere se mandare esenti da responsabilità le condotte umanitarie (esercitando la facoltà di cui all’art. 1, par. 2 della direttiva stessa), ovvero se perseguire la protezione delle frontiere anche mediante la criminalizzazione di tali condotte (adottando norme incriminatrici testualmente corrispondenti all’art. 1, par. 1, lett. a). In altri termini, l’inequivoco tenore letterale dell’art. 1 della direttiva, letto nel suo insieme, rendeva a nostro avviso impercorribile la strada dell’interpretazione conforme.
È da questa constatazione di fondo che discendevano – e ad avviso di chi scrive tuttora discendono – i dubbi in ordine alla legittimità della disciplina europea; dubbi facilmente trasferibili anche sulla disciplina italiana che fedelmente la traspone. Sul punto ci limitiamo a rinviare alle ragioni già sviluppate in precedenti contributi, peraltro richiamati anche dall’ordinanza di rimessione che ne aveva esplicitamente condiviso l’impianto di fondo[7].
Sempre in chiave critica, non possiamo esimerci dal rilevare come, riformulando in senso restrittivo il quesito pregiudiziale del Tribunale di Bologna, e ritagliandolo sul caso di specie, i giudici di Kirchberg abbiano ridotto significativamente la portata del proprio arresto, perdendo un’occasione – la prima, come abbiamo già evidenziato, in oltre vent’anni di vita del Facilitators package – per confrontarsi a tutto tondo con quegli effetti sovra-criminalizzanti che tanto l’accademia quanto gli osservatori indipendenti e quelli istituzionali instancabilmente denunciano all’unisono[8].
Al netto di queste considerazioni critiche, la sentenza rappresenta un significativo passo avanti nella direzione del ridimensionamento degli obblighi di tutela penale dell’integrità delle frontiere europee; un passo tanto più meritevole di attenzione in quanto accoglie uno schema di sindacato giurisdizionale sulle scelte di criminalizzazione suscettibile di essere replicato anche per future questioni pregiudiziali, nei settori della “crimmigration” e oltre. Ma su questi profili, come già detto, ci riserviamo di tornare in un più ampio commento.
5. Non possiamo sottrarci, infine, dal compito di illustrare quali potrebbero essere, a nostro avviso, le possibili ricadute della sentenza Kinsa sul caso a quo e su eventuali casi analoghi. Sul punto occorre prendere le mosse dal secondo principio enunciato dalla Corte, quello in base al quale gli articoli 7, 24 e 52, par. 1 CDF “ostano” a una normativa nazionale che sanzioni penalmente una persona che agevola l’ingresso irregolare del minore straniero di cui è affidataria. Non vi è dubbio che, in questo modo, la Corte abbia offerto un’interpretazione della Carta suscettibile di paralizzare, in virtù del primato del diritto UE, gli effetti dell’art. 12 t.u. imm. rispetto alla categoria di condotte indicata. A tale proposito i giudici di Kirchberg si sono premurati di chiarire che le citate disposizioni della Carta, segnatamente quelle che riconoscono il diritto alla vita famigliare e i diritti dei minori, sono incondizionate e sufficientemente precise, e dunque appartengono al diritto primario dotato di effetto diretto. Ciò significa che il giudice comune può applicarle direttamente, senza necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale[9].
Fin qui i punti fermi. Rispetto alle modalità attraverso cui rendere operativo il primato del diritto dell’unione, la Corte ha indicato al giudice nazionale due strade: anzitutto quella dell’interpretazione conforme dell’art. 12 t.u. imm., sulla falsariga dell’interpretazione della direttiva fornita dalla Corte stessa; in secondo luogo, nel caso in cui l’esegesi adeguatrice non risultasse percorribile, la disapplicazione della norma incriminatrice. Diciamo subito che, a nostro avviso, le due strade si biforcano per poi tornare a unirsi sul piano degli effetti pratici: scelga l’una o l’altra, se vediamo correttamente il giudice a quo sarà in ogni caso chiamato a pronunciare sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”[10].
Tanto premesso, a noi pare che la strada preferibile sia quella della disapplicazione. Nell’attuare il Facilitators package, infatti, il legislatore italiano ha compiuto una chiarissima scelta a favore della criminalizzazione di qualunque attentato all’integrità delle frontiere nazionali. In questo senso depone, anzitutto, la già ricordata scelta di non introdurre una scriminante umanitaria per il favoreggiamento dell’ingresso irregolare; ma anche, in secondo luogo, la scelta di configurare un reato a consumazione anticipata, segno della pervicace volontà di prevenire gli ingressi indesiderati, intervenendo sulle condotte semplicemente tese a procurarli, comprese quelle realizzate in una fase dell’iter criminis nella quale non tutte le caratteristiche concrete della vicenda (incluse quelle che ne potrebbero, all’occorrenza, disvelare eventuali profili umanitari o solidaristici) si sono già necessariamente manifestate. Il combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 12 t.u. imm. è dunque a nostro avviso inequivoco nel prescrivere al giudice di sanzionare qualunque forma di agevolazione formalmente non in linea con la disciplina sull’ingresso degli stranieri dettata dal testo unico sull’immigrazione. Tanto è vero che nelle vicende giudiziarie relative ai soccorsi in mare, o all’agevolazione dell’ingresso di minorenni sotto la custodia dell’agente, la responsabilità penale è stata finora esclusa per difetto di antigiuridicità, in ragione dell’operare dell’adempimento del dovere e/o dello stato di necessità, e dunque sul presupposto che quelle condotte fossero tipiche[11]. In mancanza, dunque, di un presupposto fondamentale per procedere all’interpretazione conforme, ossia la pluralità di significati attribuibili alla norma sotto esegesi, non resta che procedere alla sua disapplicazione, con conseguente irrilevanza penale delle condotte contestate all’imputata (risultato peraltro coincidente, come già osservato, a quello raggiungibile mediante interpretazione conforme).
Parimenti, in considerazione dell’effetto erga omnes delle pronunce della Corte di giustizia, è agevole affermare che ad analogo esito assolutorio dovranno pervenire gli altri Tribunali (italiani o di diversi Stati membri), che si trovassero, attualmente o in futuro, a giudicare condotte dello stesso tipo, senza alcuna necessità di proporre un nuovo rinvio pregiudiziale. Ancora prima, le Procure della Repubblica italiana (nonché i corrispondenti uffici responsabili dell’esercizio dell’azione penale in Europa) non dovranno più considerare quelle condotte alla stregua di notitiae criminis, e dovranno pertanto astenersi dal sottoporne gli autori ad indagine.
Rispetto, infine, a eventuali sentenze di condanna passate in giudicato, pare percorribile la strada della revoca ex art. 673 c.p.p., da intendersi, sulla scorta di un’interpretazione che anche la Corte di cassazione ha già mostrato di condividere in precedenti vicende di illegittimità europea[12], quale rimedio finalizzato a rimuovere il giudicato illegittimo, nel nostro caso tale perché fondato su un’interpretazione dell’art. 12 t.u. imm. incompatibile con la Carta dei diritti fondamentali[13].
[1] Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande sezione, 3 giugno 2025, C-460/23, Kinsa. Originariamente il caso era stato denominato Kinshasa, dal nome della capitale del Congo, e alcuni dei primi commenti alla vicenda riportano ancora tale riferimento.
[2] Trib. Bologna, ord. 17 luglio 2023, giud. Bolici, in Sistema penale, 31.7.2023. Per un articolato commento, v. L. Bernardini, Il delit de solidarité davanti alla corte di giustizia: il caso Kinshasa come game changer per le politiche migratorie europee, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2024, n. 1, p. 1 ss.
[3] Per un’analisi critica delle menzionate fonti europee, e di quelle nazionali di cui si dirà appresso, sia consentito rinviare a S. Zirulia, Il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tra overcriminalisation e tutela dei diritti fondamentali, Giappichelli, 2023, p. 29 ss.
[4] L’art. 12, comma 2 t.u. imm. prevede una scriminante umanitaria applicabile solo al favoreggiamento realizzato a beneficio di stranieri già presenti irregolarmente sul territorio nazionale, peraltro di scarsissima utilità pratica considerato che il delitto di favoreggiamento della permanenza irregolare, previsto dal comma 5 dell’art. 12, è una fattispecie a dolo specifico di ingiusto profitto, dunque di regola già di per sé inapplicabile alle condotte umanitarie.
[5] V. supra, nt. n. 2.
[6] Per inciso si osserva che la vicenda concreta è la stessa all’origine della sentenza con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità della circostanza aggravante di cui all’art. 12, comma 3, lett. d) t.u. imm. per contrasto con i canoni di uguaglianza-ragionevolezza e proporzionalità della pena: cfr. Corte cost., 10 marzo 2022, n. 63, Pres. Amato, Est. Viganò. Sul tema v. A. Spena, Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare vs. traffico di migranti: una dicotomia rilevante nell’interpretazione dell’art. 12 TUI? (Ragionando su Corte cost. 63/2022), in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2022, n. 3, p. 238 ss.
[7] S. Zirulia, Non c’è smuggling senza ingiusto profitto. Profili di illegittimità della normativa penale italiana ed europea in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, in Diritto penale contemporaneo - Rivista trimestrale, 2020, fasc. 3, p. 143 ss.; nonché, amplius, Id., Il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, cit., p. 360 ss.
[8] Cfr., tra i più recenti documenti, la raccomandazione del Council of Europe Commissioner for Human Rights, Protecting the Defenders. Ending repression of human rights defenders assisting refugees, asylum seekers and migrants in Europe, 2024; nonché il rapporto PICUM, Criminalisation of migration and solidarity in the EU. 2024 Report, 2025. In dottrina, ex multis, V. Mitsilegas, The Normative Foundations of the Criminalisation of Human Smuggling. Exploring the Fault Lines between European and International Law, in New Journal of European Criminal Law, 2019, 1, p. 68 ss.
[9] A proposito della c.d. “doppia pregiudiziale”, tema sul quale non è possibile soffermarsi in questa sede, cfr., per una disamina critica a partire dal noto obiter dictum della sent. 269/2017, A. Sboro, Sindacato accentrato e doppia pregiudiziale di “impatto sistemico” dal “tono costituzionale”. Note a margine di Corte cost., sent. 181/2024, in Rivista del contenzioso europeo, 2025, n. 1, p. 1 ss.
[10] Trattasi della formula avallata dalla Corte di cassazione (sez. III, 28 marzo 2007, n. 16928, S.F.) per l’assoluzione conseguente alla disapplicazione del reato di esercizio abusivo di raccolta di scommesse, a seguito della sentenza con la quale la Corte di giustizia ne aveva evidenziata l’incompatibilità con le libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi previste dagli artt. 43 e 49 TCE (sent. 6 marzo 2007, Placanica e al., cause riunite n. C-338/04, 359/04 e 360/04). Successivamente, nel caso della disapplicazione del reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore (art. 14, comma 5-ter t.u. imm.), a seguito della sentenza che ne aveva riscontrata l’incompatibilità con la c.d. direttiva rimpatri (sent. 28 parile 2011, El Dridi, C-61/11 PPU), la Cassazione ha optato per la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, riconducendo la questione a un particolare fenomeno di abolitio criminis (sez. I, 28 aprile 2011, n. 22105, Tourghi; sez. I, 28 aprile 2011, n. 24409, Trajkovic). Questa impostazione, peraltro, risentiva della circostanza che i fatti oggetto dei procedimenti fossero stati commessi prima della scadenza del termine per la trasposizione della direttiva rimpatri, e dunque in un momento in cui l’effetto ostativo del diritto europeo sulla fattispecie italiana non si era ancora dispiegato (sul punto v. F. Viganò, L. Masera, Addio Articolo 14: nota alla sentenza El Dridi della Corte di giustizia UE in materia di contrasto all’immigrazione irregolare, in Rivista AIC, 2011, n. 3, p. 10). Il caso Kinsa, viceversa, ha per oggetto una disciplina rispetto alla quale gli effetti ostativi si sono prodotti a partire dal momento in cui la Carta dei diritti fondamentali ha acquisito lo stesso valore giuridico dei trattati, ossia dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1.12.2009); cioè a prescindere dal momento in cui tali effetti sono stati rilevati, con effetto dichiarativo, dalla Corte di giustizia. Di conseguenza, nel momento in cui l’imputata nel processo a quo ha realizzato la condotta, quest’ultima doveva considerarsi già estranea alla norma incriminatrice, e come tale non sussistente in quanto atipica.
[11] Per quanto riguarda i soccorsi in mare, cfr. Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2020, n. 6626, relativa al noto caso Sea Watch-Rackete. Meno cristallina è la giurisprudenza sull’assistenza nei confronti di figli minori, che pare oscillare tra il difetto di tipicità in ragione dell’asserita mancanza di relazione di “terzietà” tra genitore e figlio (concetto peraltro ricondotto alla potestà genitoriale, e dunque all’esercizio di un diritto-dovere), e lo stato di necessità: cfr. Cass. pen., sez. I, 23 ottobre 2008, n. 44048, R.I.; Cass. pen., sez. I, 3 giugno 2010, n. 23872, Rahimi, CED 247983; Cass. pen., sez. I, 24 novembre 2011, n. 5061, T.A.M.C.; Cass. pen., sez. I, 14 aprile 2021, n. 22734, B.F.
[12] Cfr., Cass., sez. VII, 6 marzo 2008, n. 21579, Boujlaib, CED 239961, nonché Cass., sez. III, 3 giugno 2014, Seck, CED 259956, in Cass. pen., 2015, 3, 1123, con nota di F. Urbani, entrambe relative alle fattispecie di cui all’art. 171-ter, comma 1 della legge sul diritto d’autore, giudicate dalla Corte di giustizia (, incompatibile con la direttiva 83/189/CEE (sent. 8 novembre 2007, Schwibbert, C-20/25): in entrambi i casi la Corte di cassazione ha ritenuto applicabile l’art. 673 c.p.p. “in virtù di un’interpretazione estensiva o analogica”.
[13] Sulle ragioni a sostegno della rimozione del giudicato quando la sua esecuzione perpetui una violazione di diritti fondamentali accertata da un organo sovranazionale, v., ancorché principalmente con riguardo al diritto Cedu e segnatamente alla vicenda Scoppola, ma con considerazioni traslabili nel settore che ci occupa, F. Viganò, Giudicato penale e tutela dei diritti fondamentali, in Diritto penale contemporaneo, 18.11.2012.